Nella “Pro Sexto Roscio Amerino” (80 a.C.) il giovane Cicerone, alla sua seconda orazione, cita come pena inflitta al parricida quella “del sacco”: allude alla poena cullei, la “pena del sacco”, appunto, per la quale chiunque avesse ucciso il padre, una volta condannato, sarebbe stato condotto in carcere con soleae ligneae (zoccoli di legno) ai piedi e un cappuccio di pelle di lupo in testa. Il colpevole veniva frustato con virgae sanguineae (verghe colore del sangue). Si continuava con l’inserimento del parricida in un sacco impermeabile (culleus), in cui veniva cucito insieme a degli animali: un cane, un gallo, una vipera e una scimmia. Il sacco col condannato e gli animali veniva poi issato su un carro trainato da un bue nero e trasportato attraverso la città, per poi essere gettato nel Tevere o altro specchio d’acqua.

Poena cullei

Lo storico Mommsen ha descritto il rituale, specificando che l’inserimento della scimmia nel bestiario, per motivi di difficile reperibilità, non poteva risalire all’ età monarchica o alla prima fase della res publica.

Secondo Max Radin, autore del famoso saggio “The Lex Pompeia and the Poena Cullei”, il prigioniero veniva frustato fino a sanguinare, non veniva frustato con verghe color sangue (anche se le due ipotesi in realtà non si escludono), e propose l’ ulteriore ipotesi che le fruste fossero in realtà ramicelli di cespugli con caratteristiche purificanti.

La scelta di associare i quattro animali, invece, appare relativamente chiara: il cane appariva nell’età antica un animale impuro e addirittura “immondo” (Orazio) , “disprezzabile e ignobile” (Agostino).

La scimmia era legata al parricida per due motivi: secondo Plinio, per soverchio amore le madri soffocavano nell’ abbraccio i loro cuccioli (e questo era testimoniato dall’ uccisione del padre da parte del condannato, sia pure in modalità contraria).

Ecco le parole di Plinio (“Naturalis Historia”, VIII, 216):

“Simiarum generi praecipua erga fetum adfectio. Gestant catulos quae mansuefactae intra domos peperere, omnibus demonstrant, tractarique gaudent, gratulationem intellegentibus similes, itaque ex parte complectendo necant.”

 Oltre  a ciò, la scimmia viene considerata un’oscena caricatura dell’uomo, esattamente come lo è il parricida, che ha sembianze umane e natura di bestia.

Plinio il Vecchio

 

Quanto al gallo, la scelta non cadeva su un gallo comune, ma sul cappone, che nel mondo antico godeva fama di ferocia. Appare singolare che il cappone, che uccideva i serpenti, fosse inserito nel culleus assieme ad una vipera, ma in un’ antropologia della condanna capitale così rigorosa e simbolica come quella romana non appare fuor di logica: la presenza nello stesso sacco di uccisore e ucciso (cappone e vipera) poteva simboleggiare la rottura della regola fondamentale del vivere civile che il parricida aveva infranto.

La simbologia della vipera era legata, invece, alla consuetudine da parte dei piccoli che, pronti per essere partoriti dalla madre ed impazienti di venire alla luce, uscivano dal fianco di essa, uccidendola. Anche questa credenza ci viene tramandata da Plinio.

Le prime testimonianze riguardanti la poena cullei sono ricordate dagli  storici Dionigi di Alicarnasso e Valerio Massimo, che ne fanno risalire la prima applicazione a Tarquinio il Superbo, quando un sacerdote che avrebbe dovuto custodire i libri sibillini, Marco Atinio, uno dei duumviri sacrorum, fu corrotto da un sabino e divulgò il contenuti dei libri. Tarquinio, che, ricordiamolo, era etrusco e dunque educato al rispetto dei misteri della religio, ordinò che il sacerdote fosse cucito in un sacco e gettato in mare.  Non tutti gli storici antichi, tuttavia, concordano con la ricostruzione di Dionigi e Valerio Massimo: Plutarco, nella “Vita di Romolo”, ci informa che la prima condanna alla poena cullei avvenne nel II secolo a.C., dopo la fine della II guerra punica, quando Lucio Ostio uccise di sua mano il padre.

Non solo: Plutarco aggiunge che a quei tempi “parricidio” era sinonimo di “omicidio” e che nessuno prima di allora era stato sfiorato minimamente dal pensiero di uccidere il proprio padre. In una società in cui la figura paterna era venerata, nessun cittadino romano, educato al rispetto della figura genitoriale, avrebbe osato anche solo immaginare di eliminarlo fisicamente. Ma il tempo e gli eventi cambiarono le cose: come racconta Sallustio, le guerre puniche furono un momento di degrado morale e di brutalizzazione della società romana, a causa della ambitio e della avaritia che cominciarono ad imperversare in una società che, fino a poco prima, aveva rispettato il mos maiorum e le regole del vivere civile. E se, prima della fine della seconda guerra punica (201 a.C.), gli assassini venivano consegnati alle famiglie delle vittime (come si evince dalla storia del console Marco Atilio Regolo) per sottomettersi alla giustizia privata da esse sancita, successivamente (dal II secolo a.C. in poi) le pene furono somministrate dalla res publica e dai suoi magistrati.

E al II secolo, infatti, data la condanna a morte di Caio Villio, che fu rinchiuso, per un reato non specificato dalle fonti, in una giara in mezzo ai serpenti. Nella “Rhetorica ad Herennium”, un trattato di retorica attribuito nel Medioevo a Cicerone, ma in realtà senza paternità certa e scritto tra l’ 86 e l’82, viene narrata dettagliatamente l’esecuzione di Publicio Malleolo, che aveva ucciso sua madre. Il caso giudiziario verrà ripreso da Cicerone nel “De inventione”, scritto attorno all’ 85 a.C.

Nel paragrafo 149 l’ Arpinate racconta, senza esplicitare il nome del condannato:

Quidam iudicatus est parentem occidisse et statim, quod effugiendi potestas non fuit, ligneae soleae in pedes inditae sunt; os autem obvolutum est folliculo et praeligatum; deinde est in carcerem deductus, ut ibi esset tantisper, dum culleus, in quem coniectus in profluentem deferretur, compararetur.

Ancora una volta il colpevole di parricidio, che sappiamo- dalla “Rhetorica ad Herennium”- chiamarsi Publicio Malleolo, dal momento che non ha potuto usufrure dell’ esilio come pena alternativa alla condanna a morte, è condotto in carcere. Gli si fanno indossare sandali di legno (ligneae soleae) e un cappuccio di pelle (os autem obvolutum est folliculo et praeligatum).

Lo storico patavino Livio colloca l’esecuzione di Malleolo a circa 10 anni prima della composizione della “Rhetorica ad Herennium” e afferma, inoltre, che Malleolo fu il primo nella storia romana a essere stato condannato per parricidio e a essere cucito in un sacco e gettato in acqua.

Come sostenuto sopra, il dibattito tra i romanisti e gli storici relativamente alla poena cullei è alquanto controverso. Nel I secolo a.C., infatti, la legislazione romana produsse due importanti leggi: la prima fu la Lex Cornelia De Sicariis, promulgata nell’ 80 a.C.; la seconda fu la Lex Pompeia de Parricidiis, promulgata intorno al 55 a.C.

La prima è di età sillana, essendo dell’ 80, lo stesso anno, si noti bene, in cui Cicerone pronunciò l’orazione a difesa di Sesto Roscio Amerino, accusato di avere ucciso il padre, di cui era omonimo.

Secondo Mommsen, al tempo di Silla non esisteva una legge che punisse espressamente i parricidi e ci si rimetteva alla “Quaestio de sicariis et veneficiis”, cioè al tribunale permanente istituito in concomitanza con la Lex Cornelia De Sicariis. Mommsen appoggiava la sua tesi proprio su un passo dell’orazione ciceroniana (“Pro Sexto Roscio Amerino”, 5, 11):

“Longo intervallo iudicium inter sicarios hoc primum committitur, cum interea caedes indignissimae maximaeque factae sunt; omnes hanc quaestionem te praetore manifestis maleficiis cotidianoque sanguine dignissimam sperant futuram.”

“Dopo tanto tempo questo è il primo processo (che) viene celebrato  per omicidio, sebbene nel frattempo siano stati commessi terribili  e abominevoli delitti; tutti sperano che questo processo, con te in qualità di pretore, saprà punire giustamente alla luce del sole e dello spargimento di sangue quotidiano.”

Pro Sexto Roscio Amerino

In realtà l’ipotesi di Mommsen appare poco fondata, proprio perché nell’ orazione si specifica che il dibattito forense avvenne davanti alla quaestio de sicariis e non si allude minimamente ad un tribunale che giudicasse in merito alle cause di parricidio. Piuttosto è possibile che Mommsen sia stato portato fuori strada dal giurista Pomponio, che dal nome della Lex Cornelia (de veneficiis, sicariis, parricidis) potrebbe aver dedotto che esistessero tre tribunali stabili, ognuno con competenze giudiziarie diverse. Dunque la legge non prevedeva un trbunale apposito per i parricidi, almeno all’epoca della Lex Cornelia  e della “Pro Sexto Roscio”.

Ma cosa prevedeva la Lex Cornelia emanata da Silla?

Lucio Cornelio Silla

 Gli studiosi di diritto romano e gli storici dell’ Ottocento sostennero che non contemplasse la pena di morte, ma l’esilio e la perdita della cittadinanza (aqua et igni interdictio). Ernst Levy, tuttavia,  sottolineò nel suo saggio del 1931 “Die römische Kapitalstrafe”, che l’emanazione della lex Cornelia non escludeva la permanenza della pena di morte per i casi di omicidio e che il malinteso del passato era stato generato dal fatto che in epoca sillana agli omicidi veniva spesso comminato l’esilio. La consuetudine giuridica prevedeva a Roma che i giurati si pronunciassero solo sulla colpevolezza o meno dell’imputato, non sulla pena da infliggergli, che era di pertinenza del magistrato, che poteva anche non condannarlo a morte, ma permettergli di andare in esilio.

Che esista questa alternativa ce lo dice anche Cicerone, sempre nella stessa orazione, quando osserva che la condanna per parricidio di Sesto Roscio è ricercata dal liberto di Silla, il potente Crisogono, che vuole impossessarsi delle terre del padre defunto dell’imputato e aggiunge un particolare non di poco conto: che, cioè, l’imputato perderà le sue terre perché “damnato et eiecto (de civitate)”, cioè “condannato ed esiliato (dalla città)”.

Tuttavia la citazione precedente non chiarisce il problema in maniera incontrovertibile, poiché in altri passi l’ Arpinate sostiene:

“hanc condicionem misero ferunt, ut optet, utrum malit cervices T. Roscio dare an insutus in culleum per summum dedecus vitam amittere”.

 Insomma, l’alternativa per il giovane Sesto Roscio è piegare il collo davanti ai complici di Crisogono (Cicerone cita Tito Roscio Magno, cugino dell’ imputato, che vuole impossessarsi delle terre di Sesto, n.d.s.) o perdere la vita in maniera ignominiosa, cucito dentro al sacco.

E continua la sua appassionata arringa, descrivendo il terribile destino che imcombe sopra un parricida: non l’esilio, ma la poena cullei. Non tutti gli analisti dell’orazione ciceroniana concordano su questo punto, però. Potrebbe trattarsi, qualcuno sostiene, di mero artificio retorico, di tentativi, molto comuni nell’oratoria, di movere animos, di conturbare gli animi al fine di farli volgere a favore della propria tesi. Certo è, però, che il giovane Cicerone insiste troppo sulla poena cullei e ciò fa pensare che si trattasse di un pericolo reale, non solo sbandierato davanti alla giuria.

Un ulteriore tassello nella direzione della poena cullei ci potrebbe essere fornita da un passo del “De inventione” ciceroniano. In quest’ opera il grande oratore così afferma (II, 58-59):

“In quodam iudicio, cum veneficii cuiusdam nomen esset delatum et, quia parricidii causa subscripta esset, extra ordinem esset acceptum, in accusatione autem alia quaedam crimina testibus et argumentis confirmarentur, parricidii autem mentio solum facta esset, defensor in hoc ipso multum oportet et diu consistat: cum de nece parentis nihil demonstratum esset, indignum facinus esse ea poena afficere reum, qua parricidae afficiuntur; id autem, si damnaretur, fieri necesse esse, quoniam et id causae subscriptum et ea re nomen extra ordinem sit acceptum. Ea igitur poena si affici reum non oporteat, damnari quoque non oportere, quoniam ea poena damnationem necessario consequitur.”

 Cicerone in questo passo ci descrive la seguente situazione giudiziaria: un uomo è stato denunciato (nominis delatio) per utilizzo di veleno (veneficium), mentre il reato sottoscritto dall’ accusatore nel verbale (subscriptio) è quello di parricidio. Cosa potrebbe accadere in una circostanza simile? Potrebbe accadere che l’avvocato difensore sfrutti questa incongruenza per ottenere l’assoluzione del proprio cliente, perché non necessariamente l’accusatore sarà in grado di dimostrare che l’ imputato si sia reso colpevole di parricidio, mentre è possibile che durante il dibattito processuale emergano prove schiaccianti sull’accusa di veneficio, oggetto della denuncia. In assenza di prove del reato di parricidio, l’imputato non potrà essere condannato alla poena cullei, pena considerata inevitabile (damnationem necessario consequitur) per chiunque si macchiasse dell’uccisione del proprio padre.

Il passaggio non smentisce né conferma quanto detto a proposito dell’esilio come pena alternativa, però. Il motivo è da ricercare nell’incerta datazione del “De inventione”, che potrebbe essere antecedente alla Lex Cornelia e dunque prevedere la condanna al “sacco”.

Quanto alla Lex Pompeia, di circa 25 anni più tarda, essa sanciva la stessa pena determinata dalla Lex Cornelia De Sicariis per chiunque uccidesse un parente. Con la parola “parente” si intendevano non solo i genitori, ma anche fratelli, sorelle, cugini, zii, suoceri, generi, figliastri e protettori. La stessa pena era contemplata anche per un genitore che uccidesse un figlio o per chi intendesse uccidere il padre col veleno ma non fosse in grado di somministrarlo. Insomma, la Lex Pompeia sembra distinguere le possibili vittime in maniera più precisa rispetto al dettato della Lex Cornelia, comminando la poena cullei ai parricidi, che per la Lex Cornelia avrebbero potuto essere condannati all’ esilio. Nulla da sicuro, comunque, perché non tutte le testimonianze antiche appaiono andare nella stessa direzione.

Che, però, la pratica di cucire gli assassini dei loro genitori in sacchi e gettarli in acqua fosse una pena ancora attiva al tempo di Cicerone ce lo dichiara lo stesso oratore in una lettera al fratello Quinto, che, come governatore in Asia Minore, aveva, infatti, inflitto la poena cullei a due abitanti di Smirne.

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Annamaria Zizza

Mi sono abilitata in Italiano e Latino e in Storia dell’Arte, sono passata di ruolo per l’insegnamento dell’Italiano e del latino nei Licei nell’anno 2000/2001.

Sono attualmente in servizio dal 2007/2008 al Liceo Classico “Gulli e Pennisi” di Acireale CT, dove ricopro il ruolo di docente a tempo indeterminato nel triennio del corso C.

Ho frequentato con esito positivo i seguenti corsi di aggiornamento/formazione:

– Didattica della lingua italiana;

– Tecnologie informatiche applicato al PNI e al Brocca;

– Valutazione scolastica;

– Valutazione e programmazione scolastica;

– Sicurezza nelle scuole;

– Didattica della letteratura italiana;

– Didattica della letteratura latina;

– rogramma di sviluppo delle tecnologie didattiche;

– Didattica breve nell’insegnamento del latino;

– Comunicazione

– Per una didattica della lettura e della narrazione;

– Autori, collane, libri, progetti editoriali: valorizzare la scuola attraverso la lettura;

– La dislessia

Ho tenuto in qualità di esperto due corsi PON sulle abilità di base per l’Italiano e uno sui connotati profetici nella Comedìa dantesca; ho svolto il ruolo di tutor in altri corsi PON ministeriali.

Sono stata per tre anni funzione strumentale nell’area “Supporto ai docenti”, direttrice di laboratorio multimediale, catalogatrice Dewey nella biblioteca scolastica, bibliotecaria, RSU, coordinatrice e segretaria di Consiglio di classe con frequenza annuale. Ho elaborato e tenuto il percorso di ricerca-azione “Sopravvivere alla vita: istruzioni per l’uso” nell’ambito della DLC.

Ho partecipato a svariate iniziative culturali come relatrice: dalla tavola rotonda organizzata dal Comune di Acireale sul saggio della prof.ssa Ferraloro inerente il romanzo di Tomasi di Lampedusa “Il gattopardo”, a conferenze di argomento letterario presso scuole, al progetto “Dante nelle chiese di Acireale”, organizzato dal vescovado (con relativa Lectura Dantis), al festival Naxoslegge con un’altra lectura Dantis e a presentazioni di libri.

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