ALCUNE FORME DELLO SCETTICISMO NELLA RELIGIONE DELL’ANTICO EGITTO
Nelle rappresentazioni dell’antico Egitto compaiono spesso orchestrine miste che comprendono arpiste e arpisti o un solo arpista che canta o declama un inno o una canzone1. Questo tipo di rappresentazioni percorre tutta la storia d’Egitto, dal tempo delle piramidi, l’Antico Regno, fino al periodo romano.
L’importanza dell’arpista nei contesti funerari è confermata anche dalla tomba di Ramesse III nella Valle dei Re con le immagini di un arpista rivolto a due divinità2.
Nelle note che seguono ci soffermeremo solamente sulle immagini e i testi conosciuti nella letteratura egittologica come il canto dell’arpista della tomba di Antef, allo scopo di dare evidenza ad alcuni atteggiamenti scettici nei confronti del pensiero religioso ortodosso che affermava un’esistenza dopo la morte e un aldilà luminoso e beato.
Lo scetticismo – Il canto dell’arpista
Nei complessi funerari dell’Antico Regno sono spesso rappresentate delle orchestrine che accompagnano canti e danze. Tra i musici ci sono uno o più arpisti. Sono occasioni per festeggiare il defunto e i suoi ospiti durante i banchetti funerari nelle feste dedicate ai defunti.
Oppure si tratta di festeggiamenti per il felice esito di imprese considerate importanti: ne abbiamo un esempio con l’arrivo in Egitto delle piante di incenso recuperate da Punt per ordine del re Sahura3 (V dinastia).
La rappresentazione delle feste e l’aspetto degli arpisti è coerente con l’ottimismo di un popolo che sta vivendo il glorioso periodo delle piramidi e il consolidamento di una forte identità nazionale.
L’Antico Regno termina nel caos: per decenni le piene del Nilo sono insufficienti, la fame dilaga e la carestia provoca rivolte sociali. Anarchia e violenza sono cronaca quotidiana. Alcuni testi ci descrivono l’alterazione della maat4 e un pessimismo che addirittura induce a vagheggiare il suicidio.
Un quadro desolato delle tragiche condizioni dell’Egitto nel periodo successivo allo sgretolamento del regno menfita è descritto ne Le lamentazioni di Ipu-ur5. Un altro testo, che forse ha la sua origine in questi periodi di forte turbamento sociale, anche se ciò non è esplicito nel testo, è Il dialogo del disperato con la sua anima6.
Questo drammatico periodo verrà superato con i re della XI e XII dinastia (2080-1755 a.C.) che daranno all’Egitto un nuovo glorioso periodo noto come Medio Regno.
Ma il pessimismo non si è dissolto del tutto e compare come scetticismo ne Il canto dell’arpista del re Antef7. Un re Antef compare nella XI, nella XIII e nella XVII dinastia8. Nelle tombe tebane conosciute appartenute ai re di nome Antef non è stato ritrovato Il canto dell’arpista. Esso ci è noto da un papiro del Nuovo Regno, proveniente da Deir el-Medina (Tebe), conservato nel British Museum, il Papiro Harris 500, che comprende questo canto oltre ad alcune liriche d’amore. Nel Museo di Leida una stele del Nuovo Regno (XVIII dinastia, inizi del periodo amarniano, 1353-1356 a.C.), proveniente dalla cappella funeraria di Paatonemheb a Saqqara, ci ripropone il canto dell’arpista di Antef.
Interessante che i due testi uguali di Paatenmheb (in geroglifico) e del papiro Harris 500 (ieratico) provengano da siti lontani, Saqqara e Tebe, e siano distanziati di circa un secolo.
Quindi rimane dubbia l’origine e la datazione di questo testo. Si può anche ipotizzare che esso sia un’opera letteraria e che sia fatta risalire a un re Antef per dare maggiore prestigio al testo9.
In questo testo lo scetticismo si manifesta verso il ben ordinato e rassicurante immaginario dell’aldilà, nella religione tradizionale vagheggiato come un mondo simile a quello terrestre ma più fecondo e piacevole.
Canto che si trova nella tomba di Antef e che sta davanti all’arpista.
È il testamento di quel buon sovrano, dal felice destino
Periscono le generazioni e passano, altre stanno al loro posto, dal tempo degli
antenati, i re che esistettero un tempo riposano nelle loro piramidi, sono seppelliti
nelle loro tombe i nobili ed i glorificati ugualmente. Quelli che han costruito
edifici, di cui le sedi più non esistono, cosa è avvenuto di loro? Ho udito le parole
di Imhotep e di Hergedef che moltissimi sono citati nei loro detti: che sono
divenute le loro sedi? I muri sono caduti, le loro sedi non ci sono più, come se mai
fossero esistite. Nessuno viene di là, che ci dica la loro condizione, che riferisca i
loro bisogni, che tranquillizzi il nostro cuore, finché giungiamo a quel luogo dove
essi sono andati. Rallegra il tuo cuore: ti è salutare l’oblio. Segui il tuo cuore
fintanto che vivi! Metti mirra sul tuo capo, vestiti di lino fine, profumato di vere
meraviglie che fan parte dell’offerta divina. Aumenta la tua felicità, che non
languisca il tuo cuore. Segui il tuo cuore e la tua felicità, compi il tuo destino sulla
terra. Non affannare il tuo cuore, finché non venga per te il giorno della
lamentazione. Ma non ode la loro lamentazione colui che ha il cuore stanco: i loro
pianti, non salvano nessuno dalla tomba. Pensaci, passa un giorno felice e non te
ne stancare. Vedi, non c’è chi porta con sé i propri beni, vedi, non torna chi se n’è
andato.
Un altro splendido esempio di canto dell’arpista lo troviamo nella tomba di Inerkhawy, a Deir el-Medina (TT 359)10. Nel testo di questa tomba si adombrano forme di scetticismo, qui rese manifeste in modo meno crudo rispetto al testo di Antef.
“Io sono questo nobile, quest’uomo dabbene con il bel destino che il dio gli ha
assegnato. La forma che appare in un corpo svanisce, dal tempo del dio, e una
nuova generazione prende il suo posto. I bas e gli spiriti che sono nella Duat
[l’aldilà] e anche i defunti. Coloro che costruirono degli edifici e delle tombe, essi
sono là che riposano nelle loro piramidi. Tu hai costruito la tua dimora nella
Terra sacra [la necropoli] affinché il tuo nome duri; nella necropoli si terrà conto
del tuo lavoro e il tuo posto nell’Occidente sarà eccellente”.
Il testo prosegue invitando Inerkhawy a godersi la vita in una giornata perfetta.
Assmann ha classificato i “canti degli arpisti” in due gruppi: canti “ortodossi” e canti “eretici” . Il testo di Antef è decisamente un canto eretico, così come lo è il canto di Inerkhawy12.
I canti ortodossi si fondano sul pensiero religioso tradizionale: l’arpista canta le virtù del proprietario della tomba, i suoi meriti e descrive i benefici eterni dell’aldilà. Si tratta certamente di canti di carattere funerario13.
I canti eretici, come quello di Antef, intriso di scetticismo, si ritiene che fossero più facilmente cantati o declamati durante i banchetti delle feste private, invitando i commensali a godere la vita finché è possibile: carpe diem14. È il cinismo della ragione davanti alla brutale realtà della morte a fronte di idilliache promesse sul destino del defunto nell’aldilà.
Nella tomba di Neferhotep a Qurna (TT 50), grande prete di Amon, vissuto al tempo di Horemheb (1319-1292 a.C.), sono scolpiti ben tre canti dell’arpista: due sono canti eretici, intrisi di pessimismo; l’altro è un canto ortodosso che sostiene il contrario degli altri due15.
Per rendere bene la differenza dei canti ortodossi rispetto a quelli eretici riportiamo una parte di un canto dedicato dall’arpista a Neferhotep:
Oh padre divino, oh padre divino! Oh quale fortuna è la tua di unirti ai Signori dell’Eternità! E come nell’eternità perdura il tuo nome, mentre viene glorificato nella necropoli! Tutti gli dei che hai servito sin da quando esisti, tu ora sei di fronte al loro volto, ed essi sono pronti a ricevere il tuo ba e a proteggere la tua dignità. Essi raddoppiano il reddito delle tue braccia: purificheranno la tua bellezza, faranno sì che durino le offerte alla tua mummia, ogni dio con il suo cibo. Essi dicono: “Vieni in pace, o persona benefica al nostro ka!16
Il testo prosegue ancora a lungo con espressioni laudative.
Forse Neferhotep viveva con timore la prossima morte e dubitava dell’incerto destino che lo attendeva nell’aldilà, così cercava di barcamenarsi tra le due alternative descritte dai canti eretici e dal canto ortodosso. Ma è più probabile che una tale esuberanza di testi eretici e ortodossi nella tomba di Neferhotep confermi che essi erano utilizzati in occasioni diverse: nei banchetti civili come scene di vita quotidiana; oppure nei banchetti funerari come parte del rituale dell’offerta; o come augurio di buon viatico alla conclusione del “rito dell’apertura della bocca”17. Inoltre, si può ipotizzare che i canti ortodossi fossero canonici per le tombe allo scopo di idealizzare il defunto e l’aldilà; mentre i canti eretici sembrano rivolti ai partecipanti viventi di feste e banchetti con l’ovvio invito a godersi i piaceri della vita nel momento stesso in cui ciò stava avvenendo.
Sibylle Emerit ha raccolto i testi degli arpisti dipinti o scolpiti nelle tombe delle necropoli tebane e ha riscontrato che 9 testi sono ortodossi e 5 sono eretici; altre due tombe mostrano l’arpista ma il testo manca. Dalla collocazione dell’arpista nella tomba e dal testo del suo canto si può ipotizzare che il defunto sia già stato ammesso nel regno di Osiri e che stia per lasciare parenti e amici. Pertanto, il canto dell’arpista sarebbe funzionale a mettere in relazione il mondo dei vivi con l’aldilà18.
Nell’Antico Regno l’aspetto degli arpisti egizi nelle rappresentazioni di feste e banchetti è quello di persone normali: non sono ciechi né obesi e sembrano di giovane età. Ma già nel Medio Regno, alla fine della XII dinastia, la stele di Iki mostra un arpista calvo, pingue, con pieghe di grasso sui fianchi e cieco19. È certo che queste caratteristiche dell’arpista avessero un significato positivo per gli egizi, indicando nell’arpista un uomo ponderato e saggio (la maturità e la calvizie) e ben e inserito nel corpo sociale (la pinguedine). Più ambiguo è il significato da attribuire alla cecità. Si è anche ipotizzato che la cecità fosse indicativa di una perfetta intonazione.
Nella stele di Iki il nome dell’arpista è Neferhotep e il suo canto è canonico: “Oh, questa tomba, tu sei stata costruita per festività, tu sei stata costruita per virtù”.
Altre rappresentazioni di canti dell’arpista che ci sono pervenute risalgono al Nuovo Regno ed esse ci propongono diverse immagini dell’arpista20 e spesse volte l’arpista è “cieco”. O, meglio, con gli occhi chiusi, nel modo tipico usato dagli egizi per indicare la cecità. Anche nella celebre tomba di Nakht (TT 52, regno di Amenofi II, 1428-1402 a.C.) è dipinto un arpista abbastanza giovane ma cieco. L’arpista è rivolto verso il titolare della tomba, mentre alle sue spalle si sta svolgendo una festa.
Nel registro sottostante si svolge un’altra festa. L’orchestrina che allieta il convito è composta di un’arpa, di un liuto e di un doppio oboe suonati da tre belle fanciulle. È rimarchevole il fatto che tutte le musiciste dipinte nelle tombe, comprese le arpiste, siano giovani fanciulle, belle di aspetto e bene abbigliate. Tra loro non ci sono donne mature e corpulente, non c’è nulla che possa offendere l’estetica della bellezza femminile.
Ovviamente l’arpista del canto di Intef è un virtuoso solista che non ha nulla a che fare con arpisti/e delle orchestrine. Un minimo confronto tra le scene rende evidenti le differenze e dà un tono di classicità al cantore di Antef.
In Egitto il tracoma è sempre stato una malattia diffusa che provoca la cecità. Ma che tutti gli arpisti fossero ciechi desta qualche dubbio. Inoltre, soltanto gli arpisti maschi mostrano la cecità che invece non appare mai nelle arpiste. Così gli egittologi hanno ipotizzato diverse spiegazioni: una cecità di carattere magico, una convenzione artistica, un segnale di concentrazione e ispirazione musicale.
Quando l’arpista rivolge il suo canto a una divinità si può forse spiegare la cecità ipotizzando che l’essere umano non possa sostenere la visione del divino.
Nella tomba di Merira II ad Amarna un arpista è seguito da sette cantori che battono anche le mani. Tutto il gruppo è rappresentato calvo, con qualche tratto di pinguedine, d’età abbastanza matura.
La cecità di questi personaggi è rappresentata con molto realismo, tanto da farla ritenere una vera cecitàxxi. Ma rimane il dubbio perché questi cantori elevano il loro canto nel grande tempio del dio Aton e quindi la loro cecità può essere rituale.
Il ruolo delle donne che suonavano l’arpa era a volte francamente ambiguo quando sulle cosce portavano un tatuaggio del dio Bes.
Un testo papiraceo del periodo romano svillaneggia un arpista di nome Horudja e lo definisce professionalmente incapace22. Lo si rimprovera per la sua musica e per la sua voce:
Egli canta tutto ciò che è cattivo, l’arpa essendo più stridente della sua
voce…….Le sue dita sono più nodose delle radici e non sono adatte all’arpa. La
sua voce fa più rumore di un grande zappa.
Il testo dissacrante prosegue rimproverando a Horudja l’eccessivo amore per i cibi e le bevande.
Egli non conosce alcun canto, eccetto uno fin dalla nascita: sono affamato,
datemi da bere. C’è qualcosa da mangiare?
Colui presso il quale egli troverà vino e carne, egli si reca lì senza che sia stato
invitato. Egli discute con le persone della festa, dicendo: io non posso cantare
quando ho fame, io non posso alzare la mia arpa per declamare finché non abbia
bevuto a sazietà.
Il lungo testo del Papiro continua in questa azione di scherno totale di Horudja. Nel testo sembra anche di capire che Horudja vede da un solo occhio, quindi non è del tutto cieco. L’autore dell’articolo ritiene che questo sia un indizio utile per considerare che gli occhi chiusi vogliano indicare concentrazione e ispirazione musicale.
Può esserci nel periodo romano una relazione tra lo sprezzante dileggio di Horudja per la sua passione per il cibo e per il vino e l’esibita obesità nelle rappresentazioni degli arpisti?
Non è possibile che il titolare della tomba abbia voluto rappresentare una figura derisoria che sviliva il suo prestigio personale e quello della tomba. Non a caso la derisione di Horudja non si trova in una tomba ma in un testo letterario. Probabilmente in tempi precedenti la figura dell’arpista calvo, “cieco” e obeso voleva richiamare la percezione di un uomo maturo e saggio, un uomo vissuto che dava maggiore credibilità al suo canto23.
I testi cantati o declamati dagli arpisti fanno parte di una letteratura meditativa, sapienziale: testi scritti da uomini per gli uomini. La figura dell’arpista calvo, cieco e grasso24 sarebbe da considerare come un determinativo linguistico, in grado di indicare un significato visivo del testo geroglifico agli illetterati visitatori della tomba che essi non erano in grado di leggere25.
Gilberto Modonesi
1) Betrò & Simini, Sono venuta correndo a cercarti. Canzoni e musica nell’antico Egitto, Edizioni ETS, Pisa 2009: il Capitolo Quinto si sofferma ampiamente sugli arpisti dell’Antico Regno: pagg. 97-112. Manniche, Music and Musicians in Ancient Egypt, British Museum Press, London 1991.
2) Emerit, Le chant du harpist: une porte ouverte sur l’au-delà? in BIFAO 115/2015, pagg. 153-154: i brevi testi geroglifici che accompagnano le immagini dell’arpista sono così tradotte: “Parole pronunciate dal doppio collegio che è nella sala delle due Maat e degli dei che qui riposano”; “Parole pronunciate dal doppio collegio di Osiri/Atum che presiede la Duat”.
3) El Awady, Sahure – The Pyramid Causeway, Charles University in Prague, Prague 2009, fig. 83 a pag. 171 e fig 87 a pag. 183 e rappresentazioni al tratto in pl. 6.
4) Maat rappresenta l’equilibrio cosmico e sociale istituito dagli dei al momento della creazione. Questa fondamentale concezione religiosa è impersonata dalla dea Maat.
5) Bresciani, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Einaudi Tascabili, Torino 1999: Le lamentazioni di Ipu-ur, pagg. 102-117.
6) Bresciani, 1999, op. cit., pagg. 198-205.
7) Bresciani, 1999, op. cit., pagg. 206-207. Il volume di Betrò & Simini, 2009, op. cit., riporta la traduzione e il commento al canto di Antef: pagg. 124-126. Il volume ha molte illustrazioni di orchestrine e arpisti maschi e femmine. Anche il volume di Manniche, che dedica un capitolo al Canto dell’arpista (pagg. 97-107), propone la traduzione del testo a pag. 97 e riporta molte illustrazioni. Lichtheim, Ancient Egyptian Literature, Volume I: The Old and Middle Kingdom, University of California Press, Los Angeles 1985: pagg. 193-197. Il volume riporta i testi di alcuni canti di arpisti, compreso il canto di Antef attribuito al Medio Regno.
8) Manniche, 1991, op. cit., pag. 97.
9) Manniche, 1991, op. cit., a tale proposito cita i due arpisti rappresentati nella tomba di Ramesse III.
10) Cherpion & Corteggiani, La tombe d’Inherkhaouy (TT 359) à Deir el-Medina, I, Text, IFAO, Le Caira 2010: la traduzione del canto dell’arpista è alle pagg. 232-234. Anche il canto di Inerkhawy è tradotto e commentato in Betrò & Simini, 2009, op. cit., pagg.131-132.
11) Collombert, Le harpist dévoyé, in Egypt Afrique et Orient, n. 29, 2003, pag. 34.
12) Betrò & Simini, 2009, op. cit., dedicano ai canti eretici il Capitolo Sesto: pagg. 113-132.
13) Varille, Trois nouveaux chants de hartpistes, in BIFAO 35/1935, pagg. 153-160.
14) È il celebre invito di Orazio a godersi la vita finché si è in tempo: Orazio, Odi, 1, 11, 8.
15) Benderitter, Les chants du harpiste, nel sito web osirisnet.net: il caso di Neferhotep e la traduzione del testo ortodosso sono a pag. 4. Betrò & Simini, 2009, op. cit., riportano anche il secondo canto eretico di Neferhotep (pagg.126-130) e traducono anche quello di Cianofer (pagg. 130-131).
16) Betrò & Simini, 2009, op. cit., pag.108.
17) T. Davies, The Harpist’ Songs at Saqqara: Transmission, Performance, and Contest, in Perspectiveson Lived Religion (edited by N. Staring, H. Twiston Davies & L. Weiss), Sideston Press, Leiden 2019, pagg. 98-120.
18) Emerit, op. cit., in BIFAO 115/2015, pagg. 153-177.
19) Ancient Egypt Transformed (edited by A.Oppenheim, D.Arnold, D.Arnold, K.Yamamoto), Mtropolitan Museum of Art, New York 2015, Stele del supervisore dei preti Iki, pagg. 156-157, cat. 91 e arpista Neferhotep, cat. 92.
20) Le figure dell’arpista seguono il modello del Medio Regno rappresentato nella stele di Iki.
21) Manniche, 1991, op. cit., pag. 94. A pag. 100 Manniche afferma che questo gruppo sta partecipando a un rituale di offerta al dio Aton e al re Akhenaton all’interno del palazzo, non nel tempio.
22) Questo testo è conosciuto per un unico manoscritto, il Papiro Vienna 3877. Il Papiro è tradotto e commentato da Collombert, Le harpiste dèvoyé, in Egypte Afrique et Orient, n. 29, 2003, pagg. 29-40. La feroce critica contro Horudja è tradotta e si svuppa in ben 4 pagine, da pag. 36 a pag. 39.
23) Sull’argomento si vedano i commenti di Betrò & Simini, 2009, op, cit.: pag. 123.
24) Anche benestante come dimostra il suo abbigliamento.
25) Bochi, Gender and Genre in Ancient Egyptian Poetry: the Rhetoricof Performance in the Harper Songs, in Journal of ARCE, volume XXXV/1998, pagg. 89-95.