*L’atto incostituzionale di Sutri “in castris”
Secondo le Storie di Livio (ab Urbe condĭta 7, 16, 7-8) Sutri è teatro di un importante evento nella storia di Roma che alcuni studiosi considerano un vero e proprio colpo di mano: il console Gneo Manlio, durante le operazioni di guerra condotte contro i Falisci, nel 357 a.C., organizzò una consultazione elettorale che vide destinatari i soldati che si trovavano in una fortificazione proprio a Sutri, “in castris”, da interpretarsi con un luogo posto in una posizione dominante, non lontano dal predetto centro.

La consultazione fu predisposta in fretta in furia, e fu anomala perché non si rivolgeva alle tradizionali assemblee, cioè ai comizi curiati (tradizionali espressione del ceppo quiritario del populus, quella parte dei cives che oggi potremmo definire aristocratici) o ai comizi centuriati (i comizi voluti da Re Servio Tullio, dove il popolo votava secondo il censo).
Qui invece, in questo evento storico, abbiamo una sorta di procedura anomala che vedeva l’esercito (la legio) diviso e radunato in tribù per la votazione di una legge, che fu approvata, nonostante la procedura incostituzionale.
La legge che fu approvata fu la “Lex Manlia de vicensima manumissionum”.
La legge “Lex Manlia de vicensima manumissionum”
La “lex vicensima manumissionum” sanciva che chi volesse liberare uno schiavo (o chi fosse in condizione di asservito) doveva pagare un’imposta allo Stato, destinata all’erario sacro, nella misura della ventesima parte del valore di mercato del liberato (tecnicamente manomesso).
Quindi se da un lato in questo modo si tentò di rimpinguare le casse dell’erario, dall’altro fu uno strumento per limitare l’affrancamento degli schiavi, vista la somma ingente e importante da pagare, una spesa che non poteva essere affrontata da tutti, ma solo da una particolare categoria e “classe” schiavile.
Perché se da un lato evidentemente era percepito e sentito necessario uno “strumento” per l’affrancamento servile, dobbiamo tenere comunque presente che l’economia e la società dell’antica Roma si basava su una società di tipo schiavile, lo schiavo era utile e necessario, e quindi non si poteva rischiare di minare alle basi in maniera profonda e radicale questo modello economico-sociale.
Il testo normativo di cui parliamo prese il nome di “Lex Manlia de vicensima manumissionum” e la sua approvazione venne giustificata dalla scarsezza di beni in proprietà dell’erario. Ma le motivazioni furono molto più complesse e politiche.
Con la legge si imponeva una pesante tassazione a colui che, evidentemente patrizio, decideva di manomettere (liberare, affrancare) il proprio servo.

Il versamento alle casse dello Stato doveva essere in oro. Primo punto interessante. Molti studiosi al riguardo non sono d’accordo su questo punto: si controbatte, infatti, che Roma in questo periodo non vedeva circolare tale metallo, ma bensì il bronzo nella forma pre-monetale dell’aes signatum. Tuttavia c’è da dire che già con la presa di Veio era stato fatto bottino di guerra una grande quantità d’oro e, aspetto importante, furono fatti schiavi un gran numero di abitanti di quella città.
L’oro quindi indubbiamente sotto forma di monili e altro doveva quindi esistere e soprattutto dovevano esistere delle persone nella condizione schiavile (anche per le vittoriose guerre contro i Latini).
Poi un altro aspetto importante da considerare era quello relativo al fatto se un romano poteva o meno essere schiavo. La tradizione voleva che un romano poteva essere venduto fuori dal territorio romano prima della conquista dell’Etruria, cioè trans Tiberim, oltre il Tevere. E qui si inserisce la problematica della miseria di parte della stessa popolazione romana che si era indebitata per vivere. Si tratta di una plebe immiserita dalle usurae, che poteva asservirsi perfino per pagare il debito (nexum), oppure essere sottoposta alla esecuzione nel processo (addicta). Si tratta questo di un periodo carico di tensione sociale, che aveva avuto il suo sbocco dieci anni prima nella emanazione delle cd. “Leges Liciniae Sestiae”, che sancirono che uno dei consoli fosse plebeo.
Ma i problemi dei debiti, con i conseguenti asservimenti, erano ancora problema cogente, beni di consumo e terra erano ancora monopolio della classe egemone. Tuttavia vi era una parte politica all’interno di quella aristocratica che voleva il predominio politico e ciò lo poteva ottenere proprio con le manomissioni.
Infatti sappiamo bene che nasceva un vincolo molto stretto tra manomettente e manomesso (patronus e libertus, oppure tra ricco e suo ex asservito per debiti), che in termini politici comportava il voto nei comizi per quella proposta politica piuttosto che per un’altra, o per l’elezione di un console piuttosto che per un altro, e non dimentichiamo che i plebisciti, cioè i provvedimenti normativi della plebe, acquistarono sempre più peso politico, fino ad arrivare alla lex Hortensia del 286 a.C. che stabiliva che i plebisciti dovessero avere efficacia erga omnes, cioè vincolavano tutti, patrizi e plebei.
Un altro dato importante legato all’emanazione della “lex vicensima manumissionum” è di carattere costituzionale, perché secondo alcuni studiosi i comizi tributi sarebbero stati istituiti soltanto nel 312 a.C. (mentre la predetta legge è del 357 a.C.) ma ciò non costituisce un problema perché anche ad ammetterne la piena operatività ed esistenza, la legge in oggetto, fu votata non da tutto il popolo riunito in tribù ma da una parte dell’esercito, riunito a Sutri, “in castris”, come abbiamo detto.
Era comunque cosa rivoluzionaria che non andò giù al “partito” plebeo. I soldati sono al servizio del console in periodo di guerra ed eseguono quello che il console vuole, a cominciare dalle procedure di voto che furono fatte seguendo l’ordine di tribù di appartenenza. Una procedura anomala che avvalorava la tesi che il tutto avvenne come un non-procedimento legislativo e il prodotto una non-legge.
Si trattò quindi di un vero e proprio colpo di mano in cui il console affermava il principio che una legione, durante le operazioni militari, poteva varare un atto normativo, su proposta del comandante, a cui era facile promettere che, ad operazioni belliche concluse, i soldati avrebbero partecipato maggiormente alla distribuzione del bottino di guerra.
Un precedente “inaudito”
Livio mette, quindi in risalto il fatto che si trattasse di un precedente inaudito, un novum exemplum, tanto pericoloso che portò alla reazione dei Tribuni della Plebe.
Essi quindi fanno votare un plebiscito che commina la morte a chiunque avesse seguito l’esempio inaudito di cui sopra: cioè avesse fatto votare radunando da parte il popolo, in separata sede, o solo una sua parte.

La legge “lex vicensima manumissionum” quindi viene votata e passa alla sua attuabilità, però i Tribuni della Plebe, a loro volta, mettono un “blocco” a questa procedura anomala, che non si sarebbe più dovuta ripetere! Pena la morte!
Con il plebiscito promosso dai Tribuni della Plebe si attua quella tipica espressione della volontà popolare che usa come strumento di lotta politica una sorta di “fatua”, cioè sancisce la sacrificabilità (= uccisione-immolazione per una determinata divinità) di chiunque avesse violato una norma. In questo modo uccidere il reo diventava una cosa “giusta”, con la morte che si faceva rientrare nella sfera del religioso, del divino, soprattutto in riferimento alla divinità alla quale era offerto il sacrificio con l’adempimento della sanzione.
Si tratta di uno strumento politico che si afferma fin dalla istituzione del tribunato (primi anni della repubblica): chi lede o tenta di ledere, impone o tenta di imporre un determinato comportamento al Tribuno eletto dalla plebe (494 a.C.) è suscettibile di essere sacrificato alla divinità. In sostanza il sacro era l’elemento che univa tutto il complesso dei Quiriti e il Populus, cioè tutti i Romani.
Patrizi e Romani erano uniti dalla credenza religiosa, e dalla giustezza della volontà divina già pronunciata nella comminatoria della sanzione, che veniva tradotta, interpretata dai sacerdoti, dai Pontefici Massimi come dagli Auguri.
Per fare un esempio risibile alla sfortuna derivante del gatto nero che attraversa la strada ci crede sia il ricco che il povero. La comminatoria di una pena quale la sacrificabilità da chiunque, ovvero il sacrificio mediante l’assassinio che non veniva punito, in quanto considerato come un vero e proprio sacrificio, in relazione ad una determinata divinità, era un fatto che apparteneva alla coscienza collettiva di un popolo, quello romano che, tra l’altro aveva subito più di un secolo di potere e diritto etrusco, molto propenso alla realtà magico-religiosa.
Due opposte “visioni”: Senatori vs Tribuni
Allora in sintesi, l’episodio di Sutri fu incostituzionale e troviamo due opposte “visioni” al riguardo.
La classe dominante dei Senatori lo vedevano di buon occhio sia per impinguare le casse dell’erario con metallo nobile (oro) sia perché così si dissuadevano emancipazioni di massa che trasformavano gli ex servi in solidales di quello o quell’altro uomo politico, che veniva così ad essere appoggiato nei comizi (e quindi vedeva accrescere il proprio “peso” politico).
I Tribuni che con un atto di lotta politica, avversarono l’atto, e comminavano la sacertà per chi avesse imitato l’atto di radunare a parte il popolo, per funzioni propriamente deliberanti, fuori della città, come era accaduto a Sutri, dove la condizione di soldato comportava una limitazione della facoltà di scelta nell’atto di voto.
*L’articolo è stato scritto in collaborazione con il Dott. Vincenzo Allegrezza, studioso di Diritto Romano, Dottore in Giurisprudenza.
Foto credit Felice Fiorentini, veduta dell’Anfiteatro di Sutri dall’alto.
Bibliografia
Di Porto Andrea, Il colpo di mano di Sutri e il plebiscitum de populo non sevocando. A proposito della lex Manlia de vicensima manumissionum, in “Legge e società nella repubblica romana”, Napoli, 1981, pp. 307-384.