Presso il Parco Archeologico di Baratti e Populonia proseguono le attività di scavo sull’Acropoli, condotte in regime di concessione di scavo dal Prof. Stefano Camporeale del Dipartimento di Scienze Classiche e Beni Culturali dell’Università di Siena, e dal dott. Niccolò Mugnai della Faculty of Classics della University of Oxford, con i rispettivi team.
Durante lo svolgimento di queste attività è emerso un reperto di grande interesse, di cui diremo in seguito, che tra le mani competenti degli archeologici ha potuto raccontare la storia di un uomo antico, aprendo una finestra sul nostro passato.
E quale miglior occasione di questo evento per sottolineare ancora una volta l’importanza dell’archeologia e del prezioso lavoro che svolge per ricostruire il nostro passato, il luogo e il tempo da cui veniamo, in contrapposizione all’agire distruttivo di coloro che scavano illegalmente o che si dilettano nei fine settimana con i metal detector?
L’archeologia:
“Scienza dell’antichità che mira alla ricostruzione delle civiltà antiche attraverso lo studio delle testimonianze materiali (monumentali, epigrafiche, numismatiche, dei manufatti ecc.), anche mediante il concorso di eventuali fonti scritte e iconografiche. Caratteristica dell’archeologia. è il metodo di acquisizione delle conoscenze, mediante cioè lo scavo sul terreno, la ricognizione di superficie, la lettura dei resti monumentali residui […] Parallelamente, l’integrazione con le scienze chimiche e fisiche ha consentito di ampliare la gamma delle possibilità conoscitive, grazie soprattutto alle indagini diagnostiche. La ricerca archeologica è strettamente connessa con le istanze di conservazione e di restauro delle emergenze indagate, per limitare la perdita dei dati e per preservare quanto più possibile le testimonianze del passato”.
Treccani definisce in questo modo l’archeologia e ci fa capire come lo scavo archeologico non sia mirato alla ricerca di reperti, ma alla ricostruzione di un contesto storico entro il quale – come ogni archeologo certamente spera – potrebbero venire alla luce dei reperti, ancor meglio se di grande valore. Treccani chiarisce come la ricerca archeologica sia un’attività scientifica multidisciplinare, portata avanti da professionisti che hanno acquisito le nozioni necessarie allo svolgimento corretto di questa importante attività, grazie a un lungo percorso universitario.
È dunque da biasimare ogni tentativo di giustificare le illecite attività di scavo ammantandole di un’aura romantica e minimizzandone i danni, descrivendo coloro che portano avanti questo scempio come personaggi fascino, la cui cultura storico archeologica sarebbe superiore persino a quella dei professionisti. In alcune trasmissioni televisive e in diversi articoli di riviste specializzate, purtroppo, è accaduto proprio quanto appena descritto!
Su ogni reperto sottratto al contesto in cui era inserito cala il silenzio e le mille storie che avrebbe potuto raccontare si disperdono nei gesti rozzi e poco attenti di coloro che lo hanno illecitamente raccolto, distruggendo senza scrupoli tutto ciò che avrebbe potuto dargli voce.
Ecco invece cosa accade quando le mani che raccolgo il reperto dallo scavo possiedono le giuste competenze ed operano all’interno degli standard previsti dalle attività di scavo archeologico.
Dagli scavi in corso sull’Acropoli, nel Parco archeologico di Baratti e Populonia, giunge a noi la storia di Ledeltius, uno schiavo che riuscì a cambiare la propria condizione e a diventare libero. Fu contabile di un personaggio politico di primo piano della Populonia di epoca romano-repubblicana, suo dominus (padrone), e probabilmente anche pedagogo per i figli di quest’ultimo.
Il suo nome – greco latinizzato – è inciso su un calamaio in ceramica a vernice nera, recuperato integro durante lo scavo degli ambienti della parte privata della grande casa aristocratica. Non sappiamo dove sia nato Ledeltius ma è molto probabile che sia passato dal grande mercato degli schiavi dell’Egeo, dove le persone cadute in schiavitù ricevevano un nuovo nome, greco, poi in qualche modo è arrivato in Italia e a Populonia, sempre in stato servile. Non abbiamo certezza che il nostro schiavo fu acquistato perché istruito e acculturato, ma è molto probabile, dato che una figura di contabile, nonché di maestro e precettore, era strettamente necessaria alla vita della casa, intesa come il luogo per l’esercizio del potere clientelare del suo proprietario.
A Ledeltius era probabilmente affidata la redazione dei documenti ufficiali e dei contratti, la gestione dei conti e tutto quel che riguardava gli affari del padrone di casa. Su chi fosse questo proprietario illustre la ricerca sul campo ha aperto alcune ipotesi ancora da confermare: potrebbe essere stato un magistrato, sicuramente il più importante di Populonia, nel I secolo a.C. municipio romano, e anche tra i più eminenti dell’Etruria romana, a giudicare dalla grande e lussuosa dimora dove risiedeva, dotata anche di una piccola terma privata.
Il rapporto di fiducia che legava il dominus e il suo schiavo dovette essere molto stretto e di grande fiducia, un legame profondo tanto che il padrone decise di renderlo libero dalla schiavitù, attraverso la cd. manomissione. La manumissio era un atto volontario con cui il dominus dichiarava libero un proprio schiavo, rinunciando alla potestà (manus) esercitata su di lui. Lo schiavo, passato così allo stato di liberto, acquisiva la cittadinanza, con i relativi diritti civili e politici, e cambiava radicalmente la propria condizione. E anche il proprio nome, dato che assumeva il prenome e il nome gentilizio del patrono, il cognomen restava il vecchio nome da schiavo. Si legge nell’iscrizione sul calamaio populoniese L (molto probabilmente abbreviazione di Lucius, molto diffuso), T (la lettera iniziale di un gentilizio ancora non identificato) e Ledeltius appunto, nome greco latinizzato.
Da liberto, Ledeltius probabilmente restò a vivere a Populonia, al servizio del proprio patrono. E possiamo immaginarlo anche come maestro e pedagogo dei figli del padrone di casa, tra i quali era certamente una bambina, come testimoniato da un frammento di una bambola in ceramica, ritrovato dagli archeologi. Tra gli oggetti recuperati, oltre a un altro calamaio, vi sono diversi stili, utilizzati per l’esercizio della scrittura e per la redazione di tutti quei testi che non avevano necessità di essere conservati. Lo stilo infatti serviva a scrivere su tavolette cerate che erano riutilizzate scaldandone la superficie con il fuoco, così da avere una nuova superficie scrittoria.
Nella lussuosa casa aristocratica di Populonia sono stati trovati contesti di eccezionale importanza e in questi giorni (lo scavo si concluderà il prossimo 19 luglio) altri reperti straordinari sono in attesa di essere recuperati. La domus fu distrutta da un incendio intorno al 50 a.C., nell’epoca delle guerre civili che caratterizzò il periodo finale della Repubblica romana. Ancora non si sa con precisione quale fu la causa dell’incendio: la casa fu abbandonata in tutta fretta dal proprietario e dalla sua famiglia, comprendente anche servi e liberti, crollò e non fu più ricostruita. Una rara occasione per gli archeologi perché, come a Pompei o Ercolano, la vita di Populonia si fermò improvvisamente e pertanto tutto il contenuto della domus si trova ancora lì, in attesa di essere scoperto.
Quanto sta venendo alla luce sono proprio le tracce della vita quotidiana nella casa, dal momento che le stanze che gli archeologi stanno scavando corrispondono alle aree di servizio, dove si trovavano le cucine e le dispense. Una miriade di oggetti sta pian piano rivelando tutte le attività che qui si svolgevano: si tratta soprattutto di reperti in ceramica e in metallo che si sono conservati in maniera straordinaria sotto le ceneri del fuoco. Sono stati recuperati attrezzi per la cucina e il camino, porzioni di mobili come chiodi e cerniere, ceramiche per la tavola e per la dispensa, pezzi di giocattoli in terracotta, lampade in ceramica, pedine da gioco, chiavi e serrature, e tutto quello che era in uso in una casa. La parte più ricca della dimora, quella dove il padrone accoglieva i suoi ospiti, ha rivelato grandi stanze con pavimenti a mosaico, le terme private e le sale per il banchetto.
Se questo calamaio fosse stato ritrovato da un “tombarolo”, oggi farebbe bella mostra di sé nella casa di un collezionista senza scrupoli, non più in grado di raccontare la sua storia.
Torniamo allo scavo archeologico.
“Con il lavoro di queste ultime settimane, sono stati raggiunti i piani pavimentali interni ai due ambienti oggetto della ricerca. Diversamente dalle stanze di rappresentanza, come l’atrio, il tablino e le stanze da pranzo, pavimentate a mosaico o a cocciopesto con inserti di marmi colorati, questi ambienti avevano pavimenti realizzati in terra battuta. Questo dato rivela la semplicità e la funzionalità proprie dei vani domestici della casa, quelli riservati ai familiari e al personale servile in servizio nell’abitazione, dove erano svolte le attività di tutti i giorni”, racconta Stefano Camporeale, direttore di scavo per l’Università di Siena.
“Grazie alle eccezionali condizioni di conservazione di questo contesto – sigillato per il crollo degli ambienti superiori a seguito dell’incendio – quello che si apre alla vista dei visitatori del Parco è qualcosa che non si osserva tutti i giorni: negli strati, decine e decine di oggetti per la cucina e la dispensa, pesi da bilancia, chiodi, lucerne per illuminare le stanze, per lo più integri o ricostruibili perché frammentati solo sotto il peso dei crolli” spiega Marta Coccoluto, Responsabile del Parco “Sarà straordinario rimettere insieme tutti questi oggetti e poterli restaurare: avremo la possibilità di capire cosa ci fosse in una casa aristocratica della Populonia di età romano-repubblicana e di presentarlo al pubblico, magari proprio in un prossimo futuro al Museo archeologico di Piombino”.
“Inaspettato è anche lo stato di conservazione dei muri interni in terra cruda che suddividevano le stanze: il fuoco li ha cotti e sono conservati in elevato, come di rado avviene” spiega Niccolò Mugnai dell’Università di Oxford “di norma gli archeologi ne trovano solo labili tracce sul terreno. L’ipotesi che qui dovevano trovarsi la dispensa e la cucina – centinaia i pezzi di tegami pentole o le da fuoco insieme a piatti boccali e utensili in ferro per cucinare – sembrano dunque essere confermate”.
Lo scavo, in concessione dal Ministero della Cultura, chiuderà il prossimo 19 luglio; ancora un appuntamento con lo scavo aperto giovedì 18 ore 18:00, dove verranno mostrati in anteprima i reperti ritrovati durante questa campagna di scavo.
Il Parco archeologico è gestito dalla Parchi Val di Cornia Spa (Marta Coccoluto, Responsabile del Parco archeologico; S. Guideri, direttrice scientifica del Sistema dei Parchi della Val di Cornia) grazie ad un Accordo di Valorizzazione fra MIC, Regione e Comune di Piombino, a cui è legato il Piano Strategico di Sviluppo del Parco, che comprende la programmazione triennale della ricerca archeologica.