Riprendiamo il racconto e a coloro che non avessero letto le parti 1 e 2 consigliamo di farlo cliccando qui:

Il Museo Egizio e il Tempio di Ellesija – Parte 1

Il Museo Egizio e il Tempio di Ellesija – Parte 2

 

L’arrivo in museo del gigantesco puzzle mette fine ad una serie di intoppi e contingenze non proprio favorevoli, per aprire una serie di nuove problematiche. Dove posizionare il Tempio? Deve essere davvero rimontato? E secondo quali criteri? E se deve essere rimontato chi è in grado di accettare una sfida così complessa?

Prima ancora che i blocchi prendessero la via del Piemonte si era fatta strada l’idea di rimontarlo in Nubia, su suggerimento del nostro connazionale Pietro Gazzola, valente architetto che ricoprì la carica di Soprintendente della Sicilia orientale (1939-1941) e del Veneto occidentale (1941-1973), chiamato dall’UNESCO per curare gli straordinari progetti di recupero in Egitto e in Afghanistan.

Pietro Gazzola, Piacenza, 6 luglio 1908 – 14 settembre 1979.

Per nostra fortuna la pur autorevole posizione del Gazzola non trova nessun appoggio e viene respinta anche l’idea di posizionare il tempio in uno spazio aperto appositamente realizzato nel cuore della città: il clima torinese non avrebbe garantito la conservazione nel tempo dell’antichissima struttura.

Il dubbio se rimettere assieme i pezzi del puzzle è figlio delle linee guida del restauro di quel periodo improntato su un purismo assoluto, secondo il quale la ricostruzione avrebbe potuto falsare l’aspetto originario della struttura. Il suggerimento in questo caso è di mostrare i blocchi uno dietro l’altro, appoggiati a terra, rispettando dove possibile la coerenza dei testi e delle immagini.

Ma i tecnici del Museo Egizio e gli operai del Service hanno lavorato con grande perizia e le informazioni presenti sulla stessa pietra sono più che sufficienti per rimontare correttamente il Tempio di Ellesija. In particolare i blocchi d’angolo presentano nel medesimo blocco anche una sezione della parete che in origine gli era perpendicolare facilitandone notevolmente un riposizionamento corretto, come per altro è avvenuto circa 4500 anni prima nel Tempio in Valle di Khafra, proprietario della seconda piramide di Giza.

A sinistra un particolare dal Tempio in Valle di Khafra (credits: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Khafre_valley_corner.jpg) che mostra la similitudine costruttiva con il Tempio di Ellesija, nella foto a destra. Credits: Franco Lovera per il Museo Egizio in: “Il Tempio di Ellesija”, di Silvio Curto. Edizioni Mondadori Electa, 1999.

Dunque, il Tempio si riscostruisce dentro al Museo Egizio, ma ancora non è deciso il luogo esatto e mancano le maestranze. Gli unici luoghi adatti sembrano essere il cortile e l’Ala Nuova ed è quest’ultima che alla fine viene scelta.

In origine il Palazzo del Collegio dei Nobili, che ospita il Museo Egizio e l’Accademia delle Scienze, non era chiuso su tutti i lati come oggi ci appare. La struttura che ospita le scale mobili, da cui si scende per iniziare la visita e da cui si sale al termine con uscita in via Eleonora Duse, è stata costruita in un secondo tempo e denominata per questo Ala Nuova. Prima della ristrutturazione del 1986 era una semplice palazzina ad un piano priva di strutture sottostanti ed è lì che il Tempio di Ellesija trova la sua destinazione definitiva, in continuità e in stretto legame con la Galleria dei Re – ospitata al piano terra dell’ala che chiude piazza Carignano – di cui costituisce naturale prosecuzione del percorso di visita.

 

1) Ala Nuova; 2) Sala del Tempio di Ellesija; 3) Palazzo del Collegio dei Nobili; 4) Ingresso del Museo Egizio; 5) Piazza Carignano.

Dopo lunga ricerca arrivano anche le maestranze e grazie ad un finanziamento del Ministero della Pubblica Istruzione il gigantesco puzzle comincia a prendere forma.

Tornano leggibili le antiche iscrizioni associate alle immagini sacre e ancora una volta la perizia degli operai egiziani viene messa in evidenza: accostati i blocchi nella giusta posizione è sufficiente stuccare le giunture e restituire la piccolissima parte mancante di quell’iscrizione o di quell’immagine che non è stato possibile evitare durante il taglio delle pareti in blocchi.

Il tetto a volta del Tempio, di cui sono sopravvissuti alcuni brevi tratti nei blocchi di pertinenza, viene ricostruito in modo da ricreare la medesima ambientazione, ma rendendo ben riconoscibile l’intervento moderno. A farsi carico di questo aspetto è l’imprenditore Pinin Farina che, a proprie spese, fa progettare dai propri ingegneri una struttura appositamente sagomata, sostenuta da un telaio in acciaio che resta invisibile per il visitatore.

Purtroppo in questa fase non è possibile posizionare le tre stele già nominate, la Stele di Fondazione, quella dell’Appannaggio e la Stele del Restauro, che vengono comunque esposte a lato del tempio, in modo da essere visibili. I graffiti dei visitatori antichi, in alcuni casi molto interessanti, ricevono invece l’attenzione dei restauratori per svariati anni, ricoverati nei loro laboratori.

Nell’autunno del 1970, alla presenza delle autorità italiane ed egiziane, il tempio di Ellesija viene finalmente presentato al pubblico, simbolo dell’ingegno e della tenacia dell’uomo, ma anche del suo desiderio di preservare un passato importante minacciato da un presente ingombrante.

La sistemazione del Tempio di Ellesija così come lo vediamo oggi, la dobbiamo ai lavori di ristrutturazione di cui si è fatto appena cenno, avvenuti tra il 1986 e il 1991, dove ancora una volta quest’opera voluta da Thutmosi III ha impegnato non poco la mente di uomini brillanti.

Il progetto di ammodernamento dell’Ala Nuova prevede la trasformazione della palazzina in una struttura formata da cinque livelli, di cui tre soprelevati e due interrati e il Tempio, ricostruito al suo interno, diventa di nuovo un problema da risolvere.

I tecnici del Museo Egizio escludono del tutto la possibilità di un nuovo smontaggio dei blocchi e quindi non resta che trovare il modo per scavarci sotto, e non un solo piano, ma ben due! La questione ci riporta direttamente in quegli anni in cui centinaia di operai e tecnici lavorarono senza sosta, in lotta contro il lento ma inesorabile innalzamento del Lago Nasser, adottando soluzioni geniali per risolvere problematiche complesse.

Nello schizzo di fantasia eseguito da Tiziana Giuliani l’idea che sta alla base del sollevamento momentaneo del Tempio di Ellesija, in modo che potessero essere realizzati i due livelli sottostanti.

Anche in questo caso l’ingegno e l’ingegneria risolvono tutto: viene inserita sotto il Tempio una struttura in acciaio che poi, grazie a dei martinetti idraulici ancorati ad una solida struttura del tipo a “carroponte”, viene sollevata e con essa l’intero Tempio di Ellesija. Non appena terminati i lavori di sterro e realizzato il nuovo massiccio solaio i martinetti fanno scendere lentamente l’antica costruzione che torna così ad appoggiarsi di nuovo a terra.

Approfittando di queste opere di ristrutturazione anche il Tempio viene completato con una facciata del tutto simile all’originale, compresa l’integrazione in essa delle tre stele più volte citate e dei graffiti degli antichi visitatori, il cui restauro nel frattempo si è completato.

Nel 1991 terminano i lavori all’Ala Nuova e anche la sala del Tempio di Ellesija riapre al pubblico. Dopo circa trent’anni dall’idea di salvamento lanciata dall’UNESCO e raccolta dalla Soprintendenza alle Antichità Egizie di Torino, l’ipogeo può essere ammirato dai visitatori completo di quasi ogni sua parte, del tutto simile alla sua forma originale.

Non sono tornati i sacerdoti a celebrare i riti, né l’incenso riempie il piccolo spazio con il suo inconfondibile odore di sacro, ma il nome di uno dei più grandi sovrani d’Egitto torna ad essere pronunciato e in questo piccolo lembo di Nubia ricostruito in Piemonte, si continua a perpetrare l’eterno.

 

Storia e descrizione del Tempio

Il Sudan ha una storia notevole e vanta un ricco patrimonio archeologico che ne è testimone. Nel corso dei millenni questo Paese ha avuto funzione di contatto tra i popoli dell’Africa subsahariana e centrale, del Mediterraneo e del mondo arabo. Alla fine del IV millennio a.C., ancor prima della nascita dell’Egitto faraonico e della civiltà di Kerma, il fiume Nilo e i suoi affluenti erano percorsi da uomini, beni e idee che circolavano in una situazione fluida e permeabile, priva di confini difesi volti a definire due distinte realtà statali.

Tuttavia la prima attestazione scritta di un contatto tra Egitto e Nubia la si trova nella Pietra di Palermo e risale a Snefru, padre di Cheope, che regnò tra il 2630 e il 2609 a.C. circa. La documentazione, quasi tutta di parte egizia, racconta di colonizzazione (Medio Regno) e conquista (Nuovo Regno) dei territori a sud della Prima Cateratta da parte dei faraoni, con una contrazione sistematica durante i Periodi Intermedi, a cui corrisponde un’espansione della sfera di influenza nubiana.

A partire dell’VIII secolo a.C. nei pressi di Napata prende forma un regno capace di spingersi fino alle sponde del Mediterraneo, conquistando l’intero Egitto e governandolo per circa un secolo. È la XXV dinastia, conosciuta anche come dinastia nubiana, cuscita o etiope, di cui fanno parte sovrani come Pianky, Taharqa e Tanutamon.

Nel 2003 l’egittologo Cherles Bonnet trovò in una fossa a Dukki Gel, poco distante da Kerma, sette statue spezzate di faraoni della XXV dinastia, tra le quali spicca il colosso di Taharqa alto ben 2.7 m. Dopo un eccezionale restauro le statue sono state esposte al museo di Kerma. Credits: Paolo Bondielli.

La costruzione del Tempio di Ellesija da parte di Thutmosi III rientra quindi in una più ampia attività volta ad integrare egizi e nubiani nel periodo del Nuovo Regno, quando sovrani energici e potenti conquistano stabilmente quelle terre istituendovi un vicereame.

I primi viaggiatori che si sono avventurati nei pressi del piccolo ipogeo raccontano di un villaggio composto da un esiguo numero di abitazioni, notizia confermata poi dalla missione di salvataggio, ma è ipotizzabile che in zona sorgesse un centro di una certa rilevanza, o almeno tale da giustificare la scelta del sovrano.

Lo scenario è molto suggestivo, con l’ampia ferita aperta dall’incessante lavoro del Nilo sull’altopiano arabico che ha creato una parete di arenaria alta una decina di metri e lunga una quindicina di chilometri, rivolta quasi perfettamente ad est.

Nello spazio antistante un ampio terreno che decresce verso il fiume, reso fertile dalla consueta inondazione annuale, pare essere in grado di sfamare un consistente numero di persone, ma di tutto ciò non vi è testimonianza archeologica.

Ciò che sappiamo è che nel 1454 a.C. Thutmosi III dà mandato a Nehi, viceré di Kush, di realizzare un Tempio da dedicare alle divinità di Horus di Maiam e alla sua paredra Satet nel cuore del governatorato di Uawat, distretto di Maiam.

Per prima cosa viene scavato nella pendice un recesso della lunghezza di 17 m e una larghezza al piano di circa 3, realizzando così la facciata del Tempio incassata nella scarpata dell’altipiano. L’esterno viene pavimentato con blocchi di pietra e leggermente a sinistra rispetto all’asse centrale del recesso, viene tagliata un’ampia apertura di altezza pari a 2,5 m per una larghezza di 1,5 m.

A sinistra di questa apertura si trova la Stele dell’Appannaggio, poco leggibile ma ancora in grado di farci capire il senso del suo contenuto; a destra la Stele della Fondazione del Tempio e quella del Restauro fatta scolpire successivamente da Ramesse II.

Nel fondo di questo piccolo “atrio” si trova la porta di accesso al tempio (2 m x 0,8 m), oltre la quale alcuni gradini conducono al vano ipogeo che si presenta in forma di T rovesciata, il cui pavimento scavato nella roccia è stato poi livellato con terra battuta.

La realizzazione del Tempio non tiene conto degli angoli retti, ne risulta quindi una pianta sbieca con il vestibolo trasversale che misura mediamente 5,50 x 3,50 m da cui si accede alla cella, inclinata verso destra, di 2 x 3 m. In fondo alla cella un altare sul quale insistono tre sculture a mezzo tondo di Thutmosi III al centro, Horus di Maiam alla sua destra e Satet alla sua sinistra. Ramesse II rimetterà mano a questa triade rimodellando Horus in Amon e Satet in Horus.

Appare curioso che Ramesse non abbia lasciato Horus intatto limitandosi a trasformare Satet in Amon, ma la risposta risiede nell’importanza che in Egitto veniva data alle posizioni rispetto alla figura centrale e Amon non poteva che sedere alla destra del re.

Le due sezioni riguardano la ricostruzione all’interno del Museo Egizio del Tempio di Ellesija e consentono di apprezzare gli aspetti costruttivi sia antichi che moderni, compresa la struttura metallica che sostiene la volta del tetto realizzata dagli ingegneri di Pinin Farina. Credits: “Il Tempio di Ellesija”, di Silvio Curto. Edizioni Mondadori Electa, 1999.

Il pavimento della cella appare lievemente inclinato verso l’alto in direzione delle statue ed è solidale con il soffitto a botte, cosicché l’altezza rimane costante a 2,20 m. Anche il vestibolo presenta il soffitto a botte, ma va precisato che quando la squadra poté finalmente entrare nel Tempio i soffitti erano interamente crollati, fatto salvo un richiamo alla curvatura in prossimità della parte più alta delle pareti recuperato in fase di riduzione del Tempio in blocchi, grazie al quale è stato possibile ricreare successivamente le volte in museo.

Una volta scavato per intero l’ipogeo le pareti sono state preparate per ricevere l’apparato figurativo e i testi che lo accompagnano. Le tecniche utilizzate differiscono tra esterno e interno perché tengono conto dell’intenso sole del sud: sulla facciata le figure e i segni geroglifici si vergano solcando la pietra, all’interno si procede con il bassorilievo.

Abbiamo già detto delle due stele scolpite sulla facciata e anche della terza, aggiunta da Ramesse II per raccontare del suo restauro. L’ultima iscrizione esterna è incisa sopra la porta di ingresso e presenta una cornice con il disco solare che sovrasta una banda che riporta il disco solare alato, le cui ali sono spiegate a proteggere i cartigli di Thutmosi III.

L’interno presenta una decorazione di tipo tradizionale, ma con alcune soluzioni originali.

Per tutto il perimetro, tranne il lato della cella che ospita l’altare e le statue, corre uno zoccolo di 1,20 mt, reso poi di misura un poco inferiore nella ricostruzione presso il Museo Egizio. L’apparato figurativo si appoggia su tale zoccolo e raggiunge il soffitto, compreso lo spazio creato dalla centinatura nelle due pareti corte del vestibolo, dovuto alla copertura a botte.

Disegno schematico di una parte dell’interno del Tempio di Ellesija che mostra il “layout” entro il quale furono realizzate le iscrizioni e le immagini. Credits: Tiziana Giuliani.

Ogni parete presenta una decorazione a fasci vegetali tenuti assieme da legature poste a distanza regolare che rimanda a strutture arcaiche, note dalle iscrizioni geroglifiche che indicano i luoghi in cui risiedono le divinità. Le parole e le immagini sono comprese tra i segni del cielo e della terra, quest’ultimo coincidente con la linea che delimita lo zoccolo, mentre le due pareti con la parte alta centinata presentano un terzo elemento: un disco solare alato posto subito al di sotto del “cielo”.

All’interno di questi spazi le divinità si susseguono senza soluzione di continuità per la mancanza delle consuete linee verticali che demarcano precise scene, con le teste che risultano essere allineate alla medesima altezza a prescindere dalla loro postura, che talvolta le vede sedute altre in piedi.

Il re “entra” nel tempio e viene accolto dalle divinità a cui rende onore con vari sacrifici e con le quali entra in dialogo grazie ai gesti e alle colonne di geroglifici, ben eseguiti ed ordinati nel consueto spazio tra colonne verticali. Vedremo più avanti quali sono le divinità con cui Men Kheper Ra Thutmosi ha voluto interagire all’interno del suo ipogeo, la cui forma a T rovesciata sembra essere il prototipo dei templi rupestri successivi, come ad esempio quelli maestosi di Abu Simbel.

Fin dall’Antico Regno si trovano cappelle di privati che rinunciano alla costruzione in elevato per essere scavate parzialmente nella roccia e presso il grandioso tempio di Hatshepsut la Cappella di Hathor mostra la medesima forma del Tempio di Ellesija, ma in un contesto totalmente diverso. Lo Speos Artemidos, tempietto che la regina Hatshepsut ha voluto dedicare alla dea leonessa Pakhet nei pressi di Beni Hassan, è scavato anch’esso nella roccia, ma oltrepassando l’elaborato portico a otto colonne si entra in una sola stanza.

Quello scavato nella parete a picco sul Nilo nel limite meridionale del distretto di Kasr Ibrim da Nehi per conto del suo re, è il primo ipogeo con pura funzione di tempio ad avere questa caratteristica pianta.

Tra il vestibolo e la cella l’accesso è diretto, senza stipi o architravi che ne segnino il passaggio. Credits: Franco Lovera per il Museo Egizio in: “Il Tempio di Ellesija”, di Silvio Curto. Edizioni Mondadori Electa, 1999.

Anche l’architettura interna mostra tratti originali, come la mancanza di una struttura tra il vestibolo e la cella, così che il passaggio tra i due ambienti avviene senza che vi sia una porta, un architrave, degli stipiti. Bisogna forse tornare ancora all’epoca del costruttore della seconda piramide di Giza, Khafra, per trovare una soluzione architettonica simile adottata nel suo Tempio in Valle. Degno di nota, ma non una novità, il pavimento della cella che risale verso l’alto solidale al soffitto, con l’intento di creare un punto focale verso l’altare e la nicchia con le tre statue e, forse, per dare l’idea di uno spazio maggiore del vero, una scelta che potrebbe spiegare anche l’assenza di un marcato passaggio tra i due ambienti dell’ipogeo.

Nella quarta ed ultima parte prenderemo in esame l’apparato figurativo del tempio percorrendone le pareti proprio come fa Thumosi III, incontrando tutte le divinità che il grande sovrano ha voluto rappresentate in questo spazio sacro.

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Paolo Bondielli

Storico, studioso della Civiltà Egizia e del Vicino Oriente Antico da molti anni. Durante le sue ricerche ha realizzato una notevole biblioteca personale, che ha messo a disposizione di appassionati, studiosi e studenti. E’ autore e coautore di saggi storici e per Ananke ha pubblicato “Tutankhamon. Immagini e Testi dall’Ultima Dimora”; “La Stele di Rosetta e il Decreto di Menfi”; “Ramesse II e gli Hittiti. La Battaglia di Qadesh, il Trattato di pace e i matrimoni interdinastici”.

E’ socio fondatore e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Associazione Egittologia.net. Ha ideato e dirige in qualità di Direttore Editoriale, il magazine online “MA – MediterraneoAntico”, che raccoglie articoli sull’antico Egitto e sull’archeologia del Mediterraneo. Ha ideato e dirige un progetto che prevede la pubblicazione integrale di alcuni templi dell’antico Egitto. Attualmente, dopo aver effettuato rilevazioni in loco, sta lavorando a una pubblicazione relativa Tempio di Dendera.

E’ membro effettivo del “Min Project”, lo scavo della Missione Archeologica Canario-Toscana presso la Valle dei Nobili a Sheik abd el-Gurna, West Bank, Luxor. Compie regolarmente viaggi in Egitto, sia per svolgere ricerche personali, sia per accompagnare gruppi di persone interessate a tour archeologici, che prevedono la visita di siti di grande interesse storico, ma generalmente trascurati dai grandi tour operator. Svolge regolarmente attività di divulgazione presso circoli culturali e scuole di ogni ordine e grado, proponendo conferenze arricchite da un corposo materiale fotografico, frutto di un’intensa attività di fotografo che si è svolta in Egitto e presso i maggiori musei d’Europa.

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