Trovare le parole più accattivanti, atte a stuzzicare la curiosità ed accendere l’attenzione dei lettori non è affatto cosa banale; trovarsi difronte ad un foglio bianco, con un tema in mente già strutturato, fa provare una sorta di horror vacui – mi si passi il termine, preso in prestito per deformazione professionale – per cui l’incipit risulta impresa ardua. Come cominciare? Beh, pensa e ripensa, scrivi, cancella e riscrivi […], ho deciso di iniziare questo breve racconto sulla gastronomia dell’antichità con una domanda che stimoli l’interesse e, perché no, le papille gustative, di chi legge! Dunque, mettetevi comodi e prendetevi del tempo per riflettere: avreste mai pensato che già in tempi remoti si stesse sviluppando un forte interesse per la cucina?

Pompei. Domus dei Casti Amanti: cena di banchetto. Credtis: Paolo Bondielli

Ebbene sì, chi studia il passato sa bene quanto la storia si ripeta e sa anche che l’uomo, nel corso dei secoli, non è affatto cambiato nelle sue debolezze. Questo vale anche in gastronomia. I piaceri del palato, il piacere legato al buon cibo e la voglia di sperimentare ricette non sono, infatti, solo attrazioni contemporanee che si concretizzano in un proliferare di programmi tv, riviste, siti web e blog a tema culinario; la passione per la cucina sembra affondare le proprie radici in epoche assai remote.

Presso l’Università di Yale (Connecticut, USA) sono custodite delle vere e proprie ricette scritte con caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla, risalenti al 1700 a.C. circa ed afferenti ad un grande centro mesopotamico: Larsa. Ma per il nostro escursus sul cibo nell’antichità non possiamo abbracciare un arco temporale così ampio, per cui faremo riferimento ad epoche recenti, partendo dall’età di Pericle[1], quando la supremazia di Atene sulla Grecia portò un benessere generalizzato che si reggeva su vaste ricchezze e che si concretizzò in un nuovo stile di vita con inevitabili riflessi anche sulle abitudini alimentari. Ateneo di Naucrati[2] (II sec. d.C.) è esemplare in tal senso: in Dotti a banchetto[3] l’autore tramanda opere di culinaria[4] scritte in Grecia tra il 495 a.C. ed il 429 a.C., proprio a testimonianza di quanto l’interesse per la cucina e per la buona tavola fosse un tema fortemente coinvolgente ed ampiamento diffuso.[5]

Roma

L’attrazione verso la gastronomia ed il buon cibo, occasione di incontro e convivialità, non andò affievolendosi, tutt’altro; anche a Roma, in un clima di dissolutezza scaturito dallo sfaldamento della politica moralizzatrice augustea e dall’adozione di uno stile di vita orientale,[6] l’interesse per la tavola trovò molti appassionati sostenitori che versarono fiumi di inchiostro per appuntare ingredienti, descrivere ricette ed elencarne proprietà ed effetti sulla salute.

Catone (234 – 149 a.C.), ad esempio, dedicò il suo De Agri Coltura alle ricette dei piatti rustici più diffusi tra i suoi contemporanei, con ampie disgressioni sulla sana alimentazione; Varrone Reatino nel suo De Re Rustica si improvvisò gastronauta spifferando segreti su ricette salutari ma pur sempre dai sapori forti e decisi, perfettamente in linea con i gusti dell’epoca.

Affresco proveniente da Ercolano che rappresenta due fichi posti su un davanzale, al di sopra di una forma di pane. Sala degli Affreschi del Museo Archeologico di Napoli. Credits: Paolo Bondielli.

La dieta quotidiana di un antico romano si riduceva a due pasti principali: pranzo e cena. Generalmente si saltava la colazione, limitandola ad un bicchiere d’acqua utile a depurarsi, verosimilmente, dai bagordi della sera precedente. Esistevano comunque eccezioni e abitudini diverse: Marziale, ad esempio, confessa che la sua colazione consisteva in ghiotte fette di pane e formaggio di Luni, colonia rinomata proprio per i prodotti caseari (Plin., Nat. Hist., XI, 241; Mart., XIII, 30).[7] Plinio racconta invece che la sua colazione era composta da uno spuntino frugale e che il pranzo era molto leggero, veloce ma da farsi rigorosamente in piedi. Il pasto principale era la cena che iniziava sul tardo pomeriggio e poteva durare fino all’alba del giorno seguente.

Il cibo non era considerato solo e soltanto una necessità ma creava anche occasioni di convivialità: banchetti[8] e simposi[9] divennero simbolo ed esibizione di prestigio sociale e potevano svolgersi sia nel privato entro le mura della domus, sia avere carattere pubblico.[10] In entrambi i casi, gli appuntamenti seguivano una sorta di programma. Il momento iniziale era la gustatio, il corrispettivo di un aperitivo/antipasto contemporaneo, dedicato all’assaggio di stuzzichini vari; seguiva la cena vera e propria, durante la quale i commensali si servivano attingendo ai piatti di portata; le secundae mensae, che chiudevano l’evento, erano invece dedicate alle libagioni in onore degli dei Lari, le cui immagini venivano portate in sala proprio a questo scopo. In questa ultima fase i commensali, omaggiati con ghirlande di fiori e dolcetti piccanti per stimolare la sete, assistevano a giochi e spettacoli di mimi, acrobati e cantanti.

Plinio il Giovane rende noto che gli intrattenimenti potevano essere di due tipi: onesti e morigerati a base di conversazioni dotte, buone letture e musica, oppure disonesti con manifestazioni bieche, chiassose e di dubbio gusto. Marziale, ad esempio, ricorda l’esibizione di nanerottoli che animavano spettacoli grotteschi e tragicomici! Il bottegaio arricchito Trimalchione, abilmente descritto da Petronio,[11] celebra il suo personale trionfo economico e sociale esibendo lusso e ricchezza con vassoi strabordanti di cibo e fiumi di vino speziato che, insieme a musiche orgiastiche e volgarità condite con chiacchiere becere, spingevano i commensali a lasciarsi andare senza pudore. Il banchetto descritto da Petronio non era una fantasia ma una solida realtà: fu infatti quello il punto di rottura sociale voluto da un’aristocrazia che manifestatamente abbandonava la dignitas, cioè gli insegnamenti, i principi, le virtù ed il rigore dei mores maiorum, ossatura della grande Roma in ascesa, per ostentare la propria ricchezza agli occhi dei ceti più poveri.

Affresco proveniente da Pompei, Praedia di Julia Felis. Custodito presso il Museo Archeologico di Napoli. Credits: Paolo Bondielli.

Apicio

Se dunque vogliamo ricostruire le abitudini dei romani a tavola in età imperiale, una delle fonti più attendibili nonché una delle più curiose e divertenti da leggere è senz’altro Apicio, personaggio alquanto sui generis considerato, ai tempi, il più grande gastronomo dell’antichità.

Marcus Gavius Apicius nacque intorno al 25 a.C., al tempo di Tiberio (14 – 37 d.C.). Erede di una ricca famiglia, godette dei suoi beni, sperperando le sue fortune e vivendo una vita improntata sui falsi ideali di sfarzo e dissolutezza ed interamente dedicata ai piaceri della tavola; la sua occupazione principale fu, infatti, la descrizione minuziosa delle ricette dei suoi contemporanei, nonché la sperimentazione e la rivisitazione delle stesse.

L’opera a lui attribuita, il De re coquinaria, è un vero e proprio ricettario che, con trasparenza e precisione, mette nero su bianco i gusti alimentari alquanto particolari dell’Impero. Leggere le ricette equivale a sedersi a tavola in compagnia di un antico romano, curiosare nella sua cucina e sbirciare nella sua dispensa; significa, sostanzialmente, fare un salto indietro nel tempo tra profumi, aromi, gusti, sapori, consistenze e miscele. Leggere il ricettario porta anche a riflessioni di vario genere, non solo legate alla critica dei sapori del tempo, un po’ bizzarri e strambi; di primo acchito, infatti, è immediato constatare quanto, nel corso dei secoli, siano mutati gusti e approccio alla cucina ma, se leggiamo con più attenzione, è impossibile non notare che una serie di ricette si riflettono in piatti attuali di tradizione regionale.

Oggi, una ricetta di successo è il risultato di pochi ingredienti cucinati in un armonioso equilibrio di sapori, profumi e consistenze. A Roma, invece, la cucina era ben altro: era una sorta di indovinello in cui, quanto più un cuoco riusciva a nascondere la lista di ingredienti utilizzati, tanto più conquistava i palati dei commensali. La missione, dunque, di ogni esperto di arte culinaria, un po’ mago un po’ artista, nella caotica e confusionaria Roma era sorprendere attraverso un’opulenza di sapori e profumi sorprendenti; si trattava, dunque, di una cucina molto particolare, in cui il cuoco si trasformava in una sorta di erborista prestigiatore ed il cui compito principale era destare meraviglia.

Questo stile ludico impressionò tanto la società del tempo da diventare non una moda passeggera ma una pratica quotidiana ben consolidata che finì per gettare le basi di una cucina casereccia in parte riflessa in ricette attuali, delle quali il ricettario evoca simpatiche suggestioni.

Uno dei fregi del sepolcro del fornaio Marco Virgilio Eurisace, ancora oggi visibile presso Porta Maggiore a Roma. Credits: www.esploraromablog.com

Ingredienti

Cereali, legumi, carne suina e pesce erano gli ingredienti base della cucina dell’antica Roma; a questi si aggiungevano i condimenta, ossia spezie ed erbette[12] che, miscelate tra loro e poi aggiunte in dosi diverse a seconda delle necessità, insaporivano le pietanze in cottura. Diviene subito chiaro che, ad eccezione di pochi ingredienti importati nei secoli a venire, la dispensa di Apicio non fosse molto diversa da quella dei nostri tempi, perciò non resta che fare una sorta di lista della spesa dell’antichità per curiosare, poi, in ricette datate ad oltre duemila anni fa!

I fondamentali: cereali e legumi, carne e pesce.

  • Cereali e legumi

Plinio (Nat. Hist., XVIII, 87)[13] racconta che il grano tenero (siligo) veniva coltivato e lavorato per ottenere farina bianca con cui si preparavano pani, focacce e piadine: il prodotto più classico e diffuso era il siligineus equivalente del nostro pane bianco prodotto con grano tenero; il cibarius ed il secundarius erano invece pani preparati con una base di farina integrale; il parhicus era un pane spugnoso che potrebbe vagamente ricordare tradizioni del Nord Europa; il bucellatus era un pane dolce, a base di una sorta di pasta biscottata che evoca il Buccellato, dolce tipico di Lucca; lo strepticius era una sfoglia a base di farina, latte, olio e pepe cotta su piastra rovente che ricorda molto una piadina romagnola.[14]

A differenza del grano tenero, il frumento veniva tostato e poi macinato diventando, così, ingrediente base per semplici polentine e pappette calde; per le medesime finalità si utilizzavano anche orzo, miglio e farro. Il piatto più tipico e diffuso già in Etruria (Juv., XI, 108)[15] pare che fosse proprio la minestra di farro, ovvero una zuppa molto grezza, con i chicchi di farro non macinati.

  • Legumi

Lenticchie, ceci e fave erano tra i legumi più utilizzati ma si cucinavano anche piselli e fagioli che spesso, già in Etruria e poi a Roma, venivano miscelati ai cereali per farne zuppe calde e molto nutrienti.

  • Carne e pesce

Gli antichi romani erano ghiotti di carne suina e, come oggi, del maiale non si buttava via proprio niente! Si cucinavano scaloppine e braciole; si mangiava la lombata, il fegato, i polmoni, il rognone, il musetto, gli zampetti, si utilizzavano le cotenne; si macinava per produrre vari tipi di insaccati, tra cui salsicce,[16] prosciutto e pancetta. Il sangue veniva utilizzato per farne salsicce: in questo caso è davvero impossibile non pensare al ghiottissimo sanguinaccio e al mallegato noto anche come biroldo,[17] prodotti tipici della tradizione toscana. Il lardo del maiale veniva fuso per farne sugna utile alla conservazione degli alimenti ma anche per preparare salumi se miscelato con le carni, oppure per la preparazione di schiacciatine se mescolato con la farina.

Come accennato, le carni venivano macinate per produrre insaccati, farcire arrosti oppure per farne polpette: apprezzate e diffuse erano le lucaniche, salsicce speziate che non possono non richiamare alla mente la nostra luganiga.[18] Apicio tramanda anche la ricetta per le polpette nell’omento: il nome di questa preparazione deriva da omentum che indica la reticella di grasso che avvolge lo stomaco delle bestie. Le polpette nell’omento ricordano i fegatelli di maiale e manzo che consumiamo tutt’oggi.

Più raramente si mangiava la carne di manzo, vitello e vitellone non per una semplice questione di gusti ma in quanto animali indispensabili nel lavoro dei campi; diversamente, si cucinavano assai più spesso agnelli e capretti. Molto richiesta era anche la carne di asino selvatico; tutt’oggi lo spezzatino, lo stufato e lo stracotto di asino sono tra i piatti tipici della tradizione veneta.

La cacciagione era una vera e propria leccornia che, certamente, non tutti potevano permettersi: cinghiali,[19] cervi, lepri e caprioli erano le specie più richieste ma si mangiavano anche ghiri di allevamento![20]

Tra i volatili si mangiavano polli, galline, capponi ma anche oche, tordi, anatre, pernici, tortore e perfino colombi, colombacci, cicogne, fenicotteri, pavoni, gru e pappagalli! Si cucinavano anche le uova che venivano sia servite fritte con garum sia mangiate sode.

Infine, si gustavano anche le lumache che, come oggi, venivano tenute a spurgare per qualche giorno e poi venivano fritte in olio caldo, oppure arrostite e condite con garum.

  • Pesce

In Etruria e a Roma si mangiava pesce di ogni tipo, sia di allevamento[21] sia di pescato fresco: aragoste, calamari, seppie, polipi, ostriche, cozze, vongole, ricci, sarde, tonnetti, datteri di mare, tonni, triglie, muggini, murene, dentici, orate, anguille, sogliole, gamberoni… Si cucinava anche il pesce salato, cioè essiccato/affumicato, che richiama la tradizione del baccalà e dello stoccafisso. Si cucinavano anche le alghe, utilizzate tutt’oggi in molte ricette, così come molluschi ed ostriche con cui si preparavano prevalentemente insolite polpettine.

Dettaglio di un mosaico proveniente da Pompei, custodito presso il Museo Archeologico di Napoli. Credits: Paolo Bondielli.

Altri

  • Latte e derivati

Il latte bovino, ovino e caprino da allevamenti di Etruria meridionale veniva lavorato per farne formaggi: molto rinomati erano i formaggi di Luni[22] (Plin., Nat. Hist., XI, 241; Mart., XIII, 30).[23]

  • Frutta e Verdura

Ortaggi e frutta fresca di stagione non mancavano mai in preparazioni sia salate sia dolci: porri, bietole, ortiche, cicorie, rape, asparagi, fave fresche in baccello, bulbi, finocchi, cavoletti, cime e getti di cavolo, cardi, carote o pastinache, lattuga, broccoli, radici di laser (finocchio), sedano (lingustico), mele, mele cotogne, fichi, prugne, poponi e meloni, castagne, ciliegie, pere, more, uva nera e uva bianca, limoni, cedri, olive sono solo alcuni esempi.

La frutta secca, prevalentemente noci, pinoli, mandorle, nocciole, prugne, datteri, uva passa e melograno, era un prodotto molto richiesto non solo da gustare in purezza ma anche per arricchire ed insaporire preparazioni sia salate sia dolci.

  • Olio e vino

L’olio di oliva veniva utilizzato per l’alimentazione e per la realizzazione di cosmetici e profumi; importato dalla Grecia a partire dall’ VIII a.C., iniziò ad essere prodotto anche in Etruria dal secolo successivo, così come il vino[24] che non veniva consumato schietto ma vi si aggiungevano miele e spezie per abbassarne di molto la gradazione alcolica.

Olio e vino sono entrati a far parte della cultura e delle tradizioni gastronomiche della nostra Penisola al punto che, oggigiorno, oliveti e vigneti plasmano la fisionomia delle campagne di regioni come la Toscana, il Veneto, l’Umbria e la Puglia dove, oltretutto, rivestono valori paesaggistici riconosciuti e tutelati.

Condimenta

I condimenta erano miscele utilizzate per manipolare i cibi crudi ed insaporire le carni in cottura; erano preparate con una base di sale, prezioso agente di conservazione,[25] con l’aggiunta di erbette aromatiche sminuzzate e spezie in polvere.

Un sostitutivo del sale era il garum, una salsa a base di pesce putrefatto usata sia in cottura sia per condire frittatine, minestre, funghi e uova; era dunque considerato un ingrediente insostituibile ed immancabile che poteva essere anche addolcito con il miele, inasprito con qualche goccia d’aceto, oppure aromatizzato con erbette fini.

Contenitore per il Garum. Credits: autore sconosciuto.

La preparazione del garum era molto laboriosa: si utilizzavano acciughe, sardine ed aringhe rigorosamente non eviscerate, sgombri e ricciole con interiora, teste e condimenta. Il composto doveva rimanere a fermentare per giorni entro vasche di raccolta che venivano spostate da ambienti caldi a sale più fredde in modo tale che lo sbalzo termico accelerasse il processo di deterioramento. Quando la fermentazione era arrivata a buon punto, nelle vasche si tuffavano cestelli in modo che questi, premendo sul contenuto, facessero separare il sugo, il garum, dalla feccia di avanzo che veniva usata poi per l’alimentazione degli schiavi.

In termini di ingredienti utilizzati e procedimento seguito, sostanzialmente, si può dire che il garum possa essere considerato un antesignano della colatura di alici di Cetara.

Ricette

Dopo aver curiosato in dispensa, è finalmente giunto il momento di leggere il ricettario che non solo consentirà di immaginare un cuoco dell’antica Roma a lavoro tra pentole, graticole, forni, profumi e vapori, ma permetterà anche di scorgere ricette di piatti tradizionali attuali; certa della sorpresa che questa sorta di viaggio gastronomico desterà, non mi resta che augurare ai lettori buon divertimento!

Antipasti

Piatti a base di verdure di stagione venivano serviti come fossero una sorta di antipasto;[26] sembra che alcune di queste pietanze avessero anche funzioni specifiche atte a migliorare o curare la digestione come, ad esempio, la zuppa per il ventre[27] e la zuppa di bietole tramandata da Varrone.[28]

Si preparavano anche vere e proprie ghiottonerie che ben poco avevano a che fare con la sana alimentazione: bulbi fritti,[29] cardi fritti, carote fritte e zucche fritte[30] ma anche piatti più elaborati, come l’apotermo[31]ed il minutal di mare[32] che evocano il couscous e la paella.

Piatti unici. Torte salate e farinate.

Le torte salate che appunta Apicio ricordano frittatine a base di uova, molto aromatiche, ricche ed energetiche. Gli ingredienti utilizzati variavano a seconda dei gusti e della stagionalità: da ortaggi a legumi, da carne suina e selvaggina a pesce fresco e/o sotto sale, il tutto arricchito con pizzichi generosi di condimenta. La torta di acciughe, la torta di acciughe fritte, la torta di asparagi, di formaggio con pesce salato o con senape fresca e la torta di zucca sono solo alcuni esempi che rientrano in questa categoria. Diversamente, la torta di pesce sotto sale, preparata con filetti di pesce fritti, serviti poi con idromiele evoca la ricetta delle sarde in saor.

Sul ricettario, Apicio appunta ricette per preparare farinate: sostanzialmente intende una sorta di polentine a base di farina di semola[33] a cui si aggiungevano ingredienti sia salati sia dolci. La ricetta base consisteva in semola cotta in acqua con un goccio di olio da servire con cervella e condimenta; la polenta con salsa era semola cotta sul fuoco che faceva da accompagnamento alle scaloppine di maiale arricchite con una riduzione di salsa al vino; la crema di orzo era affine alla ricetta precedente, ovvero una polenta da servire con il prosciutto arrosto; diversamente,  la polenta con pasta e latte era una versione dolce a base di semola cotta nel latte vaccino a cui si aggiungeva il miele. Le farinate possono dunque essere considerate il corrispettivo della nostra polenta di farina di mais servita con ragù, stufati di manzo o di selvaggina, oppure utilizzata per farne biscotti e torte.

Un gatto lotta con un pollo, nel registro inferiore anatre, pesci e conchiglie. Museo Archeologico di Napoli proveniente dalla Casa del Fauno di Pompei. Credits: Paolo Bondielli.

Secondi. Grigliate, arrosti, umidi e bolliti

La carne

Come accennato, la carne di vitellone e di manzo non rientrava nella dieta quotidiana ma veniva consumata più raramente; sul ricettario si trova comunque trascritto il procedimento per la per la grigliata di vitello[34] e per la grigliata di carne di manzo servita, quest’ultima, con porri, cipolle, garum ed olio.[35]

La carne suina, consumata pressoché quotidianamente e macinata per farne insaccati, farce e polpettine, veniva anche tagliata in semplici braciole e scaloppine[36] che venivano fritte oppure arrostite in forno.[37] Lo stesso si faceva con la carne del maialino da latte che si serviva pure arrosto con pasta e miele,[38] in salsa di vino[39] o all’ortolana,[40] alla maniera di Frontino,[41] alla maniera di Celsino[42] e alla maniera di Traiano;[43] molto curioso è il fatto che il maialino venisse anche svuotato, farcito[44] e cotto in forno, a ricordare proprio una sorta di porchetta. Infine, tra gli insaccati si cucinavano e si servivano le lucaniche[45]e  le salsicce[46] condite con senape e contorno di farinata, ma anche prosciutto cotto con fichi,[47] spalla di maiale e coppa arrosto.[48]

La cacciagione e la selvaggina si cucinava per farne pietanze in umido come, ad esempio, la lepre[49] che veniva anche cotta nel suo sugo,[50] oppure arrosti come la lepre farcita,[51] l’anatra,[52] il cinghiale, il capriolo e il cervo serviti con salse fredde a base di garum, acqua e condimenta amalgamati con amido. Anche le carni di capretto o agnello[53] venivano arrostite ma si gustavano anche sotto forma di scaloppine cotte sul fuoco e servite con fagioli al garum e bocconcini di pane.

Si preparavano anche bolliti per i quali si utilizzava un recipiente specifico chiamato pentola di Cuma in cui si versavano acqua, condimenta e svariate carni: dal classico cappone e pollo,[54] al vitello, capretto, agnello e perfino cinghiale, capriolo, lepre e cervo. In alcuni casi, i bolliti venivano ripassati in forno, come specificato, ad esempio, sulla ricetta per il pollo numidico.[55] Infine, molto curioso è il fatto che Apicio dedichi ampio spazio a tutta una serie di salse di accompagnamento per le carni lessate,[56] per cui è impossibile non pensare alla cucina tradizionale emiliana in cui i bolliti misti serviti con salse varie e mostarde di frutta sono alla base della cultura gastronomica locale.

Il pesce

Il pesce di mare, di fiume e di lago, fresco, essiccato o affumicato, era un prodotto molto apprezzato[57] e preparato in svariati modi, sia per farne arrosti o piatti in umido ma anche per farne polpette e farce.

Polpette di pesce,[58] polpette di calamari e gamberoni,[59] aragosta arrosto,[60] aragosta lessa con salsa al cumino,[61] polpette di coda di aragosta,[62] calamari in tegame e calamari farciti,[63] seppie farcite,[64] piselli con seppioline,[65] ostriche in salsa,[66] cozze, vongole e telline in padella,[67] ricci di mare bolliti,[68] sarde farcite[69] sono solo alcuni esempi curiosi. Apicio trascrive anche una serie di salse a base di condimenta, garum, senape, olio, vin cotto, miele ed aceto per accompagnare il pesce fritto e tutta una serie di pesci arrosto e/o lesso: persico, murena, dentice, tonno, orata, anguilla, triglia, palamita e fragolino.

La cosiddetta Cassata di Oplontis. Credits: Paolo Bondielli.

Dolci

Le pietanze da gustare a fine pasto non erano smaccatamente dolci ed erano preparate prevalentemente con una base di latte, uova e miele con cui si realizzava, per esempio, un semplice flan;[70] se si aggiungeva mollica sminuzzata, allora si sfornavano torte di pane bianco[71] ma anche dolci pepati[72] e polentine con farina bianca che, in quanto a procedimento[73] e risultato finale, evocano la ricetta degli strufoli napoletani e della cicerchiata umbra.

Oltre a uova, latte, miele e mollica, si utilizzavano anche altri ingredienti per arricchire ricette dolci: la frutta secca, tra cui i datteri che erano molto apprezzati anche fritti e farciti,[74] oppure il vin cotto come nel caso dei panini al mosto.[75] Il vin cotto, utilizzato come sostitutivo del miele, è il corrispettivo del mosto d’uva, di fichi e di mele cotogne che si continua ad utilizzare tutt’oggi in Emilia per la preparazione di una mostarda che accompagna bolliti, polenta e tortelli di zucca.

Bibliografia di riferimento

Camporeale 2004 – G. Camporeale (a cura di). Gli Etruschi. Storia e Civiltà.

Carazzali 2017 – G. Carazzali (a cura di), Introduzione, L’arte culinaria. Manuale di gastronomia classica, Milano 2017.

NOTE:

[1] Carazzali 2017 (a cura di), pp. X – XLVI.

[2] Di Ateneo si hanno ben poche notizie; di origini egizie, visse al tempo di Commodo (II sec.d.C.) e, molto probabilmente, fu assiduo frequentatore della Biblioteca di Alessandria.

[3] Trattato suddiviso in 15 libri di cui è conservata, purtroppo, solo una epitome. Sul trattato, Ateneo immagina di raccontare ad un amico lo svolgersi di un banchetto a cui stanno partecipando uomini colti che si intrattengono in un dialogo su vari argomenti, dal cibo alla medicina, alla salute, alla dieta.

[4] Pesci di Dorione, Arte della panificazione di Crisippo di Tiana, I dolci di Iatrocle, I legumi e le conserve del medico Eutidimo e L’alimentazione delle persone sane di Acrone di Agrigento.

[5] Carazzali 2017 (a cura di), pp. X – XLVI. Il Monte Olimpo, già molto affollato, si popolò di una nuova dea, Adefagia, in veste di protettrice dei cuochi e dei buongustai. Anche in mitografia si iniziò a narrare scene a tema culinario: si ricordi, ad esempio, Medea che, in un grande calderone, cosse a puntino il gigante Pelia per farne, forse, un bel bollito!

[6] Nel periodo del principato si assiste allo sfaldamento dei principi etici, ossatura della società romana di epoca repubblicana, e si adotta un lifestyle meno morigerato, decisamente più lascivio, teso a godere dei piaceri della vita, perno attorno al quale ruota la quotidianità di aristocratici e benestanti. Entro questa cornice, i peccati di gola diventano un ottimo mezzo attraverso cui ostentare la propria ricchezza ed il benessere sociale raggiunto. Catone, dal canto suo, addita i greci come i soli responsabili di questa degenerazione, poiché inventori del simposio, occasione in cui, tra musiche orgiastiche ed in compagnia di etere, si beveva vino senza misura. La sua aspra critica rimane però inascoltata tra i contemporanei.

[7] Camporeale 2004, pp. 177 ss.

[8] Durante i banchetti le portate erano servite nei triclinia, locali interamente adibiti a sala da pranzo, ammobiliati con letti ricolmi di cuscini su cui sdraiarsi. I cibi erano accomodati su di un supporto apparecchiato posto al centro della sala, nello spazio che si creava tra i letti; la posizione dei commensali, semisdraiati sul fianco sinistro con il braccio destro libero, facilitava dunque il servirsi a tavola. Quando necessario, l’invitato teneva nella mano una patina con cucchiaio per brodi, zuppe o polentine; il cibo solido, invece, si mangiava con le mani poiché non c’erano né forchette né coltelli.

[9] Cerimonie dedicate esclusivamente al consumo del vino.

[10] Carazzali 2017; già alla fine della Repubblica il banchetto pubblico era considerato un strumento politico, utile per fini propagandistici e per far accrescere la popolarità di personaggi di partito.

[11]Il Satyricon, opera scritta intorno alla metà del I sec. a.C., è la rappresentazione tragicomica, a tinte romanzesche, della società contemporanea di Petronio Arbitro, autore nonché stretto collaboratore di Nerone.

[12] Carazzali 2017; sale, pepe nero, garum, origano, zafferano, prezzemolo, sedano, aglio, scalogno, cipolla, nepitella, salvia, cumino, prezzemolo, zenzero, origano, menta, alloro, foglie di limone, semi di sambuco, petali di rosa e di viole, coriandolo, foglie di nardo, bacche di mirto, semi di garofano, cardamomo, semi di papavero, semi e bacca di ruta, semi di finocchio, semi di ruchetta, semi di coriandolo, aneto, sesamo. In dispensa, tra i condimenta, c’era posto anche per prodotti disidratati: radici di laser, foglioline di menta, origano, zenzero, cipolla essiccata, coriandolo, foglie di cedro, maggiorana, silfio, cardamomo. Tra le spezie, la più usata era il pepe nero in grani che, importato a Roma dopo il 100 a.C., era considerato un prodotto medicamentoso, prescritto dai medici come calmante ed antidoto. Il pepe veniva utilizzato in purezza ma anche mischiato al miele per ottenere una salsa dalle note dolci/piccanti che potrebbe evocare, ad esempio, il gusto del panpepato senese.

[13] Carazzali 2017.

[14] Carazzali 2017; tutti questi prodotti, comprese le focacce, venivano cotti in forno oppure su una tegola ricoperta dalla brace rovente.

[15] Camporeale 2004, pp. 177 ss.

[16] Insaccati a base di carne di suino macinata

[17] Il biroldo è il nome con cui in Garfagnana è conosciuto il mallegato, un insaccato a base di testine, cotenne e sangue di suino; viene tagliato al coltello, a fette spesse, e mangiato freddo oppure fritto, accompagnato con una polentina di farina di castagne.

[18] Insaccato fresco di carne suina, prodotto tipico e diffuso tra Lombardia, Veneto e Trentino, assimilabile per tipologia alle salsicce.

[19] Apicio tramanda alcune ricette a base di cinghiale che, generalmente, veniva cotto arrosto con condimenta oppure lessato in acqua di mare con rametti di lauro e servito con olio, senape e aceto oppure con salse elaborate a base di pepe, frutta secca e garum.

[20] Apicio tramanda la ricetta per cucinare i ghiri che venivano farciti con un battuto di carne di maiale, pepe, garum e frutta secca e poi cotti in forno. Il glirarium era il contenitore in terracotta adibito all’allevamento di questi roditori; è possibile vedere alcuni esemplari di questa insolita e particolare tipologia al MAEC di Cortona e al Museo Archeologico Nazionale di Chiusi.

[21] Sulla pescosità dei laghi d’Etruria e sul ripopolamento con pesci d’acqua dolce, Camporeale 2004, pp. 177 ss.

[22] Colonia romana fondata nel 177 a.C.

[23] Camporeale 2004, pp. 177 ss.

[24] Camporeale 2004, pp. 177 ss.

[25] Si conoscevano anche altre tecniche per la conservazione dei cibi: affumicatura, salamoia e conservazione sotto uno strato di miele. La salamoia veniva usata anche per la conservazione del pesce; la parte liquida veniva poi utilizzata come salsa piccante.

[26] Si fa riferimento, ad esempio, al cd piatto d’entrata di zucche, a base di zucche cotte condite con garum e moto cotto, oppure anche alle cd zucche alla moda di Alessandria ovvero zucche lesse insaporite con cumino, pepe, coriandolo in semini, menta fresca, laser e aceto. Apicio appunta anche il cd. antipasto di verdure che consisteva in bulbi cotti con fegato di maiale e gallina ed altre frattaglie, il tutto insaporito con condimenta e menziona anche il cd antipasto di zucche farcite ripiene di cervella e poi fritte.

[27] Apicio annota diverse varianti per questa zuppa: con bietole e porri lessi e condimenta, oppure con bietole lesse e gherigli di noce, con vino passito, mosto cotto, cumino, pepe e olio.

[28] Si tratta di cavolo nero lessato nel vino con miele e olio a cui si può aggiungere carne di pollo.

[29] Una sorta di patatine fritte dell’antichità.

[30] Apicio tramanda anche la ricetta di una zuppa a base di zucche fritte ripiene di cervella sminuzzate, condite con pepe, origano, cumino, cipolla, vino, garum e olio.

[31] Si tratta di una sorta di insalata di farro arricchita con mandorle, pinoli, uva e pepe nero macinato: impossibile non pensare al couscous servito in versione dolce con frutta secca, spezie e miele, tutt’oggi molto apprezzato e diffuso.

[32] Il minutal è un piatto a base di polpettine di pesce con carni miste e semola che ricorda la paella.

[33] Ai tempi di Apicio il mais ancora non si conosceva; venne infatti importato dalle Americhe, più precisamente da Cuba, dopo il 1492.

[34] Carne di vitello grigliata con pepe, semi di sedano, cumino, origano, cipolla, miele, aceto, garum, olio e mosto cotto.

[35] Seguono poi due ricette per salse di accompagnamento, preparate con condimenta, garum ed olio a cui si aggiunge amido per far rapprendere il composto aromatico.

[36] Le braciole alla mode di Ostia erano cotte in forno dopo una marinatura di due giorni in garum e condimenta; le braciole alla moda di Apicio consistevano in una cottura su spiedino, in forno con condimenta, ed erano servite con una salsa a base di garum e passito; le braciole alla maniera del cinghiale erano invece scaloppine cotte sul fuoco con garum e amido, in modo tale che si creasse una cremina di accompagnamento; le braciole venivano anche semplicemente fritte oppure arrostite.

[37] In genere cosparsa di miele e/o con condimenta.

[38] Si trattava di una sorta di polentina di semola cotta sul fuoco con il miele e foglie di lauro.

[39] In questo caso, la carne veniva rosolata in pentola con porri, garum e condimenta. I succhi di cottura venivano poi fatti amalgamare con amido in modo che diventassero salsa di accompagnamento.

[40] Farcito con carne di pollo macinata in polpettine, tordi, beccafichi, lucaniche, lumache, bietole, porri, sedano, broccoli lessi, grani di pepe, coriandolo.

[41] Il maialino veniva cotto con porri, aneto e mosto cotto.

[42] Acconciato e riempito sotto pelle con pepe, cipolla, santoreggia, uova presumibilmente al forno.

[43] Il maialino veniva disossato, cotto in una salsa al vino poi affumicato e servito come fosse stato un insaccato.

[44] La carne di maialino veniva arricchita con una farcia a base di uova, con cervella, uccellini, semola e condimenta.

[45] Le lucaniche erano preparate con una base di carne macinata (matrici) e lardo con aggiunta di condimenta, tra cui pepe, cumino, santoreggia, ruta, prezzemolo, bacche di alloro ed un goccio di garum; con l’impasto ottenuto si farciva un budello lungo e sottile che veniva appeso per l’affumicatura di modo che poi fosse poi pronto per essere cucinato.

[46] Le salsicce classiche erano preparate con una base di carni di suino macinate, comprese cervella e frattaglie, con aggiunta di semola o semolino cotto, garum e condimenta con cui si farciva un budello.

[47] Il prosciutto veniva lessato con i fichi secchi e foglie di alloro, poi avvolto in una sfoglia di pasta fatta di farina e acqua ed arrostito.

[48] La spalla di maiale veniva lessata con i fichi secchi, poi passata in forno con miele e servita con panini al mosto.

[49] La lepre veniva cotta in forno con un po’ di olio; a metà cottura veniva arricchita con un guazzetto a base di pepe, cipolla, garum, semi di sedano e di finocchio (laser) e vino.

[50] La lepre veniva cotta in una pentola con olio, garum, condimenta, miele, mosto cotto e aceto; si faceva bollire, poi si aggiungeva l’amido in modo che i succhi di cottura legassero formando una salsa densa.

[51] La lepre veniva farcita con condimenta, frattaglie, carne macinata, garum, uova; la carne, così arricchita, veniva poi arrostita e servita con una salsa a base di garum, vino, amido e condimenta.

[52] Le anatre arrosto, cotte in forno, venivano accompagnate con una salsa preparata con condimenta bolliti con amido: alla salsa che si otteneva si potevano aggiungere zampetti di maiale e fegatelli di pollo.

[53] Le scaloppine erano accompagnate con fagioli e bocconcini di pane.

[54] Pollo con laser, ovvero pollo lessato nella pentola di Cuma in cui si versava, oltre all’acqua, anche vino, garum ed olio, con condimenta; Pollo allessato nel suo brodo servito freddo con una salsa a base di condimenta, tra cui timo, semi di finocchio, garum, aceto, miele ed olio. Apicio appunta anche la ricetta per il pollo con pasta e latte, ovvero pollo lessato e servito con una sorta di polentina preparata con semola e latte cotta al fuoco.

[55] Il pollo veniva lessato poi insaporito con semi di finocchio e arrostito in forno; veniva poi servito con una salsa a base di amido e condimenta.

[56] Le salse venivano preparate sul fuoco con una base di condimenta, garum e vino o mosto cotto, altrimenti aceto, a cui si aggiungeva miele oppure amido come addensante. Apicio menziona salse per lessi e scaloppine, per lesso di cinghiale, per lesso di cervo e capriolo, per lesso di vitello, di capretto o di agnello; curioso il fatto che, in alcuni casi, la ricetta prevedesse l’aggiunta di uova pestate e mixate agli altri ingredienti.

[57] Camporeale 2004, pp. 177 ss. In Etruria i prodotti ittici facevano già parte della dieta quotidiana: testimonianze sono i punti per l’avvistamento dei tonni sui promontori del Mar Tirreno (Strab., V, 2,6; V, 2, 8), nonché la notizia di veri e propri allevamenti in specchi d’acqua dolce (Strab., V, 2, 9).

[58] Polpette di granchiolini, gamberi, calamari, seppie, aragoste, con pepe, lingustico, cumino e laser.

[59] La ricetta utilizzava la polpa di gamberoni e calamari pestata ed amalgamata con il pepe nero, con cui venivano preparate polpette da friggere in olio caldo.

[60] L’aragosta veniva arrostita sulla graticola, spennellata, di tanto in tanto, con una salsina a base di pepe, coriandolo e, presumibilmente, olio.

[61] La salsa al cumino era preparata a base di garum, olio, miele e condimenta; si versava sulle aragoste lesse.

[62] Le polpettine erano preparate con la polpa di aragosta lessata e pestata con garum, pepe e uova.

[63] In entrambi i casi i calamari venivano cotti con condimenta; per quanto riguarda la versione farcita, si utilizzavano anche tuorli d’uovo, miele, aceto, garum, vino ed olio.

[64] Le seppie venivano lessate, poi farcite con condimenta, vino, miele e garum oppure con polpettine a base di cervella pestate, uova e pepe.

[65] Si cuocevano i piselli e, a parte, le seppioline (assieme a garum, olio, porri e coriandolo). Si servivano le seppioline con il loro sugo e i piselli cotti.

[66] Con pepe, lingustico, tuorlo, aceto, garum, olio, vino e miele.

[67] Con pepe, prezzemolo, menta secca, cumino, lingustico, miele e garum.

[68] I ricci venivano lessati in acqua con olio, garum e vino dolce, poi venivano scolati e serviti con il pepe. Apicio appunta anche una ricetta leggermente diversa che prevedeva una ripassata in forno, in casseruola con condimenta, miele, garum e uova.

[69] Le sarde venivano pulite dalle lische poi venivano farcite con un mix di condimenta con l’aggiunta di noci e miele, dopo di che venivano messe a stufare in pentola e poi servite con olio e mosto.

[70] Si tratta di latte bollito con miele e uova, in pentola.

[71] Pane senza crosta tenuto in ammollo nel latte, poi fritto in olio e spalmato con miele.

[72] Mollica di pane ammollata nel latte, poi strizzata, fritta e cosparsa di miele, vino puro, passito, noci e nocciole tostate.

[73] Polentina con farina bianca: si trattava di dolcetti a base di farina di semola cotta nel latte e tagliata a cubetti. I cubetti venivano poi fritti in olio e successivamente spalmati di miele e pepe nero.

[74] I datteri venivano farciti con gherigli di noci, fritti nel miele caldo e poi cosparsi di miele e pepe nero macinato; la ricetta ricorda tendenze attuali come, ad esempio, le prugne e i datteri farciti con noci o formaggi e serviti come stuzzichini o a fine pasto.

[75] Scaldati in forno e spennellati con miele caldo in superficie.

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Gemma Bechini

Gemma Bechini nasce a Pistoia il 30/07/1986. Dopo aver perseguito la maturità classica presso il Liceo Carlo Lorenzini di Pescia, ha conseguito la Laurea Triennale in Storia e Tutela dei Beni Archeologici in data 5/11/2009, presso l’Università degli Studi di Firenze, presentando una tesi in Etruscologia (“Tomba della Caccia e della Pesca di Tarquinia”, 105/110). Ha successivamente conseguito la Laurea Magistrale in Archeologia nello stesso ateneo, in data 15/10/2012, curriculum classico, , presentando una tesi in Etruscologia (“Tipologia delle coppe da Poggio Civitella, Montalcino – Siena”, 109/110). Durante la carriera universitaria ha effettuato tirocinio partecipando a quattro campagne archeologiche: Gavorrano – Castel di Pietra (luglio 2008), Populonia (settembre 2010), Monte Giovi (ottobre 2010), Tarquinia – Tumulo della Regina (agosto 2012). Ha partecipato a titolo di guida museale per conto del F.A.I., in occasione delle Giornate di Primavera (23 e 24 marzo 2013). È iscritta al G.A.R.S. da ottobre 2012 ed ha partecipato come relatrice ai convegni: “Donna in Cammino, un viaggio nella storia attraverso le culture” in data 11/05/2013, presentando un lavoro sulla figura della donna in Etruria e “Pescia ed il suo territorio: novità archeologiche, artistiche e naturalistiche”, concentrandosi sullo studio di evidenze etrusche dal colle di Speri, in data 22/06/2013. Attualmente iscritta al secondo anno in corso presso la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università degli Studi di Firenze, ha preso parte al Corso di Perfezionamento in Conservazione dei Beni Culturali, presso lo stesso ateneo (dipartimento di Architettura), nel periodo marzo – maggio 2013, e al Corso Laser Scanner 3D – Metodologia di lavoro: dall’acquisizione sul campo, all’elaborazione dati”, tenutosi in data 23/09/2013 presso la sede Microgeo S.r.l., Campi Bisenzio. Continua a collaborare con il gruppo G.A.R.S. di Pescia per la riapertura del Museo Civico di Scienze Naturali.

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