Il Museo Egizio e il Tempio di Ellesija
Parte 1
Nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Araba d’Egitto n. 290 del 17 dicembre 1966, appare un decreto del Presidente della Repubblica Gamal Abd el-Nasser, il n. 4646, emanato dalla Presidenza il 25 Shaaban 1386 (8 dicembre 1996).
Il decreto consta di tre articoli, il primo dei quali sancisce quanto segue: “Il Tempio di Ellesija verrà concesso al Governo e al Popolo d’Italia, a titolo di riconoscimento della loro efficace partecipazione al salvataggio dei due Templi di Abu Simbel”.
Nel settembre del 1970 il Museo Egizio può mostrare ai suoi visitatori una nuova acquisizione proveniente da un’area geografica che i più fanno fatica a collocare nel planisfero del mondo: la Nubia, in pratica l’attuale Sudan del Nord.
Si tratta di un tempio dedicato ad Horo di Maiam e alla sua paredra Satet voluto dal grande sovrano Thutmosi III e realizzato per suo conto da Nehi, viceré di Nubia.
La zona scelta è uno scenografico pendio che costeggia la riva destra del Nilo, in una località di cui è andato perduto il toponimo antico e che oggi conosciamo come Nag Ellesija, a circa 230 Km a sud di Aswan.
La sua attribuzione e la datazione relativa sono dati certi poiché indicati nella Stele di Fondazione del tempio: “Anno 51, mese 2 di Shemu, giorno 14 […] il re dell’Alto e del Basso Egitto ‘Menkheperra’, figlio di Ra ‘Thutmosi’…”. Non è possibile invece sistemare con altrettanta certezza in una cronologia assoluta la data che ci fornisce la stele, ma con buona approssimazione possiamo collocare la fondazione del tempio nella primavera del 1454 a.C. Un paio di secoli più tardi Ramesse II ritenne il Tempio di grande interesse, disponendo che venisse restaurato ed apponendovi una stele a ricordo dei fatti.
Pur non potendo indicare con precisione una data, possiamo affermare che un tempio rupestre costruito circa tremilacinquecento anni fa nell’attuale Sudan da un potente faraone, è stato letteralmente salvato dalle acque e ricostruito all’interno del Museo Egizio, a gloria e ricordo di Thutmosi III e per la conoscenza degli uomini moderni.
Il motivo per cui il Tempio è stato strappato alla roccia sudanese e ricostruito nelle sale del Museo Egizio è generalmente noto per grandi linee, grazie soprattutto alle spettacolari vicende che riguardano lo spostamento dei templi di Abu Simbel e di File. Ma la storia del suo “salvamento” è ricca di dettagli preziosi non sempre rintracciabili con facilità, ma che consentono di vivere quasi in prima persona una pagina davvero emozionante dell’archeologia mondiale.
Proviamoci.
Nel 1952 nasce la Repubblica Araba d’Egitto a seguito di un colpo di stato portato a termine dall’organizzazione militare “Ufficiali Liberi” nella notte tra il 22 e il 23 luglio, di cui è membro anche il futuro presidente Gamal Abd el-Nasser. Lo scopo del putsch è quello di destituire la dinastia di re Faruk, ritenuta corrotta ed eccessivamente piegata ai voleri britannici, presenti in Egitto da molto tempo ed interessati in particolar modo al controllo del Canale di Suez, dove l’80% delle navi che vi transitano in quel periodo battono bandiera inglese.
Dopo la battaglia di Tell el-Kebir del 1822 che mette fine alla guerra anglo-egiziana a vantaggio dei primi, la corona britannica diventa l’effettiva ed indiscreta padrona dell’Egitto, la cui ingerenza, pur in forme diverse a seconda del periodo, sarà ben tangibile fino al 1956, anno in cui diventa presidente Nasser.
La neonata Repubblica necessita di un ammodernamento radicale a partire da una maggiore produzione di energia elettrica, oltre all’aumento dei terreni coltivabili, per andare incontro all’incessante aumento demografico. Nel secolo che precede i fatti di cui stiamo parlando la popolazione egiziana è passata da dieci a diciannove milioni, quasi raddoppiando, con i terreni coltivabili aumentati solo del 15%.
Nasce così l’idea di costruire la Grande Diga, conosciuta anche come Diga Alta per differenziarla da quella “Bassa” già esistente, costruita tra 1899 e il 1902 e successivamente sopraelevata per ben due volte.
Tra progettazione e individuazione dei fondi necessari alla sua costruzione, i lavori iniziano non prima del 1960 e terminano 10 anni dopo. L’evento ha una rilevanza mondiale ed arriva ad inserirsi nei complessi e delicati rapporti tra i due Blocchi allora contrapposti nell’ambito della Guerra Fredda, con gli Stati Uniti che prima promettono di garantire presso il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale l’erogazione di un cospicuo finanziamento e poi si ritirano, onere di cui si fa carico l’Unione Sovietica, mettendo a disposizione del governo egiziano circa un terzo della spesa totale, oltre al know how tecnico necessario.
Il resto della copertura economica arriva dai proventi del Canale di Suez che il presidente Nasser nazionalizza forzatamente il 26 luglio 1956 escludendo le potenze straniere e innescando una ritorsione, passata alla storia come la “Crisi di Suez”. Inghilterra, Francia e Israele occupano militarmente l’area del Canale, ma a seguito delle fortissime pressioni internazionali, soprattutto da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, dopo soli otto giorni sono costretti a riconsegnare l’istmo all’Egitto e a ritirare i propri militari dall’area.
Per mantenere l’accordo tra le parti viene coinvolta un’organizzazione internazionale nata nel 1945, che decide di inviare forze militari di peacekeeping con il compito di sorvegliare la delicata situazione che si è venuta a creare in quell’area sensibile. Si tratta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’ONU, che per la prima volta invia un contingente di caschi blu in una zona che è stata teatro di guerra con il compito di garantire la sicurezza di tutte le parti coinvolte.
Quanto accaduto durante la “Crisi di Suez” viene indicato dagli storici come il momento in cui gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica assumono il ruolo delle due super potenze mondiali per come le abbiamo conosciute, in grado di attrarre nelle rispettive orbite il resto del mondo dividendolo in due blocchi distinti.
Non c’è qui modo per approfondire ulteriormente l’aspetto politico, per quanto interessante, che accompagna la costruzione della Grande Diga, perché a noi interessa soprattutto ciò che ne consegue: la nascita dell’immenso bacino artificiale del lago Nasser.
Sei anni dopo il termine dei lavori l’incavo destinato al riempimento è a regime, con una lunghezza di circa 500 km ed una larghezza, nel punto massimo, di circa 22: centossessanta chilometri cubi di acqua che coprono una superficie di 6000 km2. La costruzione della diga ha aumentato di un terzo il terreno coltivabile del Paese e di circa il 50% la produzione di energia elettrica, consentendo anche ai villaggi più remoti di trarne gli indubbi benefici.
Numerosi anche gli aspetti negativi derivati direttamente da questa soluzione così invasiva, a partire dall’equilibrio biologico, per arrivare all’aspetto ecologico e alla progressiva infertilità del terreno privato del prodigioso limo portato dalle inondazioni, che costringe i contadini egiziani all’uso intensivo dei fertilizzanti chimici.
Il Grande Fiume privato della sua poderosa spinta naturale cede terreno al Mediterraneo le cui acque salmastre risalgono i canali del Delta rendendo impossibile la vita agli animali e agli uomini, perdendo così ampi tratti di ottimo terreno coltivabile.
Ma anche in questo caso non possiamo approfondire un tema di grande interesse e attualità.
E sotto il lago? Un patrimonio archeologico andato pressoché perduto, per sempre.
Da tempo immemore gli abitanti dell’Africa nordorientale si sono aggregati prevalentemente nei pressi del Grande Fiume Nilo che rendeva fertili i deserti, semplici gli spostamenti, esso stesso fonte di cibo ed inesauribile riserva d’acqua per uomini ed animali. Un innalzamento così importante del livello delle acque non può che cancellare questi insediamenti e con essi le storie degli uomini che li hanno costruiti ed abitati per un numero incalcolabile di generazioni.
Già con la costruzione della Diga Bassa e dei successivi rialzamenti, il Tempio di File finisce per essere parzialmente sommerso durante le piene del Nilo, con danni incalcolabili all’apparato iconografico e crolli di alcune parti della struttura. La condizione di questo meraviglioso tempio, poi salvato in una delle più incredibili operazioni di “spostamento”, è descritta nelle celebri parole di Pierre Loti, La mort de Philae, a cui lasciamo il compito di raccontare: “…ci troviamo nel mezzo di una scena tragica, sulle acque di un lago circoscritto da una specie di anfiteatro terribile nella sua scarna grandiosità, formato dalle montagne del deserto. Sul fondo di questo immenso circo di granito serpeggiava un tempo il Nilo, formando freschi isolotti, ove la verzura dei palmeti contrastava con la squallida desolazione delle circostanti pareti montane. Oggi, in seguito alla diga costruita dagli inglesi, l’acqua è salita, salita come una marea che non scenderà mai più: questo lago, vasto come un piccolo mare, sostituisce i meandri del fiume, e inghiotte sempre più le isole sacre…Siamo fermi, in silenzio, è buio e freddo; i remi sono immoti e si sente soltanto il lamentoso ululare del vento e il fievole sciacquio dell’acqua contro le colonne e i bassorilievi. Poi, improvvisamente, il tonfo sordo di una caduta: si è staccata una grande pietra scolpita, sprofondando nel caos nero dove l’attendevano quelle già scomparse, e i templi inghiottiti, e le vecchie chiese copte, e le città dei primi secoli cristiani, tutto ciò che fu un tempo l’isola di File, perla dell’Egitto, una delle meraviglie del mondo”.
Più a sud un tempio “minore” e meno noto, interamente scavato nella roccia, condivide le stesse sorti del Tempio di File.
La prima citazione moderna del Tempio di Ellesija la dobbiamo, forse, al politico inglese Thomas Legh, in Egitto tra il 1812 e il 1814. Nel suo Narrative of a Journey in Egypt and the Country Beyond the Cataracts racconta del suo viaggio tra Derr e Ibrim, dove “presso un villaggio di nome Gatta, c’è una piccola grotta scavata, con nel fondo tre statue”.
Poco dopo anche il collezionista W. J. Bankes passa da quelle parti in compagnia del ferrarese Giovanni Finati e descrive il tempio in modo più accurato. Altri viaggiatori lasciano traccia del Tempio di Ellesija tra i loro appunti di viaggio, fornendo indicazioni preziose anche sul vicino villaggio e fissando nei loro disegni l’evoluzione strutturale del piccolo ipogeo, materiale importantissimo per conoscere la storia del Tempio.
Ma la prima pubblicazione scientifica la dobbiamo alle indagini svolte in Egitto dalla celebre spedizione prussiana guidata da Karl Lepsius tra il 1842 e il 1845, dove il tempio di Ellesija trova spazio all’interno dei 12 volumi che in seguito vengono pubblicati, ancora oggi di fondamentale importanza per l’Egittologia: i Denkmäler aus Aegypten und Aethiopien.
Un altro grande egittologo, Kurt Sethe, dà dignità storica al Tempio inserendolo in un’importante raccolta di fonti che raccontano del Nuovo Regno, pubblicata nel 1907. Ed è probabilmente grazie al lavoro di Sethe che Arthur Weigall inserisce il tempio nel suo elenco di monumenti nubiani da salvare prima dei rialzamenti previsti per la Vecchia Diga, dato alle stampe lo stesso anno: A. Weigall, A Report on the Antiquities of Lower Nubia, Oxford 1907.
Altri egittologi frequentano il sito, tra i quali J. H. Breasted ed Alan Gardiner, e cospicue parti delle iscrizioni iniziano a comparire nelle pubblicazioni più importanti, come ad esempio la Stele della Fondazione a cura di A. Burkhardt in “Urkunden der 18. Dynastie”.
Tra il 1929 e il 1933 avviene la seconda soprelevazione della Diga Bassa e da quel momento le piene annuali del Nilo arrivano fino alla serie di fori presenti sulla parte più alta della facciata del Tempio di Ellesija, inondandolo completamente. Già pochi anni dopo alcune stele poste all’esterno, rilevate e tradotte dal Gardiner, appaiono fortemente compromesse e anche all’interno la pavimentazione viene distrutta dalla furia dell’acqua, come gli stucchi colorati stesi sulle pareti e che in parte erano sopravvissuti.
Un fatto curioso. Al termine del periodo di piena, quando il Nilo si ritira e torna nel suo alveo naturale, il Tempio diventa una fonte di acqua cristallina che per lungo tempo pare sgorgare come sorgente. Evidentemente l’altipiano soprastante il Nilo su cui è stato scavato il Tempio trattiene parte dell’acqua dell’inondazione, per rilasciarla lentamente attraverso un’ampia fessura all’interno dell’ipogeo probabilmente creata da un antico sisma, dove un apposito condotto è stato poi scavato per consentirne il deflusso al di sotto della soglia di ingresso.
La situazione è drammaticamente simile a quella descritta da Loti per il Tempio di File e riguarda anche altri templi innalzati in luoghi un tempo ritenuti sicuri dagli antichi costruttori.
Nel 1946 il livello dell’acqua ha quasi raggiunto l’altezza della Diga Bassa costruita una quarantina di anni prima e si fa strada l’idea di una terza soprelevazione, presto abbandonata per seguire un progetto più ambizioso: una nuova diga da costruire sei chilometri a monte di quella vecchia, che renda coltivabili diecimila chilometri quadrati di deserto e produca energia elettrica in gran quantità. Un progetto importante per l’Egitto, ma che causerà la definitiva sommersione di aree il cui valore storico e archeologico è incalcolabile, in alcuni casi già diventate un’icona del Paese che li ospita e meta di un turismo che ormai ha preso forma organizzata.
Insieme alle vestigia della civiltà egizia il “piccolo mare” inghiottirà l’intera Bassa Nubia con la sua lunga storia, i suoi villaggi, le sue necropoli, le chiese. Quasi centomila persone dovranno essere ricollocate altrove, allontanate da quei luoghi che da millenni rappresentano per loro un luogo sicuro, il tessuto sociale su cui si è sviluppata e ha preso forma la loro stessa identità.
Il progresso non può essere fermato perché il verso della medaglia è troppo allettante, nonostante il recto, inesorabile, ci presenti un conto piuttosto salato.
Nel 1952 il progetto della Grande Diga si è concretizzato ed è in cerca di finanziamenti internazionali per la sua realizzazione. Il presidente Nasser, come già accennato, si rivolge alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale trovando un’ottima accoglienza, ma la dimostrazione di interesse dell’Unione Sovietica e l’intenzione del presidente egiziano di trarre vantaggio da tutti fa venire meno le garanzie degli Stati Uniti sul pesante prestito richiesto dall’Egitto, con il conseguente nulla di fatto.
Di pari passo si muove anche la comunità accademica internazionale e nel 1955 l’UNESCO crea, sotto l’egida del governo egiziano, una commissione con lo scopo di indagare approfonditamente sulle antiche vestigia minacciate dall’acqua.
Sarebbe davvero interessante dare conto del grande lavoro svolto da archeologi, antropologi e da altre figure professionali riconducibili all’attività archeologica, capaci di organizzare in breve tempo una gigantesca survey con l’ottica di salvare il salvabile e documentare tutto il resto, in una frenetica corsa contro il tempo. Grazie a questo lavoro sono state raccolte molte informazioni che prima non erano nella disponibilità degli studiosi, utili a ricostruire intere fasi storiche e antropologiche dell’area indagata.
Certo, resta il grande rammarico di aver perduto per sempre intere aree archeologiche con le loro antiche strutture già presenti e tutto ciò che lo scavo e l’indagine avrebbero riportato in luce: ma anche questo fa parte del recto della medaglia.
L’UNESCO, il cui direttore generale è l’italiano Vittorino Veronese, individua 19 templi su cui intervenire ed avvia una campagna di sensibilizzazione internazionale senza precedenti di cui diventano testimonals studiosi di altissimo livello, tra i quali ricordiamo volentieri la nostra Edda Bresciani recentemente scomparsa e l’egittologa Christiane Desroches Noblecourt (17 novembre 1913 – 23 giugno 2011), che al salvamento dei templi nubiani dedicò tantissime energie.
L’Italia diventa tra i maggiori protagonisti di questa corsa contro il tempo e non solo per le squadre di studiosi inviati dalle nostre università per indagare e rilevare le aree archeologiche che verranno sommerse, ma anche per l’impegno economico profuso che possiamo quantificare in poco meno di un milione di dollari degli anni Sessanta, oggi circa dieci milioni di euro.
Tra la cinquantina di Nazioni che partecipano con un contributo economico al salvataggio della Nubia, l’Italia è al terzo posto dopo gli Stati Uniti e la Francia, un dato di cui essere orgogliosi.
Quattro di questi templi vengono donati dall’Egitto ad altrettanti Paesi in segno di gratitudine per il lavoro svolto: alla Spagna il Tempio di Debod, agli Stati Uniti il Tempio di Dendur, in Olanda arriva il Tempio di Tafa e…
Nel 1962 l’UNESCO si rivolge all’Italia ed in particolar modo alla Soprintendenza delle Antichità Egizie di Torino perché si faccia promotrice del salvamento del Tempio di Ellesija, coinvolgendo enti, istituzioni e privati, con la promessa di farne poi dono al nostro Paese.
Grazie anche all’interessamento del professor Sergio Donadoni la richiesta va a buon fine e l’Italia, in particolare la città di Torino, si assume l’onere e l’onore di salvare dalle acque l’ipogeo consacrato tremilacinquecento anni prima da Thutmosi III.
Protagonista di questa avventura è il professor Silvio Curto, funzionario della Soprintendenza delle Antichità Egizie e stretto collaboratore di Ernesto Scamuzzi, direttore del Museo Egizio fino al 1964, anno in cui viene sostituito dallo stesso professor Curto.
Inizia così una seconda vita per quel tempio ormai caduto nell’oblio, privo di sacerdoti che celebrano il culto quotidiano, senza più l’odore forte dell’incenso e dove il nome del re non risuona più tra le pareti incise di segni sacri e di immagini divine. Dopo una serie di sopralluoghi, carteggi, richieste di finanziamenti ed un viaggio lunghissimo tra chiatte, navi, treni e camion, i sessantasei blocchi in cui il tempio è stato tagliato arrivano a Torino e fanno il loro ingresso nella loro nuova dimora: il Museo Egizio. Siamo al 25 aprile del 1967.
Serve però fare un passo indietro, perché quei sessantasei blocchi hanno una storia da raccontare, una storia che non parte con il piede giusto.
– continua: