Mille anni di storia raccontata da 800 reperti suddivisi in 8 sezioni, fatta di traffici e scambi, di rotte commerciali e naufragi, solcando senza sosta il “Mare di Mezzo”, il Mare nostrum dei romani, con la sua fitta rete di vie d’acqua che ha interconnesso tra loro genti diverse con le loro merci, le loro idee, la loro cultura. Ma anche il racconto della Pisa etrusca e poi romana, con reperti archeologici provenienti dagli scavi effettuati in questa città dalla forte impronta rinascimentale.
Non solo navi, dunque, ma un museo archeologico di cui si avvertiva l’assenza nella città della Torre Pendente, dove gli antichi scafi e il loro incredibile carico di vita diventano il punto di arrivo di un percorso ben curato e ben raccontato, in una location a dir poco strepitosa.
La scoperta
L’area della scoperta riguarda una stazione ferroviaria nota soprattutto agli studenti universitari che frequentano l’ateneo pisano e ai turisti più informali ed informati che si spostano volentieri in treno: Pisa – San Rossore. Da qui, con una passeggiata di pochi minuti, si raggiunge Piazza dei Miracoli.
Era il 1998 e nelle intenzioni delle Ferrovie dello Stato vi era la costruzione di uno stabile da adibire al controllo della linea Roma-Genova e dopo l’esito negativo dei carotaggi, obbligatori in caso di aree poste sotto il vincolo disposto per la protezione del nucleo storico della città, iniziarono i lavori di scavo per la realizzazione delle fondamenta.
Già in questa fase vennero alla luce alcuni manufatti in legno evidentemente sfuggiti alla casualità dei carotaggi, che imposero l’adozione del protocollo previsto in questi casi, con l’azienda esecutrice dei lavori che si accolla le spese per le necessarie indagini e la Soprintendenza che le esegue promettendo di fare presto.
Nel corso dei lavori di indagine vennero individuati i primi relitti, alcuni con lo scafo ancora integro, assieme ad una grande quantità di oggetti afferenti alla quotidianità della vita marinara, oltre ai materiali di carico presenti nelle stive delle imbarcazioni.
L’evidenza dei fatti costrinse le Ferrovie dello Stato a scegliere un’altra destinazione per la costruzione del fabbricato previsto in loco e poco prima della fine del 1999 fu siglato un accordo tra le parti che consegnò interamente alla responsabilità della Soprintendenza l’area interessata dai relitti, che ricevette un cospicuo finanziamento da parte dello Stato per la prosecuzione delle complesse attività di scavo.
Nasce così il Cantiere delle Navi romane di Pisa, tra i più interessanti e innovativi cantieri di scavo con laboratori dedicati, magazzini per il ricovero di reperti talvolta di ragguardevoli dimensioni e il coinvolgimento di decine di enti, istituzioni e centri universitari di ricerca, sia italiani che esteri.
Gli archeologi scavano a ritroso nel tempo per ricostruire ciò che avvenne tra il VI secolo a.C. e il VII secolo d.C. in un braccio fluviale interessato ciclicamente da devastanti alluvioni. L’enorme quantità di sedimenti depositati ha congelato il tempo nelle varie stratificazioni, consentendo di recuperare in ordine inverso il materiale travolto dalla furia dell’acqua.
La concentrazione di relitti presenti nell’area potrebbe trarre in inganno e suggerire la presenza di un vero e proprio porto, con le infrastrutture necessarie allo svolgimento delle attività marinare e commerciali, ma lo scavo non ha restituito nessuna di queste strutture. Sembra infatti che le indagini archeologiche seguite al ritrovamento fortuito del sito, abbiano intercettato un alveo fluviale dell’Aser – il Serchio – nel punto di intersezione con un canale centuriale della colonizzazione romana (I secolo a.C.).
Trovandoci nella parte più settentrionale del Sinus Pisanus, il golfo che risultava dalla linea di costa assai più arretrata di quella odierna, è probabile che i relitti di San Rossore appartenessero al traffico marittimo che discendeva da nord e raggiungeva la città attraverso una serie di canali, naturali o artificiali, collegati al bacino idrografico dell’Aser e dell’Arno, dove una serie di approdi “privati” garantivano uno scambio delle merci più diretto.
Le navi provenienti dal meridione avevano due porti più strutturati a cui attraccare, uno nell’area di Santo Stefano ai Lupi e l’altro nell’area di San Piero a Grado, dai quali le merci partivano verso la città risalendo l’Aser e alcuni bracci secondari dell’Arno, il cui corso principale – come ci informa Strabone – non era adatto alla navigazione.
L’intensità di questi traffici la si desume dal numero di relitti che sono stati ritrovati nell’alveo indagato, una trentina, tra quelli ancora in buono stato di conservazione ed altri di cui si sono trovate solo alcune parti, che testimoniano attività marittima dall’epoca ellenistica alla tarda antichità. Le imbarcazioni sono affondate a seguito di eventi alluvionali disastrosi da attribuirsi probabilmente all’Arno, che nel suo antico corso formava un’ansa proprio in prossimità del sito ritrovato a San Rossore, i cui argini venivano spazzati via in occasione di piogge particolarmente abbondanti, provocando ogni volta un grande accumulo di detriti.
Un antico dissesto idrogeologico
La stratigrafia dello scavo, l’analisi delle fonti storiche e l’osservazione del territorio hanno portato gli studiosi ad individuare una frequenza regolare delle inondazioni, che a partire dai primi anni del I secolo d.C. pare abbiano avuto una cadenza cinquantennale.
Quali dunque le cause di questi eventi così devastanti?
Ancora una volta è Strabone che ci viene in aiuto con un’informazione importante: “…pare [Pisa] un tempo sia stata prospera e ancor oggi gode di fama grazie alla fertilità della terra, alle cave di pietra e al legname per allestire navi […] Oggi questo legname lo si usa per lo più per la costruzione di palazzi a Roma e che i proprietari si fanno costruire fastosi come regge dei Persiani”.
Un’intensa attività di disboscamento che da secoli interessava l’area ci informa di probabili argini che cedono, di frane che vanno ad interessare i normali alvei dei fiumi e dei canali creando inondazioni imprevedibili e devastanti. Ma va anche ricordato che la documentazione epigrafica riporta una fondazione coloniale a vantaggio dei veterani di Augusto, la Colonia Iulia Obsequens, con la conseguente centuriazione del territorio e la creazione di appezzamenti da coltivare grazie ad ulteriori e massicci disboscamenti. Il tentativo di irregimentare i vari canali irregolari dei due fiumi, Auser e Arno, all’interno del rigido schema della centuriazione, ha probabilmente aggravato gli effetti della produzione intensiva di legname, dando vita ad un grave dissesto idrogeologico con le conseguenti e devastanti inondazioni.
Le barche ritrovate a San Rossore sono quindi tutte naufragate a causa di eventi catastrofici, che hanno provocato anche la perdita di vite umane, i cui resti sono stati ritrovati dagli archeologi in una stratigrafia di non semplice interpretazione. L’arco temporale entro il quale si sono susseguite le alluvioni è di una decina di secoli e la natura stessa del giacimento risente di tutto ciò che concerne le correnti di fondale, l’erosione e l’accumulo accostando tra loro oggetti provenienti da varie epoche.
È facile pensare a suppellettili, ceramiche ed oggetti vari già presenti nel fondale perché caduti accidentalmente durante i vari trasbordi, abbandonati perché in disuso o per alluvioni avvenute molto tempo prima, che si sommano ai reperti dell’ultima alluvione. Ed è altrettanto facile immaginare il complesso lavoro che gli archeologi hanno dovuto affrontare per dipanare la questione e collocare ciascun reperto riaffiorato durante lo scavo nella giusta griglia temporale.
Dobbiamo sempre alle caratteristiche di questo giacimento se alle nostre latitudini reperti organici come il legno, il cordame, il cuoio ed altri oggetti simili si sono mantenuti in buono stato di conservazione, tanto da consentire agli specialisti gli opportuni interventi di restauro conservativo e la successiva musealizzazione nell’attuale sede espositiva.
Gli interventi di restauro sono durati un ventennio ed hanno visto nascere tecniche esclusive e innovative, che hanno dato vita al “Centro per il Restauro del Legno Bagnato”, unico nel territorio nazionale e punto di riferimento per il mondo del restauro internazionale.
Gli Arsenali Medicei
Ad individuare la sede definitiva del museo che avrebbe ospitato le Navi di San Rossore fu una commissione presieduta da Salvatore Settis, che nel 2000 individuò nelle strutture degli Arsenali Medicei il luogo giusto.
La rapidità delle scoperte e la particolarità degli ambienti si cono reciprocamente condizionate nel dare forma all’attuale museo, dove la forte personalità della struttura è stata rispettata ed integrata mirabilmente all’interno del percorso scientifico.
Ma qual era l’uso degli Arsenali? Da chi e quando furono costruiti?
Per trovare un punto di partenza dobbiamo tornare indietro, almeno fino al 1548, quando Cosimo I dé Medici acquista circa 8000 mq di terreno dalle suore di San Vito e costruisce una successione di capannoni. Nello stesso anno entra in possesso dell’intero monastero ed affida al Buontalenti l’armonizzazione e la riqualificazione del complesso dedicato alla cantieristica nautica, attività che si protrarrà per circa una settantina di anni.
Un inventario che porta la data del 1601 descrive otto vani che si sviluppano in parallelo, chiusi da un nono vano ad essi perpendicolare, “…dove sono riposti i legnami e altri materiali necessari alle galere”. Vi sono registrate anche sette fucine nei pressi della chiesa, diventata una “ferreria” fin da subito, mentre insistono sul chiostro “…vari locali, diversi portici e magazzini e stanze dove abitano le maestranze dell’arsenale”.
Quando le attività cantieristiche iniziano progressivamente a spostarsi verso Livorno, l’Arsenale si adegua alle mutate condizioni e diversifica la sua produzione. Vengono infatti qui realizzate le carrette utilizzate dall’artiglieria per i loro cannoni ed anche i carri utilizzati per trasportare il marmo dalle cave di Pietrasanta all’indirizzo del Duomo di Firenze, oltre ad imbarcazioni relative a commesse private.
A partire dal 1755 gli Arsenali Medicei cambiano completamente destinazione d’uso aprendo gli spazi ad una forza armata di terra, la Cavalleria, o per meglio dire, alla Compagnia dei Dragoni: reparti di fanteria a cavallo, oltre ad affittare ulteriori spazi alla fabbrica di saponi De Groux con un contratto trentennale (1772).
Il legame tra gli splendidi quadrupedi e gli Arsenali Medicei resterà inalterato fino alla dismissione degli Istituti per l’Incremento Ippico avvenuta nel 1978, ultima denominazione di questa struttura che prima fu Direzione Superiore Tecnica del Comando del Deposito Stalloni del Regno, Deposito Cavalli Stalloni e infine Centro Italiano per la produzione e l’allevamento del cavallo per i servizi dell’Esercito Reale e degli Ufficiali.
Nel 1987, con il decreto n. 10 del 13 luglio, l’intera struttura degli Arsenali Medicei viene riconosciuta come Monumento Nazionale e quindi tutelata dalle relative leggi in merito.
Il Museo
Il percorso museale si articola in otto sale attraversando le quali il visitatore si immerge nel contesto storico pisano, la cui visione consente una fruizione più consapevole del nucleo principale dell’esposizione: le Navi di San Rossore.
Come già detto l’architettura e l’archeologia si sono condizionate vicendevolmente in questo progetto e lo si vede con chiarezza nel corridoio centrale, dove i box dei cavalli – restaurati in modo conservativo – ospitano oggi i reperti delle prime sale.
Il racconto non appare affatto frammentato, ma piuttosto suddiviso in piacevoli “sotto sezioni” da sfogliare pagina dopo pagina, come se si trattasse di un libro, incuriosendo il visitatore ad ogni passo mentre si raccontano le fasi del territorio pisano, dalla preistoria alla fine del regno longobardo.
Le prime tracce di occupazione risalgono all’età del Rame e proseguono fino all’età villanoviana (X sec. a.C.), con cui si può far coincidere l’inizio della storia di Pisa.
Lo scavo archeologico ha riportato alla luce anche i pali in legno delle capanne di un villaggio databile al VI sec. a.C., che ha consentito la ricostruzione virtuale in Museo di quello che doveva essere il territorio pisano nella sua fase etrusca. E in museo sono confluiti anche i reperti provenienti dalle necropoli, in particolare da un tumulo principesco del diametro di 30 metri venuto alla luce nel 1996 e dalle sepolture afferenti a questa struttura interpretata, non con certezza, come un cenotafio.
Tra i box che ospitavano i cavalli troviamo raccontata la storia delle connessioni tra i porti pisani e il resto del Mediterraneo, con una presenza greca che si rintraccia in alcuni cippi funerari realizzati da maestranze greche su soggetti propriamente etruschi. E poi le testimonianze di traffici con il Mediterraneo Occidentale e quindi la Gallia e la Corsica, con l’Arcipelago Toscano che fa da ponte per raggiungere anche le popolazioni sarde.
E poi Roma.
Dal 180 a.C. Pisa diventa una colonia romana perdendo un’indipendenza che durava da almeno cinque secoli. Le notizie di questa fase provengono prevalentemente dai Decreta Pisana oggi custoditi nel Camposanto Monumentale di Pisa, che delimita da un lato Piazza dei Miracoli.
Queste epigrafi celebrative dei figli adottivi di Augusto, Lucio e Gaio Cesari, ci informano di stutture presenti nella Pisa romana come L’Augusteum, per celebrare gli onori postumi a Lucio Cesare; un arco celebrativo, per onorare la memoria di Gaio Cesare; un teatro o anfiteatro e il foro. Tutte strutture che la città rinascimentale nasconde o lascia appena intravedere, come nel caso di elementi architettonici curvilinei ritrovati nei pressi di via San Zeno, che riportano alla forma di un teatro o di un anfiteatro.
Nel Museo sono esposti documenti epigrafici ed elementi architettonici che provengono dalle costruzioni di cui si è fatto cenno, ulteriore prova di una città romana estesa e ben organizzata, mentre sul periodo di dominazione longobarda si hanno poco informazioni, che derivano per lo più dalle tombe rinvenute dagli scavi in Piazza Duomo e in poche altre zone della città.
Attestazioni storiche dimostrano che Pisa era ancora città bizantina nel 603 d.C., quando le celebri imbarcazioni triremi con due ordini di rematori – i dromoni – erano pronti a salpare dal porto pisano per una spedizione militare, notizia che si rintraccia in una missiva di papa Greorio I (Gregorio Magno) all’esarca bizantino Smaragdo, datata al giugno di quell’anno. Secondo gli storici Pisa diventa longobarda prima del 643 d.C., data in cui Rotari – re dei Longobardi dal 606 al 652 d.C. – a seguito di numerose campagne militari conquista la Maritima, ovvero la Liguria.
Il Museo custodisce tra i vari reperti di quest’epoca, una croce funeraria longobarda in oro, conosciuta anche come croce aurea, rinvenuta in una delle sepolture di Piazza Duomo, che costituisce una caratteristica peculiare delle inumazioni longobarde sia maschili che femminili e, in minor misura, anche infantili, di soggetti del ceto medio alto.
Nelle sale successive il progetto scientifico museale racconta al visitatore il legame tra il territorio e l’acqua.
Alcune zone della periferia non investite dalla pressione antropica mostrano ancora quello che doveva essere l’ambiente in epoca classica, che ha condizionato lo sviluppo e la produzione di beni.
Dalla produzione della terra sigillata italica, una tipologia di ceramica da mensa dal caratteristico colore rosso, ai cesti realizzati ad intreccio con i vegetali disponibili in abbondanza, alla pesca che doveva sostenere i marinai e gli operatori dei vari approdi. Tutti prodotti oggetto anche di esportazione sfruttando le medesime rotte commerciali dei prodotti in importazione. Il Museo presenta una selezione di reperti molto interessante che ci mette direttamente in contatto con gli antichi mestieri e con gli artigiani che li esercitavano.
Al termine di questa sezione dove si racconta prevalentemente della cultura materiale, il Museo affronta ciò che ha causato il deposito alluvionale ritrovato nei pressi della stazione di Pisa San Rossore: la furia delle acque.
In un grande schermo è possibile seguire un uomo del II sec. d.C. in immersione che si muove in un fondale tra relitti di navi e reperti di vario genere, mentre di fronte si sviluppa una tavola cronologica che colloca nelle varie epoche gli eventi catastrofici e i relitti afferenti al deposito indagato.
L’idea della quantità di lavoro svolto dagli archeologi in questo scavo la si può avere nella sala parallela, dove il visitatore può osservare la quantità e la varietà del materiale che i contesti alluvionali restituiscono. Per dare un riferimento numerico sono state ritrovate anfore di età romana per un totale di incirca 13.000 esemplari e le caratteristiche casse di stoccaggio in plastica – che ricostruiscono gli ambienti di un deposito di materiali archeologici – riconducono ancora al lungo e meticoloso lavoro degli specialisti che indagano lo scavo archeologico.
Andando avanti nel percorso ci si avvicina al cuore dell’esposizione con la Sala IV che porta il titolo di “Navalia”, termine latino con cui si indicava sia il luogo di costruzione che quello di rimessaggio delle navi, ovvero gli arsenali.
In questa sezione viene riproposta una porzione del cantiere di scavo esponendo una parte del primo relitto che è stato ritrovato a San Rossore, la nave A. Si tratta di una “oneraria” (nave da carico) che in origine doveva raggiungere i 40 metri di lunghezza, recuperata solo in parte perché tagliata quasi a metà dalle paratie in metallo che furono inserite in profondità nel terreno, per delimitare l’area di scavo delle fondamenta dell’edificio delle Ferrovie dello Stato.
La nave trasportava un carico di anfore a fondo piatto provenienti da luoghi di fabbricazione diversi, riutilizzate per trasportare conserve di frutta.
Nella sala si osservano anche le tecniche costruttive, antiche e più recenti, grazie a modelli di grandi dimensioni che consentono di apprezzare fin nel dettaglio la realizzazione di questi mezzi straordinari, grazie ai quali le distanze tra gli antichi popoli si sono accorciate, consentendo la circolazione di merci, genti, idee, religioni, tecnologie.
A queste tecniche antiche fa da contrasto un video che mostra le moderne tecniche di scavo archeologico per il recupero, il restauro e la musealizzazione di un altro relitto del deposito alluvionale, la Nave I, dopo il quale si accede alle due ampie campate degli arsenali, da cui sono stati eliminati in fase di restauro i muri di tamponamento realizzati in precedenza, per creare un grandissimo e scenografico ambiente espositivo.
Qui troviamo navi da guerra, da carico e traghetti per unire le due sponde. Navi costruite per solcare il mare aperto o a chiglia piatta, per i trasporti fluviali. A vela, a remi, a traino o come la nave D che conserva ancora parte dell’albero originale, costruita per sfruttare la forza del vento e degli animali aggiogati a riva.
La più celebre è un’imbarcazione da diporto mossa da 12 rematori che nelle forme ricorda una nave da guerra. Accanto ad essa è esposta una ricostruzione in scala 1:1 grazie alla quale è possibile intepretare correttamente l’antico legno ed immaginarlo mentre sfida le correnti marine. Nelle vetrine adiacenti sono esposti i reperti che erano a bordo ed è di particolare interesse un’asse che era fissata al primo banco dei rematori con un’iscrizione sinistrorsa in caratteri greci: “ALKEDO”. Si tratta della trascrizione in greco della parola latina alcedo, gabbiano, e potrebbe trattarsi del nome della nave.
Le ultime sale continuano a parlare di navigazione e di commercio.
Una grande parete mostra le anfore attestate a Pisa nel corso dei secoli con un allestimento originale, che unisce ad uno splendido colpo d’occhio generale il rigore dei dati scientifici e delle descrizioni.
Un planetario illustra ai visitatori come gli antichi si orientavano in mare sfruttando le stelle, mentre una serie di reperti svela il complesso sistema di manovre necessarie per governare le vele e consentire di seguire una rotta in base ai venti.
Il Museo delle Navi Antiche di Pisa avrebbe bisogno di essere raccontato ancora, perché i dettagli che compongono l’insieme sono praticamente infiniti, interessanti, portatori di storie ben raccontate. Ma preferisco raccomandarvi la visita, sfruttando le numerose possibilità offerte dal Museo, per vivere un’esperienza più consapevole e completa, magari riservando un po’ di tempo ad un ulteriore giro in libertà tra i relitti, i reperti e l’uomo.
L’uomo. Perché quando si varca il portone in uscita per raggiungere il Lungarno Simonelli è questo che ci rimane: una storia di uomini antichi che guardavano le stelle per navigare sul Mare Nostrum con le vele piene di vento, fidandosi ciecamente della tecnologia del loro tempo.
Il naufragio diventa così il mezzo con cui riusciamo ad entrare in contatto con questi uomini, ma è solo un inciampo, che fa riaffiorare i rumori e gli odori del mare.
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