Ho conosciuto la professoressa Edda Bresciani grazie alla musica e alla poesia nell’antico Egitto.
Ero stato chiamato ad inaugurare le attività di un centro culturale livornese con una conferenza proprio su questo tema e chiunque si occupi di antico Egitto, a qualsiasi livello, sa bene che non si possono trattare questi argomenti senza fare riferimento a “Letteratura e Poesia dell’antico Egitto”.
Al termine dell’intervento mi si avvicinò un uomo piuttosto corpulento dal viso allegro e dai modi gentili che dopo essersi complimentato per l’esposizione e per i due attori che avevano recitato alcune poesie tratte dal lavoro della professoressa, mi disse: “stasera racconto tutto ad Edda, ne sarà felicissima!”.
E mentre la sua energica stretta di mano continuava a farmi ondeggiare, misi a fuoco ciò che quell’uomo mi aveva appena detto ed ebbi un attimo di terrore. Edda Bresciani era nota per la sua schiettezza, per me un grande pregio, e l’idea che qualcuno le raccontasse di un mio lavoro senza che potessi chiarirle le lacune e le mancanze che certamente erano presenti, non mi piaceva affatto. Un po’ come accade per un esame con lo scritto e l’orale.
Mi chiese il numero di cellulare ed io registrai il suo, con l’idea di risentirci ancora per le attività del centro culturale, ma anche con la consueta certezza che non ci saremmo più incontrati, come accade sovente in questi casi.
Il giorno dopo mi arrivò una chiamata con prefisso 0586, il prefisso telefonico di Livorno, e riconobbi subito la voce gioviale di Giovanni al punto che mi sembrò di ondeggiare ancora sotto la sua poderosa stretta di mano. Mi disse che “Edda” voleva incontrarmi e mi lasciò i suoi recapiti telefonici per accordarci.
La raggiunsi nel tardo pomeriggio di un giorno particolare in cui mi trovai a pranzo in quel di Bologna con il professor Pernigotti e la professoressa Piacentini e poi con lei nella sua casa di Lucca: tre generazioni di egittologi legati tra loro nel rapporto docente-studente. Una coincidenza che fece sorridere la professoressa per tutto il tragitto che facemmo in macchina, la sua macchina, tra Porta Elisa dove mi prelevò e il parcheggio della sua bellissima casa nel cuore antico di Lucca.
Non voglio elencare i meriti, i premi e le onorificenze ricevute durante la sua prolifica e lunghissima carriera, credo siano noti a tutti e comunque credo che ne parleranno numerose testate giornalistiche.
Voglio invece ricordare la donna che ho incontrato quel giorno a Lucca che poi è divenuta amica, con quella sua risata spontanea che non mancava mai di sottolineare una battuta, di definire un’intesa, neppure quando le auto le strombazzavano dietro per il suo stile di guida molto simile a Mister Magoo.
Voglio ricordare il dolore nella sua voce quando mi chiamò per dirmi che Giovanni, apprezzato chirurgo ormai in pensione, artefice del nostro incontro e amabile compagnia in tante occasioni, era improvvisamente deceduto.
Voglio ricordare i suoi interessi oltre l’Egitto, come la preziosa collezione di fischietti in ceramica che “…sono tutti funzionanti Paolo, ecco provi questo!” e la stanza degli ex- voto per grazia ricevuta, che per averli in formato digitale li aveva passati su uno scanner, salvo poi chiedermi di fotografarle quelli troppo grandi!
Voglio ricordare la sua passione per la forma poetica della letteratura giapponese, l’haiku, e il giorno in cui mi disse di essere diventata una haijin riconosciuta, mandandomi per e-mail questa sua poesia:
Bussa alla porta
portato dal vento –
un ramo secco
Prati di sole –
fioriscon gli anemoni
ad uno ad uno
Passa sul lago
il vento del nordovest –
voli di foglie
Pioggia di stelle –
luccicano i sentieri
per la lumaca
Viali di marzo –
camelie rosa e bianche
vengono incontro
Spazi di sabbia –
nera sopra la roccia
una formica
Come un gabbiano
l’eco del pescatore
tra cielo e terra
Voglio ricordare il suo imbarazzo nell’ammettere di non essere in grado di prepararmi un caffè, portandomi dell’acqua calda e alcune bustine di Nescafé, accompagnate da biscotti che le avevano regalato tempo fa ma che “mi sa che non sono tanto buoni vero?”.
Voglio ricordare i pranzi e le cene, insieme all’immancabile ed impeccabile Giovanni e a sua moglie, insegnante, sempre ricca di spunti interessanti, e quella sensazione di bello e ben vissuto che mi riportavo a casa ogni volta, sorridendo per quei “mi raccomando Paolo questo resti tra noi!”.
Poi la vita ci ha un po’ allontanati. Senza mancanze, senza motivi. A volte capita anche per le cose belle.
E adesso resta un ricordo, quasi impalpabile, “come un gabbiano…l’eco del pescatore…tra cielo e terra”.
Ripropongo di seguito l’intervista che si svolse nella sua casa di Lucca a cui sono molto legato, sia per la chiacchierata divertente che la generò, sia perché Edda Bresciani non era incline a farsi intervistare e credo che questa, o almeno così lei mi disse, sia stata l’unica volta in cui si è fatta coinvolgere. E mi è parso che le sia piaciuto.
INTERVISTA A EDDA BRESCIANI
La professoressa Edda Bresciani, egittologa di fama mondiale che non ha bisogno di presentazioni ulteriori, ha concesso a MediterraneoAntico un’intervista. La raggiungo nella sua casa lucchese, dov’è facile perdersi tra i libri presenti in ogni stanza e le evidenze dei numerosi suoi interessi. Ci viene facile comunicare e l’intervista si fa racconto, chiacchiera, lezione di egittologia dove la verve e la forte personalità di Edda Bresciani rendono l’incontro estremamente piacevole e brillante.
Molti giovani oggi si avvicinano all’Egittologia o all’archeologia più in generale. I motivi che sono alla base delle loro scelte sono vari: qualcuno si sentiva predestinato, altri hanno scoperto la loro vocazione strada facendo. Cosa ha spinto Edda Bresciani ad avvicinarsi a questo percorso di studi? C’è un episodio preciso o, comunque, è stata una scelta precisa fin da subito; oppure, come talvolta accade, è stata una serie di coincidenze o casualità a portarla infine tra le Due Terre?
La sua domanda mi fa venire voglia di parafrasare Giorgio Gaber e i suoi comunisti:
“Qualcuno era egittologo perché era nato a Torino…
Qualcuno era egittologo perché vedeva l’Egitto
come una promessa. Qualcuno era egittologo perché guardava
sempre Rai Tre. Qualcuno era egittologo perché non ne
poteva più di fare il filologo ugrofinnico.”
Lo so che nell’immaginario collettivo l’egittologo deve avere avuto una vocazione precocissima, deve essere come una piccola Atena nata tutta intera dalla testa del grande decifratore J.F. Champollion. Io, invece…. non posso davvero raccontarmi come il genio precoce che scriveva in geroglifico appena nata. L’Egitto faraonico – forse anche per colpa dei libri scolastici del mio tempo né ben illustrati né veri suggeritori turistici… o forse perché non godevo, ancora in fasce, della visita quotidiana al museo egizio di Torino…. – è stato estraneo ai miei interessi culturali di adolescente, che andavano piuttosto alla storia dell’arte e a fenomeni come il futurismo, che ancora mi affascina, e altre correnti dell’avanguardia moderna.
Ha avuto significato per me assai tardi, all’università di Pisa, dove il mio interesse, durante i primi due anni di studio, è stato per l’epigrafia greca. Che l’egittologia non fosse la mia vocazione originaria, ma in qualche modo indotta, è provato anche dall’argomento che scelsi e, direi, quasi imposi, per la mia tesi di laurea: “La satrapia d’Egitto”; cioè l’Egitto vinto da Cambise, l’Egitto diventato la sesta satrapia dell’Impero Persiano, quindi quanto di più sconfitto e umiliante per il paese dei faraoni. Argomento, questo, che ha segnato il tracciato d’interesse che ha attraversato tutta la mia vita scientifica; vita scientifica che si potrebbe etichettare come multidisciplinare. Del resto, credo che la caratteristica dell’egittologia sia di pretendere una globalità di ricerca, non solo una singola specializzazione, ma una olistica sintesi tra filologia, archeologia e storia, questa ultima potenzialmente arricchita dalle due prime discipline e allargata alle altre civiltà antiche del mediterraneo.
La prima donna egittologa in assoluto – nel senso accademico del termine – è stata Christiane Desroches Noblecourt e lei, professoressa, è stata la prima donna italiana a laurearsi in Egittologia. Al pari della Noblecourt, alla sua laurea è seguita subito un’intensa attività che l’ha portata a diventare una studiosa di livello mondiale. L’essere donna è stato per lei un valore aggiunto, oppure ha dovuto impiegare più energie per trovare quella che doveva diventare la sua strada?
Non solo sono stata la prima donna laureata in egittologia, ma, a quanto mi risulta, la prima persona laureata in egittologia in Italia e certamente anche la prima docente donna nella disciplina. Ho conosciuto molto bene Christiane Desroches Noblecourt, era una donna di tempra eccezionale e che ha dato contributi insostituibili all’archeologia. La mia carriera non è stata usuale per una donna che nei primi anni Cinquanta del secolo scorsosi laureò sì in lettere, la facoltà considerata la più “femminile”, anzi l’unica femminile, nel senso di “debole”, fra quante offriva l’università italiana, e in una materia che allora (più di oggi certamente) era considerata una “curiosità” più che una “scienza”: l’Egittologia, una disciplina che a metà del Novecento era presente nell’offerta accademica italiana solo con un insegnamento, e neppure di ruolo, all’Università di Milano, mentre a Pisa esisteva soltanto un incarico gratuito; in ambedue gli atenei i corsi erano tenuti da Sergio Donadoni, uno dei miei maestri, il quale ha festeggiato, pochi mesi fa, il suo centesimo compleanno.
Una cattedra di ruolo di Egittologia in Italia si ebbe solo nel 1958, contemporaneamente a Roma (per Giuseppe Botti) e a Milano (per Sergio Donadoni); mentre a Pisa soltanto dopo dieci anni esatti ne fu istituita una per me. Certo nel 1955 dovette apparire singolare e fuor dal modello delle brave ragazze di famiglia borghese la mia intraprendenza (qualità che mi differenziava dalla media delle laureate, ma anche dei laureati, va detto…), in quanto, nei tre anni successivi la laurea pisana, andai all’estero alla ricerca di specializzazioni nelle materie egittologiche (archeologia e filologia, ieratico e demotico a Copenhagen, a Parigi e al Cairo, ma anche con “deviazioni” sull’aramaico delle colonie giudaiche e fenicie d’Egitto, miei interessi principali di allora e anche nel seguito), grazie anche alla comprensione e al sostegno dei miei genitori (un pensiero speciale a mia madre, una donna e una insegnante, di alto intelletto progressista) i quali aggiunsero il necessario alle tenuissime borse di studio disponibili allora e mi aiutarono finché l’Egittologia non mi dette sufficiente pane e…brioche. Furono fondamentali quegli anni di formazione all’estero, mi permisero di assorbire presso specialisti quanto più possibile di conoscenze – di intessere una rete di rapporti umani e di colleganza – e di abituarmi alla libertà anche intellettuale.
Lei ha vissuto l’università italiana sia come studentessa sia come docente. Ha avuto maestri illustri e grazie al suo lavoro oggi abbiamo egittologi capaci e preparati. Cosa ricorda volentieri, o anche mal volentieri se vuole, del suo periodo di formazione e cosa del periodo in cui giovani studenti si sono formati grazie al suo impegno? Ci sono aneddoti che vuole raccontarci?
Mi piaceva studiare, mi piaceva insegnare, ho sulla coscienza un esercito di studenti e molti ottimi scolari, alcuni dei quali esercitano o hanno esercitato la disciplina egittologica in varie università, altri sono anche attivi in modo eccellente nell’archeologia in Egitto. Ora che sono Emerita ho potuto lasciare a Pisa la mia eredità di cattedra di prima fascia a una allieva e collega, anzi ci sono a Pisa due colleghe egittologhe, Marilina Betrò e Flora Silvano, ricercatrice e archeologa. Penso di aver dato un esempio di coraggio e un buon contributo alla ricerca scientifica con l’aver fondato nel 1978 la rivista, che ancora oggi dirigo e che è arrivata al vol. 36, “Egitto e Vicino Oriente” (EVO), specchio dell’unità scientifica per l’area mediterranea antica nell’Università di Pisa che dagli anni ’70 era divenuta la sede universitaria italiana dove erano rappresentate le più importanti discipline orientalistiche.
L’Università italiana negli ultimi anni ha subìto profondi mutamenti che generalmente vengono considerati in modo negativo. Sentiamo continuamente fare riferimento all’estero come unica soluzione per ottenere una formazione adeguata alle aspettative dello studente. Come vede lei oggi l’Università italiana e qual è il suo pensiero riguardo alla tentazione di andare a studiare altrove?
Ho già detto quanto debba ai miei soggiorni presso università straniere. Considero un privilegio aver avuto maestri in Italia e in Europa e in Egitto; li ricordo non solo per il docet accademico ma in molti casi anche per le loro qualità di esempi morali oltre che scientifici. Dico dunque ai nostri giovani che una formazione all’estero è un’esperienza assolutamente positiva, dopo aver ben saputo ricavare conoscenza e metodi già in Italia presso le nostre università e istituzioni, anche coi grandi limiti che le recenti politiche universitarie hanno causato.
Se non erro nel 1966 l’Università di Pisa comincia la sua avventura di scavo in Egitto, ereditandoda Achille Vogliano gli scavi a Medinet Madi dove, negli anni che precedettero il secondo conflitto mondiale, già aveva ritrovato i resti di un tempio risalente al regno di Amenemhat III dedicato a Renenutet e Sobek. Per una decina di anni l’ateneo pisano e quello milanese, da cui dipendeva il Vogliano prima di trasferirsi a Berlino, hanno collaborato assieme. Lei ha partecipato come protagonista a questa attività sul campo, alla sua organizzazione – congiunta prima e in solitaria poi – , gettando i presupposti per quella che diventerà poi una sistematica attività di scavo. Cosa ci racconta di quel periodo? Come l’ha vissuto?
Bisogna che porti qualche aggiustamento a quanto lei scrive, nel senso che il 1966 è l’anno della ripresa dell’attività archeologica a Medinet Madi da parte dell’Università di Milano; in questo sito del Fayum Achille Vogliano aveva compiuto le sue grandi scoperte, tra il 1935 e il 1939, quando la Seconda guerra mondiale lo costrinse a sospendere l’attività. Io entro in questa storia in quanto mi fu chiesto di essere il direttore responsabile degli scavi a Medinet Madi, quindi l’Università di Pisa entra in contatto con il Fayum tramite me, che ero docente di egittologia dell’Università di Pisa.
I lavori milanesi nel Fayum furono interrotti nel 1969 a causa della situazione bellica egiziana e gli scavi poterono riprendere in altri siti della valle del Nilo, nel 1970-71 ad Assuan, in collaborazione con il Centre de Documentation et d’Étude sur l’Égypte ancienne (CEDAE) del Cairo; fu studiata la struttura architettonica e rilevate tutte le iscrizioni geroglifiche scolpite nel tempio (da datare ai regni di Tolomeo III e Tolomeo IV; solo le scene del fondo del santuario sono di Tolomeo VIII) aggiungendone di nuove a quelle già note, e rilevando iscrizioni e graffiti ieratici e demotici inediti, oltre a una originale pittura murale (Isi con Arpocrate) d’età tolemaica.
Il tempio fu eretto in onore di «Isi che è alla testa dell’esercito» o «Isi che combatte in prima linea» (Is.t H 3.t p3 mSa); la struttura fu trasformata in chiesa nel VI secolo. Successivamente la missione si spostò a Tebe ovest (Gurna, Tempio funerario di Thutmosi IV, Tombe ipogee del Medio Regno, Tomba di “Chonsuirdis”). Dal 1978, l’Università di Milano cedette le concessioni di scavo nel Fayum e a Tebe all’Università di Pisa; io diressi da allora gli scavi pisani in Egitto.
E nel 1974 la necropoli di Saqqara, con l’esplorazione della tomba del visir di Psammetico I, Bakenrenef e i suoi splendidi reperti, venuti alla luce nelle campagne di scavo successive. E non solo…
È esatto che dal 1974-75 ottenni per l’Università di Pisa la concessione di esplorazione e scavo a Saqqara; nel 1996-97 una fruttuosa campagnadi carattere palopatologico, applicato ai resti umani provenienti dalla tomba, da parte del Prof. Gino Fornaciari, anche in rapporto col progetto pisano (dr. Flora Silvano) chiamato Anubis. Lo potete trovare in internet, nel sito www.egittologia.unipi.it. Troppo lungo sarebbe trattare le ricerche e i risultati di anni di lavoro nella tomba di Bakenrenef e contigue. Dirò solo che la tomba di impianto e di decorazione regale, era di Bakenrenef, visir di Psammetico I (XXVI dinastia), e fu usata dalla sua famiglia per generazioni nei pozzi e nelle gallerie. La tomba ha restituito materiale splendido e lo studio del progetto decorativo delle pareti delle stanze e dei pilastri permette di riconoscere e apprezzare la capacità egiziana di organizzare testi e scene in una armoniosa combinazione ed equilibrio e di dosare arcaismo e innovazione.
Il pozzo principale conteneva, ai primi dell’800, ancora il sarcofago di Bakenrenef che Ippolito Rosellini acquistò ad Alessandria nel 1828 per il granduca di Toscana ed ora è nella collezione egiziana del Museo archeologico di Firenze; la tomba del visir fu depredata della splendida decorazione parietale da vandali alla fine dell’800 e le varie sezioni sottratte di intere parerti sono state individuate dalla missione pisana in Europa e in America disperse nei musei e collezioni; ma tecnologie informatiche ci hanno permesso di restituire in immagini, rigorosamente basate sui dati archeologici, la decorazione di molte parti della tomba. Inoltre tra il 1984 e il 1987, l’Università di Pisa ha aperto a Saqqara un “Cantiere Scuola per tecnici Egiziani”. La mia scoperta più emozionante a Saqqara è certo quella della grande tela funeraria dipinta d’epoca romana, estratta dal pozzo sud della tomba, una pittura a tempera di ricca tavolozza di colori, ed eccezionale per i temi religiosi e funerari, col defunto frontale, identificato con Osiri, e avvolto dalle spire del grande serpente dell’eternità. È esposto nel museo del Cairo.
E poi Gurna. Ci racconti…
Ho già accennato degli scavi a Gurna prima per Milano e poi, dal 1978, per Pisa. Cominciai la mia carriera in Egitto come direttore di scavi nel Fayum e altrove; a quel tempo in Egitto una missione archeologica diretta da una donna era una grande novità e per di più allora ero giovane e non brutta. Ricordo con divertimento che allora nell’arabo del Fayum non esisteva il vocabolo “direttrice”, ma solo “direttore”, al maschile. Fu creato proprio per me, creato dalla pratica lessicale quotidiana del gruppo dei miei operai pur di cultura così strettamente maschilista, il titolo di “mudira”, dal maschile “mudir”… Non so se sono stata fortunata o distratta, ma non ho mai sentito discriminazione nei miei riguardi in quanto donna. Né nella vita lavorativa né in quella quotidiana.
Anzi. Avrete capito che non sono una femminista. Però ho accettato con piacere un premio al femminile, quello nel 2004 di “Firenze donna” per le “Professioni e la ricerca scientifica”. Non voglio entrare nella polemica antiquata e stucchevole se il cervello femminile sia inferiore o superiore a quello maschile; io credo che siano eguali o equivalenti in ettogrammi e in possibilità. Comunque, via diciamolo senza finte correttezze, se una persona è mediocre, resta mediocre che sia uomo o sia donna. Né per essere eccellente basta essere donna. Voglio ricordare con affetto e anche ammirazione gli operatori della zappa, i miei bravi e onesti operai egiziani che nelle varie missioni, nei vari luoghi archeologici, spesso lo stesso gruppo in varie decine, sono tornati anno dopo anno, missione dopo missione, gli Ahmed, Mahmud, Mohammed, Fawzi, Mustafa, Sayed etc. che ad ogni apertura dello scavo ho ritrovato con gioia.
Gli operai di Gurna, a Tebe, sono arrivati a far fabbricare e ad offrirmi a sorpresa, una statuina di fayence, che mi rappresenta come un faraone (Hatscepsut?) che tiene una stele dove in geroglifici sta il mio nome e l’augurio di buona vita. Non ho saputo e non ho chiesto chi abbia composto il falso testo geroglifico fatto incidere in una delle fabbriche tebane di falsi per turisti. Questa mia immagine è il miglior falso che conosca.
Ma torniamo nel Fayum, più precisamente a Medinet Madi, l’area archeologica dove forse l’Università di Pisa e lei personalmente, avete speso più energie e che grazie al vostro lavoro, preceduto dall’attività del Vogliano, è tornata a rivivere. Dal Medio Regno all’epoca greco-romana, e poi ancora le vestigia di chiese che possono essere fatte risalire tra il V-VII secolo, per un arco temporale di due millenni e mezzo. L’occupazione araba. Questa in estrema sintesi la parabola di un grande centro urbano, ricco di storia e di tradizione. Può riempire questa scarna linea temporale con le conoscenze acquisite grazie alle attività delle varie missioni che l’Università di Pisa ha effettuato in quell’area? Nel 2011 è stato inaugurato il primo parco archeologico in Egitto che unisce il sito di Medinet Madi all’area protetta di Wagi el Rayan e di Wadi el Hitan. Qual è stato il percorso che ha portato alla realizzazione del parco e quali le difficoltà affrontate e superate?
Vorrei brevissimamente ricordare le scoperte del 1978 a Kom Madi (un km di distanza aerea da Medinet Madi) di cappelle di culto, fra le quali una decorata con pitture in stile misto egiziano e greco, celebrativo come sembra di Alessandro Magno; e la scoperta nel 1993 della necropoli del Medio Regno a Khelua, dove la tomba semi-rupestre del principe Uage è stata restaurata dalla missione pisana in collaborazione con il Consiglio Supremo delle Antichità d’Egitto. Un progetto di cooperazione affidato all’università di Pisa (a me la direzione scientifica, all’arch. Antonio Giammarusti quella tecnica) ha riguardato dal 2005 Medinet Madi che era, come ho detto ampiamente prima, concessione archeologica dell’Università di Pisa dal 1978 e che aveva dato negli anni di esplorazione una quantità di reperti e di novità, soprattutto architettoniche, che continuano a contribuire alla conoscenzadella storia egiziana, dal Medio Regno a quella greca e romana.
Mi limito qui a ricordare per l’Università di Pisa la scoperta di un terzo tempio (tempio C) per Sobek, da aggiungere ai due scoperti dal Vogliano, tempio di epoca tolemaica e fornito di una struttura eccezionale, una sorta di nursery per la schiusa delle uova di coccodrillo (trovati in situ) e l’allevamento dei piccoli coccodrilli divini destinati ad essere mummificati e offerti al dio dai devoti; la scoperta alle pendici del kom del castrum Narmoutheos di epoca dioclezianea; e il ritrovamento di dieci chiese del VII-XI secolo, contributo importante per la conoscenza della storia del cristianesimo nel Fayum; nonché la scoperta di quartieri importanti a sud del tempio C… I risultati delle ricerche in Medinet Madi sono stati pubblicati passo dopo passo da “EVO” (la rivista scientifica dell’Università di Pisa) e in molte altre riviste internazionali;
così, il molto approfondito studio del dromos e dei chioschi è stato pubblicato nel numero XXXI (2008) della suddetta rivista. La prima sintesi delle attività archeologiche è stata pubblicata nel volume “Medinet Madi – Venti anni di esplorazione archeologica – 1984-2006” (Pisa 2010) e recentemente in “I templi di Medinet Madi nel Fayum”, Pisa 2012 (autori: Edda Bresciani e Antonio Giammarusti), volume che è già giunto alla seconda edizione (Pisa University Press). Il Progetto ISSEMM con l’Università di Pisa, in collaborazione con il Consiglio Supremo delle Antichità d’Egitto, ha portato alla luce, oltre ai monumenti già noti scoperti da Achille Vogliano, una vasta area meridionale con monumenti del tutto inaspettati e novità di dati archeologici ed epigrafici.
L’accesso simmetrico e monumentale da sud si apre ad una nuova parte del dromos, a partire da un grande altare assiale in blocchi di calcare, per l’olocausto o il sacrificio; verso nord, sulle dromos, abbiamo scoperto due statue di leoni dotate di due iscrizioni greche identiche, incise sulla base delle statue gemelle, che datano la dedica delle statue leonine al tempo di Cleopatra e Tolomeo VIII, data confermata da un’altra nuova iscrizione greca, scoperta nel 2009, che prova come il dromos meridionale sia stato consacrato alla dea anguiforme di Medinet Madi Isis Thermouthis e a Sobek nella forma di Sokonopis, nel 54 anno di Tolomeo VIII (116 a.C.); il dedicante dei leoni e del dromos è un greco di nome Protarcos figlio di Erode, la cui moglie era egiziana, Tamestasytmis. È stata portata alla luce una struttura di stile ellenistico (un “baldacchino”) trasformata in un chiosco.
Ancora più a nord del dromos, dopo un altro paio di leoni, abbiamo scoperto, sul lato est del chiosco trovato da Vogliano, una grande statua di una leonessa, in piedi sulle zampe tozze, che sembra proteggere l’ingresso al chiosco; la leonessa di Medinet Madi porta la criniera del leone, ma nello stesso tempo lei ha quattro seni e sta alimentando un piccolo leone; non possiamo escludere che la statua eccezionale sia una scultura romana, un’aggiunta decorativa del dromos probabilmente in età augustea. Il progetto di cooperazione “ISSEMM” ha ripristinato la “cappella di Iside”, il tempio tolemaico B, la grande piazza con portico, le case lungo dromos; sul lato nord-ovest della piazza, abbiamo fatto una scoperta molto importante: un grande pozzo sacro per l’acqua pura necessaria per i riti del tempio tolemaico B. Una pista panoramica che attraversa il deserto porta da Medinet Madi all’area protetta naturalistica dello Uadi Rayan, prossima allo Uadi Hitan, la zona delle balene fossili. Il Parco Archeologico è stato inaugurato
nel maggio 2011 e tutta l’area sacra della città è aperta al pubblico. Ora comincia la delicata fase della gestione del Parco da parte delle autorità locali. Eventi politici recenti hanno purtroppo rallentato le visite turistiche in Egitto, ma il rallentamento nel settore del turismo non può compromettere l’intero processo, iniziato più di un decennio fa, per lo sviluppo socioeconomico della popolazione. Quando, presto si spera, il turismo internazionale si riavvierà, il Fayum (con la sua Facoltà dell’Università di Archeologia), sarà pronta ad accogliere i visitatori e promuovere l’identità culturale. Al di fuori dell’area archeologica, alla base del Kom Ovest, su disegno di Antonio Giammarusti, è stato costruito il Visitor Centre destinato a fornire al visitatore informazioni appropriate sulla storia e la natura degli elementi archeologici e architettonici dei monumenti che sta per visitare, in uno spazio espositivo reso più accessibile attraverso modelli in scala di monumenti, riproduzioni grafiche, fotografie e pannelli informativi. Al centro visitatori del museo del sito sono stati esposti i modelli dei templi della città e alcune riproduzioni di statue e stele, alla fine del museo si trova un bookshop che vende anche prodotti tipici del Fayoum, una caffetteria e un piccolo ristorante.
Chi sta scavando oggi nel Fayum e dove?
Per quanto riguarda le missioni archeologiche nel Fayum attualmente una missione dell’Università di Bologna scava a Bakkhias, una dell’Università di Lecce a Dime-Soknopaiou Nesos e una missione di Milano-IFAO a Tebtunis. L’Università di Pisa è coinvolta tramite la mia persona alla direzione scientifica della terza fase di cooperazione a Medinet Madi.
La rivoluzione egiziana. Lei frequenta l’Egitto da molto tempo e ne ha potuto osservare i cambiamenti. Gli ultimi anni sono stati densi di avvenimenti politici importanti che hanno portato all’allontanamento di ben due leader e alla nascita di un terzo – adesso Presidente della Repubblica Araba d’Egitto – nel giro di un tempo relativamente breve. Qual è il suo pensiero su questi eventi? E quali secondo lei le sorti dell’attività archeologica mondiale in Egitto?
Naturalmente nei tempi immediati che sono seguiti alla rivoluzione e ai successivi cambiamenti politici nel paese dei Faraoni, l’attività di scavo è stata sospesa o ripresa solo episodicamente e in certe zone. Adesso l’equilibrio del paese sembra assicurato e incoraggia a ben sperare. È recentissimo un convegno organizzato dall’Italia e bilaterale, al Cairo il 23 ottobre scorso, una giornata densa di relazioni da parte dei vari direttori di missioni archeologiche italiane in Egitto, nella quale la terza sezione era dedicata a The Role of the Archaeology in Now-a-Days-Egypt. Un buon segnale mi sembra l’uscita di una rivista scientifica in Egitto: “Shedt. Journal of the Faculty of Archaeology” dell’Università del Fayum.
L’Egitto e l’India.
Il programma di ricerca FIRB (MIUR, da me coordinato; 2001-2003) ha permesso di “scoprire”, studiare e pubblicare le collezioni d’antichità egiziane presenti in India; i risultati della ricerca sono pubblicati appunto da un ricco catalogo (Pisa, PLUS, 2003) e riguardano le collezioni egittologiche in otto musei dell’India (Bombay, Baroda, Jaipur, Delhi, Laknaw, Calcutta ed Hyderabad) da collegare col fenomeno del collezionismo presso personalità nell’India colta del XIX e del XX secolo. Questo aspetto trova illustrazione nei saggi di noti specialisti che appartengono alle tre unità operative del progetto: quella dell’Università di Pavia, quella dell’Università di Parma e quella dell’Università di Pisa, che comprende il gruppo degli egittologi.
Il Catalogo mette a disposizione degli studiosi oltre seicento pezzi archeologici, in pratica inediti, che coprono tutte le epoche storiche, fino all’epoca copta, e tutte le categorie museali egittologiche; uno strumento utile per approfondire le interazionitra Egitto e India e il ruolo d’intermediario rivestito dall’Egitto tra Europa e Asia a partire da un “osservatorio” particolare, le collezioni d’antichità egiziane presenti in India. Questo aspetto trova illustrazione nei saggi introduttivi dovuti a noti specialisti – Giampaolo Calchi Novati, Simona Vittoriani, Simonetta Casci, Ugo Fantasia, Marilina Betrò – mentre il Catalogo delle Collezioni egiziane conservate in otto Musei dell’india, da Calcutta a Dehli, mette a disposizione degli studiosi oltre seicento pezzi archeologici, in pratica inediti, che coprono tutte le epoche storiche, fino all’epoca copta, e tutte le categorie museali egittologiche.
Christian Greco è il giovanissimo direttore del Museo Egizio di Torino. Una buona scelta?
È stata una scelta ottima, è un egittologo eccellete, giovane e dinamico e inoltre ha grande e fondata esperienza di organizzazione di musei; l’inaugurazione del nuovo museo fissata al 2015 avverrà certamente puntale e sarà un grande avvenimento come atteso.
Nel corso della sua carriera ha senz’altro avuto modo di “maneggiare” molti reperti provenienti dagli scavi in Egitto o che lei stessa ha estratto dalle calde sabbie del deserto. C’è un reperto o una serie di reperti a cui lei è particolarmente legata?
Ho avuto la fortuna di ritrovare, nei vari scavi, molti oggetti “belli”; ricorderò qui la serie della splendida ceramica del Medio Regno dagli scavi di Gurna, l’insieme delle suppellettili fittili dalla “casa dei tre forni” del Nuovo Regno a Gurna, e soprattutto i bellissimi pezzi dalla tomba del visir Bakenrenef a Saqqara, statue lignee, amuleti, bende di mummia iscritte coi testi e vignette del Libro dei Morti, sudari dipinti, dei quali ho già nominato il sudario eccezionale ora esposto nel Museo del Cairo.
Sigmund Freud e i sogni. Edda Bresciani e i sogni. Il primo, celebre psicoanalista e grande appassionato della civiltà egizia, lei grande studiosa della civiltà egizia e… con interessi verso la psicoanalisi? Di fatto entrambi avete scritto sui sogni ed entrambi avete “invaso” – piacevolmente s’intende – i rispettivi ambiti. Al termine della prefazione del suo “La Porta dei Sogni. Interpreti e sognatori nell’antico Egitto” edito da Einaudi, ci propone una riflessione di Apollonio che, in compagnia di Voltaire e Kant, hanno una visione scettica e alla quale contrappone il suo invito a cedere all’irrazionale. Ma Edda Bresciani cosa pensa dei sogni? E andando oltre i sogni onirici e arrivando a quelli che sono invece espressione concreta dei nostri desideri le chiedo:
nonostante la sua straordinaria carriera ha ancora un sogno che vorrebbe si realizzasse? Con quali sogni è partita come studentessa e quali, tra questi, ha realizzato? A cosa invece ha dovuto rinunciare?
“L’interpretazione di sogni è del tutto analoga al deciframento di un’antica scrittura pittografica come i geroglifici egiziani” è la celebre frase di Sigmund Freud che mette in parallelo le due decifrazioni. Nonostante che sia stato collezionista di antichità anche egiziane, tuttavia gli interessi di Freud verso l’Egitto erano per il monoteismo amarniano, Ekhnaton e Mosé, il quale avrebbe trasmesso agli ebrei il monoteismo di Amarna. L’Egitto di Freud è ossessivamente legato a Mosè e al giudaismo di suo padre Jacob, identificandosi, in una specie di sintesi molto complessa che comprendeva anche Edipo, con la figura di Giuseppe, figlio favorito di Giacobbe, interprete di sogni e viceré in Egitto.
Freud era collezionista anche di antichità egiziane e nel collezionare riconosceva il valore terapeutico dell’acquisto, soprattutto se dispendioso: l’affermazione della funzione liberatoria per l’io infantile che è in noi del trovare, l’acquistare, il collezionare oggetti. Io, collezionista, lo capisco benissimo. Lo so che, specie in quest’era renziana, è quasi un obbligo politico il “sognare”. Io non saprei indicare un mio sogno residuo, un sogno restato da realizzare… Se non concordare con i saggi dell’antico Egitto nell’augurarmi non una lunga vecchiaia ma una BUONA vecchiaia…
Lei è stata insignita di numerosi premi e riconoscimenti. Ricordo tra tutti quello che le ha assegnato il Presidente della Repubblica: Medaglia d’oro ai Benemeriti della scienza e cultura, oltre all’ultimo in ordine di tempo: il Campano d’oro, prestigioso premio che i laureati dell’Università di Pisa assegnano ogni anno a personalità che proprio nell’ateneo pisano hanno portato a termine il loro corso di studi. Tra tutti i premi e i riconoscimenti che le hanno assegnato, senza ovviamente togliere valore ad altri, quale l’ha emozionata di più?
E’ sempre l’ultimo amore quello che sembra toccarci di più…allora direi il Campano d’oro.
L’Egittologia italiana. Può farci il punto della situazione e regalarci le sue considerazioni?
Le cattedre di prima fascia sono ormai soltanto due (Pisa e Statale di Milano), vi sono cattedre di seconda fascia con docenti eccellenti, e soltanto la poco illuminata politica universitaria degli ultimi tempi impedisce che gli eccellenti colleghi passino a ordinari. Vi sono alcuni posti di ricercatore in Egittologia, e sono ricercatori quasi tutti ad un’ottima altezza scientifica, e vi sono in Italia numerosi giovani con dottorato o assegni di studio, che davvero a quello che posso costatare sono di ottima preparazione in Italia e con addestramento presso istituzioni straniere, europee soprattutto; ci sono elementi tali da far sperare per la nostra disciplina in una generazione ben preparata anche nell’archeologia sul terreno. Naturalmente la nostra politica deve impegnare risorse per sostenere la ricerca storica e archeologica.