Estratto da MediterraneoAntico Magazine, Anno 2015, Numero 1

Quando mi è stato proposto di scrivere un articolo sul Vaso François ho accettato con grande entusiasmo non soltanto per l’onore (ed il gravoso onere) di poter raccontare di un esemplare tanto importante dal punto di vista archeologico e storico – culturale, quanto per il semplice fatto che il cratere riporta alla mia mente il sereno ricordo dei primi mesi all’Università e del primo approccio allo studio della ceramica a figure nere. Ricordo il piacere di aver appreso che dietro ad un solo esemplare, tanto imponente, fosse in realtà celato un intero mondo da scoprire che il visitatore del Museo, “non addetto ai lavori”, inconsapevolmente ignora, esattamente come accade per qualsiasi altro reperto. È chiaro che una semplice didascalia, piuttosto che un pannello espositivo, non possano sopperire in alcun modo alla spiegazione di un esperto e nel caso presente questa considerazione ha ancora più senso in quanto ci troviamo di fronte ad uno dei prodotti della ceramografia attica più importanti dell’intera collezione del Museo fiorentino, che incarna (e allo stesso tempo è) il frutto di scambi commerciali e culturali tra Etruria arcaica e mondo greco–orientale. Nel presente articolo, con grandissima umiltà e non senza un briciolo di timore, saranno illustrati gli aspetti mitografici, iconografici, storici e culturali del cratere con il preciso fine di descrivere l’opera a trecentosessanta gradi, nella viva speranza di infondere curiosità nel lettore tanto da renderlo pienamente partecipe di un’opera così grande che cela messaggi programmatici espressivi di una ricca e opulente aristocrazia. Come anticipato, mi avvalgo della possibilità di esprimere un certo timore nel proporre un articolo sul “Cratere di Chiusi”, così ribattezzato da Enrico Paribeni, archeologo e grande esperto di arte classica. Cito testualmente le sue parole: “il Vaso François è considerato uno dei capolavori assoluti della pittura antica. Si tratta di un vaso di proporzioni eccezionali e di una forma senza raffronti: una di quelle forme uniche probabilmente non accettate come si incontrano solo in Attica” e con lui, mi permetto di citare quanto sostiene Mario Torelli, archeologo e fine conoscitore dell’arte antica, docente presso l’Università di Perugia, che afferma quanto segue: “accostarsi ad un oggetto di altissima qualità artistica, come è senza dubbio il Vaso François, è sempre un’operazione che non può non apparire temeraria“. Ogni considerazione che si propone risulta subito banale e in qualche modo riduttiva”; dunque, forte delle interpretazioni di illustri studiosi che si sono prodigati nello studio di questo straordinario reperto, si proporrà una chiave di lettura dell’opera nella sua complessità (foto 1).

Foto 1: Vaso François, lato A. 570 a.C. Museo Archeologico Nazionale di Firenze. (Foto su concessione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana – Firenze)

Il Vaso François è un imponente cratere dalle dimensioni importanti: si calcolano 66 cm di altezza per 57 cm di circonferenza massima. È considerato un caposaldo nello studio della ceramografia a figure nere e delle importazioni attiche in Etruria, un reperto eccezionale in quanto ha gelosamente custodito la firma del ceramografo che lo ha dipinto, consegnando così agli archeologi una preziosissima eredità. Ma si proceda per gradi; per definizione, il cratere è un vaso dalla larga imboccatura, in terracotta o in metallo (argento, oro, bronzo) nel quale in Grecia e a Roma si preparava una miscela di acqua, miele e spezie che veniva utilizzata per diluire il vino che altrimenti avrebbe avuto una gradazione alcolica decisamente troppo alta, limitandone considerevolmente il consumo; la miscela così ottenuta veniva versata nel cratere che solitamente veniva posizionato al centro della stanza adibita al banchetto o al simposio. L’etimologia stessa della parola identifica le radici del nome “cratere” nel verbo greco “kerao” (κεράω, κεράννυμι), letteralmente «mescolare», ad indicare l’azione di miscelare il vino pronto per il consumo e per essere così attinto con le coppe da ciascun commensale. Come accennato, le cerimonie per le quali era previsto l’utilizzo di un cratere erano solitamente il banchetto e il simposio: queste erano occasioni peculiari di un’aristocrazia che riunendosi autocelebrava se stessa, per cui è inevitabile che il cratere nasca con una connotazione spiccatamente aristocratica e non certo come ceramica comune utilizzata in cucina per la mensa e per la dispensa. Inoltre, la preziosità e l’esclusività di un oggetto del genere sono chiare e manifeste non soltanto dalle dimensioni, spesso importanti per cui la materia prima richiesta in grande quantità comportava certamente una maggiore spesa ed un maggior dispendio di tempo per la realizzazione, ma anche dalla perizia con cui tali oggetti erano prodotti: dipinti spesso con scene dionisiache con diretta allusione al consumo del vino come momento di aggregazione, di riconoscimento e di appartenenza ad una cerchia ristretta di persone che trovano coesione e gruppo in stili di vita esclusivi.

Foto 2: Tomba della Caccia e della Pesca, Tarquinia – necropoli di Monterozzi. 530 a.C. (ph P. Bondielli)

Aristotele e Teopompo sono solo due tra le numerose fonti indirette che lasciano preziose informazioni circa l’adozione e le modalità di svolgimento del banchetto e del simposio da parte della società etrusca, e sono sicuramente tra le più significative che meritano di essere citate; Aristotele (384 – 322 a.C.), infatti, non senza nascondere un briciolo di perplessità e di stupore, sofferma l’attenzione sul fatto che in Etruria le donne sposate fossero ammesse a prendere parte a queste occasioni, benché rigorosamente a fianco del proprio coniuge. Rispetto all’Etruria, in Grecia si aveva un panorama del tutto diverso: infatti, le uniche donne ammesse a prendere parte a tali occasioni erano soltanto etére, ossia accompagnatrici, meretrici, donne di dubbia moralità. A tale proposito, Teopompo (378 – 320 a.C.), considerato non senza ragione “omnium maledicentissimus” tra gli scrittori greci, accentua e sottolinea questa netta differenza tra le due culture, esasperando la descrizione della donna etrusca che nelle sue cronache viene ritratta a tinte forti come assidua bevitrice di vino al pari dell’uomo ed incline ad atteggiamenti molto compromettenti. Al di là di queste evidenti maldicenze, indubbiamente scatenate da una sorta di forte ritrosia nel concepire e nell’accettare una figura femminile nettamente emancipata rispetto alla donna greca, non mancano riferimenti dai toni decisamente più “pacati” in Catullo (84 – 54 a.C.) che si limita a descrivere l’uomo umbro “parcus” e l’uomo etrusco “obesus” (Catull., XXXIX, 11: aut parcus Umber aut obesus Etruscus)1, quindi incline ai piaceri della tavola e del bere, con evidente riferimento ai banchetti e ai simposi. È logico che queste fonti debbano essere soppesate ma se accostate alle testimonianze materiali contribuiscono comunque ad accertare il fatto che da parte dell’aristocrazia etrusca fossero state recepite ed adottate le pratiche del banchetto e del simposio, occasioni in cui le donne erano ammesse a prendere parte, in qualità di compagne fedeli e non certo in veste di meretrici. La testimonianza per eccellenza di quanto appena detto è l’affresco conservatosi sul frontone della camera principale della Tomba della Caccia e della Pesca di Tarquinia, in cui viene ritratta una coppia coniugale a banchetto sulla stessa kline; i gesti carichi di affetto e l’abbraccio tenero che unisce l’uomo e la donna lasciano ben pochi dubbi circa l’interpretazione dei due personaggi come coppia coniugale. Dunque, emerge un quadro molto chiaro e significativo della società etrusca, come realtà aperta a recepire la cultura greca, riadattandola secondo le proprie forme (foto 2).

1) G. Camporeale 2004, pp. 177 ss.

Chiusa questa breve ma significativa introduzione, propedeutica a delineare lo sfondo culturale entro cui ci si muove, adesso concentriamo l’attenzione sulla storia del cratere. Il vaso François fu recuperato in frammenti tra il 1844 e il 1845 nei territori facenti parte della tenuta di Dolciano in provincia di Siena, all’interno degli ambienti di una tomba a camera in rovina; deve il nome al suo stesso scopritore, Alessandro François (1796 – 1857), commissario di guerra per conto del Granduca di Toscana, studioso fiorentino, grande erudito ed “archeologo fortunato” che dedicò la sua vita alla ricerca e allo studio dei manufatti antichi. Tra i grandi meriti che si devono al giovane si ricorda lo scavo di una tomba localizzata presso la necropoli di Ponte Rotto a Vulci, in provincia di Viterbo e che, in virtù del grande interesse archeologico ed in onore di una sì spiccata personalità, prese il suo nome: la tomba François. Era l’autunno del 1857 quando al mondo fu riconsegnata una delle più preziose testimonianze di pittura parietale etrusca, tutt’oggi considerata fonte preziosissima per la ricostruzione storica dell’Etruria alle soglie della conquista romana. Datata a poco dopo la metà del IV sec. a.C., in base a confronti pertinenti alla struttura architettonica e agli elementi del corredo funebre, conserva preziosissimi affreschi che decorano le pareti del vestibolo con scene di lotta tra romani ed etruschi e scene di sacrificio di prigionieri troiani, tra cui figurano Macstarna, ossia il corrispettivo etrusco di Servio Tullio, re di Roma, Aiace, Cassandra, Nestore, Fenice, Eteocle e Polinice, Marce Camitlnas che uccide Cneve Tarkunies, romano ed i proprietari della tomba Vel Satiese Tanakvil Verati.2 Ma quel pizzico di fortuna che accompagnò sempre la sua profonda conoscenza del mondo antico e la sua grande intuizione non lo abbandonò nemmeno in occasione della ricognizione e dello scavo dei due tumuli localizzati presso la necropoli di Fonte Rotella; infatti, proprio in quell’occasione, il giovane recuperò il cratere che, in virtù della forma, delle dimensioni, dei registri decorativi e delle nuove convenzioni iconografiche non ancora riscontrate prima del 580 a.C., è considerato un vero e proprio unicum della ceramografia, segnando inevitabilmente un momento fondamentale nella storia delle importazioni attiche in Etruria. Oggi non è soltanto il simbolo della città di Chiusi ma è anche e soprattutto il segno tangibile della grande apertura commerciale e culturale verso il Mediterraneo, la Grecia e l’odierna Turchia occidentale, che ha comportato, come felice conseguenza, l’adozione di mode e stili accolti e rielaborati localmente in Etruria.

2) Bianchi Bandinelli – Torelli 1976, tavola 125.

Dunque, era l’autunno inoltrato del 1844 quando il François inaugurò le indagini archeologiche di due tumuli; le prime operazioni di scavo rivelarono che le due strutture erano state violate e depredate già in antico, per cui parte dei corredi era andata irrimediabilmente persa. I tombaroli che erano riusciti a violare la tomba, spezzarono intenzionalmente il cratere riducendolo in grossi frammenti che furono disseminati tra dodici stanze e due corridoi. Il 3 novembre del 1844 furono recuperati i primi frammenti pertinenti al cratere; questi furono immediatamente a dati alle mani esperte dei restauratori Vincenzo Manni e Giovan Gualberto Franceschi che, in un primo tentativo di ricostruire ipoteticamente la forma del vaso, constatarono la mancanza di circa un terzo dell’intera sagoma. Nella primavera del 1845 il giovane recuperò altri cinque frammenti; fu così possibile integrarli e restituire l’esemplare alla sua originaria maestosità. I restauratori reputarono opportuno colmare le parti lacunose del cratere con uno strato di gesso su cui resero a tempera le campiture pittoriche mancanti; un metodo ben poco ortodosso ma che all’epoca fu considerato all’avanguardia e che permise di poter apprezzare la fisionomia dell’esemplare e le scene raffigurate. Nel luglio del 1845 il cratere fu portato a Firenze e nell’agosto dello stesso anno, fu acquisito dall’Erario toscano dal Granduca Leopoldo II (1824 – 1859) ed un mese più tardi fu esposto presso il “Gabinetto dei Vasi Etruschi” agli Uffizi. L’acquisto del vaso comportò un grande sacrificio per le casse granducali: furono infatti versati 500 zecchini per la permanenza e l’esposizione del cratere all’interno della Galleria, cifra che al tempo avrebbe potuto permettere una permanenza di circa sei mesi in Toscana, pari ad un anno di vitto e alloggio nella città di Firenze. Negli anni seguenti, mentre un contadino stava arando i campi attorno all’area interessata dagli scavi, fu casualmente recuperato un ultimo frammento che fu donato alla nobile famiglia degli Strozzi; nel 1866, il marchese Carlo donò il frammento agli Uffizi e fu deciso di esporlo in vetrina accanto al cratere. Sfortunatamente, il Vaso François subì un danno ingente quando, il 9 settembre del 1900, uno scellerato custode del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, preda di un atto d’ira, scagliò un pesante sgabello in legno nella viva speranza (suo malgrado) di colpire un collega con cui era in accesa discussione. Per sfortuna e per fortuna, “mancò l’obiettivo”, centrando però in pieno il cratere che si ridusse in 368 frammenti (foto 3); il Vaso fu immediatamente restaurato e restituito al suo splendore originario grazie all’intervento esperto e preciso di Piero Zei; il restauratore colse questa occasione per inglobare il frammento donato dagli Strozzi e fino ad allora esposto in vetrina.

La rocambolesca storia del Vaso François però non si esaurisce con questo tanto assurdo quanto incredibile e folle episodio; infatti, poco più di sessanta anni dopo, il 4 novembre del 1966, fu proprio l’Arno a mettere a serio rischio l’intera collezione del Museo Archeologico fiorentino. L’alluvione, causata da giorni di piogge incessanti e la forza dirompente del fango travolsero tutto il primo piano del palazzo; le vetrine furono danneggiate, i vetri si frantumarono, ceramiche e bronzi subirono danni ingenti e l’integrità e la conservazione del Vaso François furono messe in serio pericolo. Firenze fu letteralmente sconvolta dall’esondazione e all’alba di quel tragico 4 novembre si svegliò ferita e letteralmente in ginocchio; fu solo grazie agli “angeli del fango” che nel giro di pochi giorni si riuscì a liberare le strade e le piazze della città dall’ondata distruttiva di terra e di detriti che la furia dell’acqua aveva trascinato con sé e fu proprio grazie alla loro iniziativa che si poté intervenire tempestivamente per salvare dalla devastazione la collezione del Museo Archeologico della città. Perciò, si resero necessari restauri urgenti che interessarono anche il cratere; fu proprio in questa occasione che nel 1972 si decise di operare analisi radiografiche e fotografie a raggi x sul Vaso per valutarne le effettive condizioni e per indagarne la struttura interna mediante l’uso di raggi ultravioletti. Mauro Cristofani, archeologo specializzato in Etruscologia e docente all’Università degli Studi di Siena, di Pisa e di Napoli, diresse le operazioni che misero in evidenza ritocchi ed aggiunte sulla superficie che ad occhio nudo non sarebbero mai state notate; furono così individuate le integrazioni ottocentesche che furono immediatamente rimosse. Dopo questa operazione preliminare, si procedette all’esecuzione ed al completamento del restauro, per cui l’anno successivo il cratere tornò ad essere esposto al Museo Archeologico. L’ultimo intervento si data al 1981 quando la superficie fu pulita dallo strato di gesso dipinto, steso prima del ’73; in questo modo si restituì l’esemplare all’integrità e alla purezza originale.

Attualmente il cratere è in mostra al secondo piano del Museo Archeologico Nazionale di Firenze e recentemente è stato oggetto di studi approfonditi condotti da alcuni tra i più eminenti studiosi di archeologia classica, tra cui H. Alan Shapiro, M. Iozzo, A. Lezzi-Hafter, M. Torelli. In occasione di una tavola rotonda internazionale tenutasi nella splendida cornice di Villa Spelman, sulle colline del Forte Belvedere, a Firenze nel 2003, gli studiosi presentarono i risultati delle loro indagini pertinenti al complesso programma iconografico del Vaso, alla sua storia e alla storia degli scavi, non mancando di formulare ipotesi circa la presenza di altri esemplari affini nello stesso complesso funerario. Il 20 marzo 2014 al Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio sono stati presentati i risultati di questo incontro internazionale; lo sforzo degli studiosi si è concretizzato in due volumi dal titolo: “The François Vase: New Perspectives”. Per l’occasione, il cratere è diventato oggetto di una iniziativa davvero speciale ed unica: è stato infatti prelevato dalla teca che lo protegge ed è stato esposto “en plain air”. Il vaso François, come ripetuto, è un cratere ossia una forma “aperta” in cui si mesceva vino con acqua e a cui si aggiungevano spezie e miele per ottenere una consistenza ed un profumo caratteristici. Dopo aver ottenuto la miscela, il vino, pronto al consumo, veniva attinto con brocche e coppe (kylikes – κύλικες, coppe da vino in ceramica) per consumarlo durante il simposio o durante il banchetto, a seconda dell’occasione. Il cratere veniva posizionato al centro della stanza di modo che tutti i partecipanti potessero agilmente attingere il vino per le libagioni. Dal momento che il banchetto ed il simposio erano cerimonie esclusivamente riservate all’aristocrazia, alla forma vascolare si attribuisce inevitabilmente un carattere nobile, espressione di uno stile di vita ricco e aristocratico, mutuato direttamente dalla Grecia. In letteratura la forma è nota in diverse tipologie che si differenziano per la particolare conformazione delle anse: si parla di cratere a colonnette, cratere a volute, cratere a calice. Nel caso presente, il Vaso François può essere classificato come cratere a volute in virtù della particolare conformazione delle anse che dalla spalla del vaso si chiudono all’altezza del labbro descrivendo una vera e propria voluta. La peculiarità che lo contraddistingue sta nella straordinaria armonia che il ceramista ha saputo donare all’esemplare; infatti, nonostante le dimensioni siano davvero fuori dal comune, queste non hanno minimamente sconvolto la resa finale. Il Vaso che, date le proporzioni, in mani meno esperte di quelle di Ergotimos, il ceramista, avrebbe corso il rischio di apparire massiccio e pesante, si presenta in realtà straordinariamente elegante, armonico, quasi “leggero” nonostante la sua imponente figura.

L’argilla con cui è stato realizzato presenta il caratteristico colore rosso/ arancio, indice di una discreta componente ferrosa nella miscela che contraddistingue le produzioni attiche da quelle corinzie che risultano invece essere più pallide e più chiare, tendenti al camoscio. Lo studio delle componenti mineralogiche e petrografiche permette, oltretutto, di circoscrivere le aree geografiche di reperimento e di lavorazione delle materie prime, quindi, conseguentemente, di identificare provenienze nonché ricostruire le rotte commerciali attraverso cui venivano veicolate le merci.

A tale proposito, specifichiamo che in Etruria nel corso del VI sec. a.C. le importazioni di prodotti attici diventarono via via sempre più copiose in ordine alla sempre più crescente richiesta di beni di lusso da parte dei ceti più abbienti. Il cratere di Chiusi, in quanto ceramica attica a figure nere, rientra perciò pienamente nello scenario storico – culturale appena delineato; si crede che sia stato il vicino centro di Vulci a veicolare i prodotti ridistribuendoli verso le città dell’interno. Solo in questo modo si spiegherebbe infatti il recupero di un oggetto tanto imponente ed ingombrante, perciò difficile da trasportare, quanto prezioso in una città interna che non ha contatti diretti con le coste.

Foto 4: Vaso François, lato B. 570 a.C. Museo Archeologico Nazionale di Firenze. (Foto su concessione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana–Firenze)
Foto 5: Vaso François, lato B e ansa. 570 a.C. Museo Archeologico Nazionale di Firenze. (Foto su concessione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana – Firenze)

I registri decorativi

Prima di descrivere i registri decorativi, vale spendere qualche parola sulle iscrizioni che accompagnano i personaggi raffigurati; sul cratere infatti sono riportati i nomi di ogni singolo soggetto, divinità ed eroi, espediente che rende decisamente più immediata la lettura e l’interpretazione delle scene. Ma non solo i soggetti hanno la propria iscrizione di riferimento, anche il ceramografo ed il ceramista hanno lasciato la propria firma sul cratere, legando così indissolubilmente i propri nomi all’opera: “Ergòtimos m’epòiesen” (epòiesen da pòieo, letteralmente “fare”) e “Kleitìas m’egrafsen” (egrafsen da grafo, letteralmente “scrivere”) sono quelli che possiamo considerare gli autografi più famosi della storia. (foto 3). La prima iscrizione è riportata sulla fascia centrale del vaso, davanti ai cavalli in corteo, la seconda invece sta all’estremità destra della stessa scena. Le stesse iscrizioni sono ripetute sulla parte alta del collo, purtroppo parzialmente conservate. Ergòtimos è dunque il ceramista che ha plasmato (poieo = fare) l’argilla e Kleitìas è l’artefice degli splendidi registri decorativi. Le due firme sono importantissime dal punto di vista storico e archeologico perché hanno consegnato al mondo un’eredità preziosissima; è infatti grazie a queste che oggi conosciamo due personalità di spicco nel panorama della ceramografia attica, al punto che i nomi dei due artefici non si sono persi nei secoli di storia. Le iscrizioni, però, nascondono qualcosa di più; si crede infatti che la posizione scelta per apporre la propria firma non sia casuale ma ben studiata ad indicare strategicamente l’ordine da seguire nella lettura delle scene figurative3. Passiamo dunque alla descrizione dei registri decorativi; per convenzione, iniziamo dall’orlo del cratere, ossia la porzione del labbro (imboccatura) più prossimale, fino al piede, distinguendo lato A e lato B. (foto 1 e 4)

3) Torelli 2007.

Sull’orlo, relativamente al lato A è riportata la scena della caccia al cinghiale calidonio che nella mitologia greca è un cinghiale di straordinaria possanza, in qualità di forte antagonista di molti eroi e divinità; fu infatti creato da Ares per uccidere Adone colpevole di essersi innamorato di Afrodite. (foto 6) La era, che devastava i campi della fertile regione di Calidone, trovò la morte durante una battuta di caccia organizzata dal re Oineo, reo di aver trascurato le offerte votive in onore di Afrodite. Ancora sull’orlo ma sul lato B, viene rappresentata la danza dei giovani ateniesi liberati da Teseo che ha ucciso il Minotauro; in questa porzione si leggono le poche lettere rimaste dell’iscrizione frammentaria con la firma di Ergòtimos e Kleitìas. Passiamo al collo del vaso; sul lato A sono rappresentati i giochi funebri in onore di Patroclo, mentre sul lato B viene raffigurata una scena di lotta tra Lapiti e Centauri.4 (foto 7 e 8) Immediatamente sotto al collo sta il fregio principale, ossia un unico registro decorativo che non presenta un lato A ed un lato B ma consta di una unica scena che avvolge l’intero diametro del cratere. Questo registro è dedicato interamente all’evento più importante di tutta la mitologia greca: le nozze di Peleo e Teti, futuri genitori di Achille. (foto 9) La scelta di rappresentare l’evento sulla superficie di diametro massimo non è stata casuale ma Kleitìas, ancora una volta, ha consapevolmente studiato la posizione più “strategica” per dare volutamente più risalto alla rappresentazione e sottolineare quindi l’importanza dell’avvenimento. Il mito recita che proprio durante la celebrazione del banchetto nuziale sia nata la ben nota disputa tra le dee che condusse al giudizio di Paride, quindi all’amore per Elena e alla guerra di Troia, nonché alla morte di Achille. Il corteo nuziale rappresentato sul cratere è guidato dal centauro Chirone, educatore di molti eroi, tra cui proprio Peleo ed Achille, accompagnato dalla sua sposa Cariclo. Figura anche Dioniso che, straordinariamente rispetto al consueto, viene rappresentato con il volto di prospetto, espediente grafico assai raro per l’età arcaica. Il Dio è seguito dalle Hòrai, le personificazioni delle Stagioni. Si inizia poi con una serie di carri tra cui il primo è quello di Zeus e di Héra, seguono le nove Muse, figlie di Zeus. È presente anche Letò, madre di Apollo, su carro, probabilmente accompagnata dalla personificazione delle Grazie, figlie di Zeus. Compare anche Atena, sul carro di Artemide, il dio Hermés con la madre Màia, accompagnato dalle Mòirai che diventeranno le Parche dei Romani. Una delle Mòirai viene rappresentata con un bellissimo peplo decorato con figure di carri, animali e fiori; in Omero, nell’Iliade, si ha un preciso riferimento ad Elena che lavora un tessuto con scene riprese dalla guerra di Troia. (foto 10) Non essendo pervenuti tessuti dall’antichità, si crede che questa raffigurazione sul Vaso François, resa con tanta dovizia di particolari, possa essere un buon riferimento alla realtà.

4) Nella mitologia greca, i Lapiti erano un popolo originario della Tessaglia. Si credeva che la loro stirpe fosse imparentata con quella dei centauri; Lapite era un abile guerriero e Centauro, invece, era un essere deforme che viveva assieme ai cavalli. Entrambi erano fratelli gemelli, figli di Apollo. La mitologia recita che Centauro si sia accoppiato con alcune giumente e dall’unione sia nata la stirpe dei Centauri, esseri per metà uomini e per metà cavalli. La più famosa leggenda che coinvolge i Lapiti e che è raffigurata sull’orlo del Vaso François è la centauromachia, ossia la lotta tra Centauri ebbri di vino alla festa nuziale di Piritoo e Ippodamia (lett. “colei che doma i cavalli”) e Lapiti che intervennero a difesa delle proprie donne.

Foto 10: Vaso François, registro principale. Raffigurazione delle Nozze di Peleo e Teti. (Foto su concessione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana – Firenze)

Da ultimo, chiude il corteo Oceano, che vive ai confini della terra conosciuta, accompagnato dalle Nerèidi, le sorelle di Teti, e Tritone dio marino con coda a serpente. Sul registro inferiore, sul lato A viene rappresentata la scena dell’agguato di Achille a Troilo.5 (foto 11 e 12) Quest’ultimo episodio è anch’esso legato alla guerra di Troia e non è un caso, infatti, che sia rappresentato nel registro immediatamente sottostante a quello che ospita la scena delle nozze di Peleo e Teti. Troilo, figlio di Priamo, il più giovane della stirpe, era legato a due profezie attorno alle quali ruotava il suo destino e la sorte di Troia: se il ragazzo non avesse raggiunto i 20 anni, la città sarebbe caduta e la guerra si sarebbe finalmente conclusa, Achille sarebbe stato l’eroe da cui Troilo sarebbe stato ucciso. Dunque, Atena consigliò ad Achille di pianificare un agguato al giovane figlio di Priamo e l’eroe, consapevole del fatto che Troilo fosse dedito ad accudire i suoi cavalli, ordì un agguato al giovane presso la fontana di Timbra, un’area appena fuori la città di Troia, dove sorgeva un tempio dedicato ad Apollo.

5) Il nome del giovane sembra essere il risultato di un’elisione tra gli appellativi dei fondatori di Troia: Troo ed Ilio. Questa convenzione potrebbe non essere un caso se si pensa che il destino del figlio di Priamo era segnato dalla figura di Achille, a sua volta indissolubilmente legato alle vicende della città.

Achille però, alla vista del giovane, si innamorò perdutamente al punto che non riuscì a sferrare il colpo finale. Troilo scappò immediatamente per salvarsi la vita e si rifugiò nel vicino tempio di Apollo dove Achille lo raggiunse per dichiarare il proprio amore. Il giovane però rifiutando, scatenò inevitabilmente l’ira dell’eroe che, con un colpo di lancia, lo decapitò. A questo proposito, vale approfondire brevemente l’arrivo e l’adozione del mito di Achille e Troilo in Etruria. Fin dalla metà del VII sec. a.C., con la fondazione delle prime colonie euboiche nel Sud Italia, la cultura greca comincia a permeare le realtà sociali, economiche e culturali indigene, tanto da creare una forte unione (κοινὴ, koinè) linguistica ed etnica che trova manifestazione tangibile di sé nelle architetture e nei beni materiali recuperati e studiati dagli archeologi. Il mondo greco comincia cioè a influenzare fortemente le realtà italiche sotto tutti i punti di vista; non sarà infatti un caso che si cominci a costruire templi in muratura, si utilizzino tegole e coppi per le coperture piuttosto che acroteri dipinti e terrecotte architettoniche a decorazione degli edifici. Mano a mano che si instaura uno scambio reciproco tra cultura locale e mondo greco, si nota un passaggio graduale ma tangibile che nel corso del tempo porta a manifestazioni inequivocabili, come l’adozione di impianti ortogonali perfettamente squadrati in isolati, secondo le teorie di Ippodamo di Mileto, come dimostra il sito etrusco di Marzabotto6. Uno scambio che si concretizza non solo nella cultura materiale ma che influenza inevitabilmente anche il sacro e tutti gli aspetti della ritualità; dal momento in cui si entra in contatto con un mondo nuovo, comincia un vero e proprio processo di acculturazione in senso greco dell’Etruria, come dimostra, ad esempio, il santuario emporico di Gravisca (VI sec. a.C.), nell’area portuale di Tarquinia, dove iscrizioni in lingua greca su ceramiche attestano il culto di Afrodite, Demetra, Hera ed Apollo.

6) Camporeale 2004, pp. 168 ss.

Tra le iscrizioni compaiono menzioni di Afrodite anche in lingua etrusca, Turan, ad indicare che la dea greca è stata pienamente assimilata. Inoltre, all’influenza greca è da attribuire il fenomeno dell’antropomorfizzazione degli dei etruschi. Si viene quindi a stabilire una profonda affinità ed un profondo legame tra le due compagini, tanto che risalgono ancora al VI sec. a.C. monumenti di forte ed indubbia influenza greca che raffigurano scene mitologiche a cui partecipano le divinità. In questo ambito rientra pienamente il Vaso François poiché, in virtù delle scene raffigurate, diventa l’emblema di questo profondo scambio culturale tra le due realtà. Non è un caso dunque che sul cratere sia rappresentata la scena dell’agguato di Achille a Troilo, episodio tanto caro al mondo greco e che diventa in breve tempo uno dei miti più frequentemente attestati in Etruria. Una delle manifestazioni che testimonia l’approdo di questo mito in territorio magno greco è senza dubbio rappresentata dall’Heraion di Paestum, non a caso colonia di confine tra territorio greco ed Etruria meridionale. Il tempio dedicato ad Hera si configura come un santuario federale extraurbano, ossia dedicato a culti stranieri, situato a circa 9 km da Posidonia, che nel 273 a.C. cade in mano romana con il nome di Paestum. Gli scavi del tempio sono stati condotti da una pioniera dell’archeologia della Magna Grecia, Paola Zancani Montuolo che ha riportato alla luce un gruppo consistente di metope facenti parte della decorazione architettonica dell’edificio, in cui compare proprio il mito dell’agguato di Achille e Troilo. (foto 13 e 14) Questa è senza ombra di dubbio una importantissima attestazione del fatto che il mito arriva dalla Grecia, viene riproposto localmente dagli architetti e quindi, inevitabilmente, recepito su scala locale.

A tale proposito, si è tentato di leggere il mito sotto un aspetto etico – politico, ossia si è tentato di leggere sulle metope scolpite un messaggio ideologico, una sorta di propaganda politica e messaggi programmatici, espressione dell’opulente aristocrazia greca. In ambito invece prettamente etrusco, una delle più note rappresentazioni del mito proviene dalla necropoli dei Monterozzi di Tarquinia: la Tomba dei Tori, datata al 540 a.C. e considerata il più antico monumento con soggetto mitologico noto per tutta l’epoca arcaica.7 L’affresco, sulla parete di fondo della prima camera, rappresenta una sorta di “fermo immagine” del momento in cui Troilo sta attingendo l’acqua alla fontana di Timbra ed Achille, armato di lancia, sta per sferrare l’attacco al giovane ancora ignaro del pericolo (foto 15). Ma torniamo alla descrizione dei registri decorativi del Vaso François. Sul lato B, sempre relativamente alla fascia inferiore, viene raffigurato il ritorno di Efesto nell’Olimpo. Questa storia dovette essere raccontata in un poema che non ci è pervenuto ma di cui abbiamo notizie da alcune citazioni di scrittori antichi. Il mito recita quanto segue: Hèra, moglie di Zeus, reputando suo figlio Efesto brutto e fin troppo esile, decise di cacciarlo dall’Olimpo. Il giovane, per vendicarsi dell’oltraggio subìto, finse di perdonare la madre regalandole un trono costruito con le proprie mani. La dea accettò di buon grado ma, una volta sedutasi sul trono, scoprì di non potersi più alzare; soltanto Efesto avrebbe potuto liberarla ma, essendo stato cacciato dall’Olimpo, non gli sarebbe stato in alcun modo possibile.

7) È anche considerata un monumento “chiave” che segna il passaggio dalla tomba con semplice frontone animalistico a tombe con decorazione parietale, pertanto segna un punto di svolta per quanto attiene alle convenzioni iconografiche e ai soggetti scelti.

Foto 15: Tomba dei Tori, Tarquinia – necropoli di Monterozzi. 540 a.C. rappresentazione dell’agguato di Achille a Troilo. (ph P. Bondielli)

Soltanto Dioniso, con il potere del vino, fu capace di convincere il giovane a sposare Afrodite, tornando così sull’Olimpo e potendo finalmente liberare la madre dalla spiacevole trama orditale contro. Il modo in cui Kleitìas raffigura l’episodio è indicativo di quanto il ceramografo abbia osato nella rappresentazione; si nota infatti quanto sia stato irriverente nel raffigurare le divinità, al punto di andare decisamente contro corrente, ossia contro quella buona morale comune che esigeva un tono decisamente più aulico per le rappresentazioni delle divinità. In particolare, Hèra viene rappresentata gesticolante, tradendo un’assoluta impazienza, mentre Afrodite viene sorpresa mentre indietreggia inorridita alla vista di Efesto, suo sposo.

Infine, l’ultimo registro decorativo, sul piede del cratere, mostra una splendida teoria di animali in gruppi di sei ciascuno, con la rappresentazione, al centro, di un motivo tipicamente orientale: le sfingi alate poste specularmente ai lati dell’albero sacro. Immediatamente sulla fascia sottostante a questo registro è poi dipinta una serie di raggi (o denti di lupo) e motivi vegetali, tra cui palmette e fiori di loto, di gusto e di stile squisitamente orientali. Per quanto riguarda la datazione del cratere (Torelli e Bianchi Bandinelli propongono il 570 a.C.), ho reputato opportuno accennare, se pur brevemente, ad altre produzioni attiche a figure nere che presentano caratteri affini e convenzioni iconografiche e stilistiche perfettamente riscontrabili sul Vaso François e che quindi orientano verso lo stesso orizzonte cronologico, descrivendo una nuova temperie stilistica il cui punto di forza si materializza nei dettagli e nella straordinaria leggiadria delle forme. Proprio a questo proposito, nel panorama della ceramografia attica, sono due le personalità innovatrici e di spicco che vengono considerate dirette fonti di ispirazione per Kleitìas, nonché anticipatori di quella predilezione per il decorativismo e per la leggerezza che trova piena espressione nello stile del Vaso François.

Foto 16: Pittore della Gorgone. Dinos a figure nere. 590 – 580 a.C. Museo del Louvre, Parigi.

Mi riferisco, primo tra tutti, al Pittore della Gorgone, ceramografo attivo in Attica attorno al 580 a.C., autore dello splendido dinos a figure nere che prende il suo nome. (foto 16 e 17) Il dinos è una forma vascolare nettamente diversa dal cratere in quanto il fondo è arrotondato, non presenta collo e l’imboccatura è molto ampia; è privo di piede, pertanto necessita di un supporto anch’esso decorato a figure nere con teorie animali e/o vegetali. Il cratere e il dinos venivano entrambi indifferentemente usati per la medesima funzione: nascono come ceramiche adibite alla preparazione del vino da consumare durante simposi e banchetti. La scelta da parte dell’opulente committenza per l’una o per l’altra forma era semplicemente soggettiva e di gusto personale. L’esemplare, oggi conservato al Museo del Louvre di Parigi e frutto della maestria e dell’abilità del ceramografo, è un documento di straordinaria importanza che incarna l’essenzialità di un artista grandioso ed innovatore che, attraverso espedienti grafici, ha aperto la strada ad un nuovo linguaggio decorativo, nettamente più discorsivo e più fluido, composto di figure esili e fregi sovrapposti che si distaccano dalle visioni ben più concrete e vitali concretizzatesi nella ceramografia attica ad immagini più grandi. La datazione del dinos, decorato con Perseo e le Gorgoni, viene fatta risalire al 590 – 580 a.C.

Foto 17: Pittore della Gorgone. Dettaglio della rappresentazione di Perseo e la Gorgone. 590 – 580 a.C. Museo del Louvre, Parigi.
Foto 18: Sophilos. Dinos a figure nere. 580 a.C. British Museum, Londra.

Il secondo grande artista che, al pari del Pittore della Gorgone, merita di essere ricordato come precursore e ispiratore di Kleitìas, è l’ateniese Sophilos che opera in Attica tra 580 e 570 a.C.; non fu un abile disegnatore ma nel corso della sua carriera predilesse la mitologia come tema principale delle sue rappresentazioni. Il dinos, datato al 580 a.C. ed in mostra al British Museum di Londra, è decorato con teorie di animali sulla fascia inferiore e con le nozze di Peleo e Teti su quella principale. La rappresentazione è resa a figure minute e ricche di particolari che sono graffiti con estrema e minuta precisione, tanto da accostarsi perfettamente al linguaggio figurativo del Pittore della Gorgone (foto 18).

Un ultimo confronto che reputo curioso ed interessante da riportare è un exaleiptron, ossia un recipiente per profumi, dal corpo cilindrico, con apertura stretta e coperchio, in mostra al Museo del Louvre; il reperto è interessante in quanto è decorato a figure nere esilissime, dello stesso stile dei pittori sopra accennati ed anch’esso presenta un tema che si ritrova sul Vaso François: la raffigurazione della Potnia Theron (Πότνια Θηρῶν), letteralmente la Signora degli animali.8 Il recipiente è datato al 580 a.C. e può essere considerato anch’esso un degno precursore della grande tradizione ceramografica aperta dal Pittore della Gorgone e da Sophilos e proseguita dal grande Kelìtias. (foto 19)

8) L’appellativo compare per la prima volta in Omero, nel libro XXI dell’Iliade ed indica una divinità femminile in grado di esercitare il proprio potere servendosi della forza degli animali selvaggi.

Foto 19: Exaleiptron a figure nere. 580 a.C. Museo del Louvre, Parigi.
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Gemma Bechini

Gemma Bechini nasce a Pistoia il 30/07/1986. Dopo aver perseguito la maturità classica presso il Liceo Carlo Lorenzini di Pescia, ha conseguito la Laurea Triennale in Storia e Tutela dei Beni Archeologici in data 5/11/2009, presso l’Università degli Studi di Firenze, presentando una tesi in Etruscologia (“Tomba della Caccia e della Pesca di Tarquinia”, 105/110). Ha successivamente conseguito la Laurea Magistrale in Archeologia nello stesso ateneo, in data 15/10/2012, curriculum classico, , presentando una tesi in Etruscologia (“Tipologia delle coppe da Poggio Civitella, Montalcino – Siena”, 109/110). Durante la carriera universitaria ha effettuato tirocinio partecipando a quattro campagne archeologiche: Gavorrano – Castel di Pietra (luglio 2008), Populonia (settembre 2010), Monte Giovi (ottobre 2010), Tarquinia – Tumulo della Regina (agosto 2012). Ha partecipato a titolo di guida museale per conto del F.A.I., in occasione delle Giornate di Primavera (23 e 24 marzo 2013). È iscritta al G.A.R.S. da ottobre 2012 ed ha partecipato come relatrice ai convegni: “Donna in Cammino, un viaggio nella storia attraverso le culture” in data 11/05/2013, presentando un lavoro sulla figura della donna in Etruria e “Pescia ed il suo territorio: novità archeologiche, artistiche e naturalistiche”, concentrandosi sullo studio di evidenze etrusche dal colle di Speri, in data 22/06/2013. Attualmente iscritta al secondo anno in corso presso la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università degli Studi di Firenze, ha preso parte al Corso di Perfezionamento in Conservazione dei Beni Culturali, presso lo stesso ateneo (dipartimento di Architettura), nel periodo marzo – maggio 2013, e al Corso Laser Scanner 3D – Metodologia di lavoro: dall’acquisizione sul campo, all’elaborazione dati”, tenutosi in data 23/09/2013 presso la sede Microgeo S.r.l., Campi Bisenzio. Continua a collaborare con il gruppo G.A.R.S. di Pescia per la riapertura del Museo Civico di Scienze Naturali.

3 Commenti

  1. Molto chiaro e interessante, l’ho utilizzato come punto di partenza per una lezione ai miei studenti della prima liceo europeo del convitto Cicognini di Prato su arte e poemi omerici.

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