Siamo nel V canto dell’Inferno dantesco. Dante nella sua discesa con Virgilio incontra i lussuriosi che, spinti dalla passione amorosa, violarono le leggi umane e divine giungendo spesso a tingere il mondo di sanguinoso. Culmine del canto è sicuramente l’incontro con Francesca da Rimini. Ma chi era questa donna? Cosa fece per finire in questo girone infernale?
Francesca era figlia di Guido da Polenta il Vecchio, signore di Ravenna e andò in sposa, intorno al 1275-1282, a Gianni Ciotto (“zoppo”, “sciancato”) o Gian Ciotto Malatesta, signore di Rimini, dal quale ebbe una figlia, Concordia. Le nozze vennero combinate dalle famiglie almeno sin dal 1266, non è chiaro se per sancire una pace tra le due signorie o come riconoscimento ai Malatesta che aiutarono Guido a imporre il suo dominio su Ravenna. Ad ogni modo, non si trattava di un matrimonio d’amore se Francesca intorno all’età di 15-16 anni si innamorò del cognato Paolo Malatesta, a sua volta sposato con Orabile Beatrice contessa di Ghiaggiolo da cui ebbe due figli. I due furono scoperti e uccisi tra il 1283 e il 1286 dal marito di lei che, dopo l’uccisione della moglie, si risposò con la faentina Zambrasina di Tebaldello Zambrasi e visse fino oltre il 1300.
Dalla cronaca di allora non è stato possibile ricavare molte notizie, quasi a voler censurare un episodio increscioso e imbarazzante per la Signoria riminese; le altre informazioni ricavate dai commentatori successivi non sono altro che ampliamenti della vicenda dantesca. L’ipotesi che Paolo abbia chiesto la mano di Francesca in nome del fratello Gianciotto e che Francesca, subito colpita dal suo bell’aspetto abbia capito di dover sposare Paolo, regge poco. L’unica ipotesi verosimile è che Dante abbia personalmente conosciuto Paolo Malatesta quando questi fu capitano del popolo a Firenze dal febbraio 1282 al febbraio 1283.
La loro storia, assolutamente vera e scandalosa per l’epoca, ha avuto come sfondo anche un luogo ancora oggi molto visitato e famoso: il Castello di Gradara.
La struttura rientra nella tipologia castello-fortezza medievale e sorge nel comune di Gradara, in provincia di Pesaro e Urbino, nelle Marche. Il mastio, il torrione principale, venne costruito intorno al 1150 dalla potente famiglia De Griffo. Caduti in disgrazia, gli venne sottratta dal papato l’investitura della Curte Cretarie che venne affidata alla famiglia Malatesta, grandi Signori di Rimini, Cesena e Pesaro.
Il canto di Paolo e Francesca riscosse sin da subito grande successo nel mondo letterario ma, Dante non volle certamente dare alla storia un’impronta romantica, soprattutto se calata nella sensibilità religiosa del Medievo. A dominare la scena è la passione amorosa, dove si allude a quelle lusinghe di cui la passione si riveste fino a portare l’uomo al male e quindi alla dannazione. La pena che tocca a chi ha peccato di lussuria è una bufera terribile che travolge i dannati inesorabilmente e che non può che non essere ricondotta alla violenta passione che li trascinò in vita nel peccato e alla morte.
Francesca narra a Dante di essersi trovata, un giorno, a leggere con Paolo una delle storie più diffuse e amate dell’epoca, quella dell’amore di Lancillotto del Lago per Ginevra, sposa del suo re, e ricorda come ad un certo punto della lettura, quello culminante con il bacio tra i due, quell’istante sia stato rivelatore del reciproco sentimento che entrambi sospettavano, una forte attrazione. Dante ha un momento di cedimento e sviene; è un uomo ben consapevole di quanto sia pericoloso cedere alle lusinghe di Amore, suscitato dalla raffinata lettura amorosa del suo tempo, ma che produce nell’animo sensibile solo terreno fertile per il peccato. L’idea di Dante, e qui entra in gioco la sua idea di “amore”, è che negli anni giovanili aveva individuato nell’amore il sentimento che più di tutti poteva innalzare l’uomo a Dio, ed aveva coltivato, nel contesto dello stilnovismo fiorentino, la convinzione che l’amore fosse un’unica cosa con la gentilezza d’animo. Ora, l’esperienza che lo ha portato a percorrere “una selva oscura, ché la diritta via era smarrita” gli fa constatare che nell’amore, anziché la salvezza e l’elevazione a Dio, c’è solo la dannazione.
Gli sventurati amanti vengono così raffigurati da Dante nel V Canto della Divina Commedia, ed ancora oggi la loro storia d’amore, imprigionata in un alone di mistero e omicidio, affascina migliaia di persone:
“O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno, 90
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’ hai pietà del nostro mal perverso. 93
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace. 96
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui. 99
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. 102
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona. 105
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.
Queste parole da lor ci fuor porte. 108
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: “Che pense?”. 111
Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!”. 114
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: “Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio. 117
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”. 120
E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore. 123
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice. 126
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto. 129
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse. 132
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso, 135
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”. 138
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse. 141
E caddi come corpo morto cade.
ciao
ciao cafoni