Chi si trova a visitare la Piana di Giza non potrà fare a meno di notare una costruzione singolare posta a sud della Grande Piramide e sarà bene tralasciare ogni considerazione estetica su questa struttura, sottolineando invece che essa sorge esattamente sul luogo di un ritrovamento archeologico importante.

Probabilmente questa scoperta non ha apportato modifiche a quanto si conosce oggi sull’antico Egitto, ne colmato lacune che ci avrebbero consentito di vedere più chiaro laddove l’archeologia e le documentazioni che ci sono pervenute sono carenti; tuttavia, vale la pena citare testualmente le parole dell’archeologo che per primo poté vedere quello che le sabbie d’Egitto ci stavano restituendo: “Chiusi gli occhi e sentii il profumo dell’incenso…del tempo…dei secoli…sentii l’odore della storia stessa, poi seppi che là c’era una barca”.

Era il 26 maggio del 1954 quando Kamal el-Mallakh notò quella che sembrava un’imperfezione sulle mura che correvano intorno alla piramide di Cheope scoperte da Hermann Junker. Nel lato sud della piramide infatti, i resti del muro che sporgevano dalla sabbia erano più vicini di circa 5 metri alla base dell’enorme monumento, rispetto alla distanza rilevata presso gli altri tre lati. Conoscendo la meticolosità degli antichi costruttori l’archeologo decise di iniziare uno scavo per raggiungere le fondazioni del muro e verificare se l’anomalia poteva essere spiegata da scelte costruttive.

La sua intuizione si confermò esatta e alla base del muro fu ritrovato uno strato di malta intatto, posato in modo tale da sembrare una grande pavimentazione. Gli operai procedettero a scavare ancora e portarono alla luce l’angolo di un blocco in pietra di grandi dimensioni perfettamente squadrato e alcuni giorni dopo, incoraggiati da questa scoperta, completarono la prima fase dello scavo, liberando dalla sabbia due gruppi di enormi blocchi di calcare che coprivano quelle che sembravano essere due profonde fosse.

La prima era coperta con 40 blocchi e la seconda con 41, tenuti insieme da stucco in gesso e su uno dei essi fu rinvenuto un cartiglio con il nome del figlio e successore di Cheope, Herdjedef, protagonista della storia narrata dal papiro Westcar.

Nei dintorni erano state scoperte altre fosse simili che un tempo contenevano delle barche o forse, data la particolare forma, rappresentavano esse stesse una barca, ma in nessuna di esse era mai stato trovato nulla. In questo caso però i blocchi di copertura apparivano ancora perfettamente sigillati e questo lasciava sperare che il contenuto fosse ancora presente all’interno delle fosse e con un po’ di fortuna poteva essere ancora in buono stato di conservazione.

Quando il sole entrò per la prima volta in quella cavità sigillata quasi 5000 anni fa, apparvero inconfondibili le sagome di un remo e della prua di una nave, dando alla piccola folla che nel frattempo si era riunita, la certezza che era stata scoperta la barca che probabilmente vide veleggiare sulle acque del Nilo il costruttore della Grande Piramide e che potrebbe aver trasportato il suo corpo fino all’’altopiano di Giza: la Barca Solare di Khufu.

Nella teologia eliopolitana veniva descritto il periplo solare come un viaggio compiuto da Ra attraverso il giorno sulla sua barca chiamata Mandjet e durante la notte attraverso gli inferi sulla barca Masket; il cambio tra le due imbarcazioni era previsto al crepuscolo e si ha una sua dettagliata descrizione ne “Il Libro dell’Amduat”.

Durante il viaggio notturno Ra era costretto a cambiare ancora imbarcazione per poter navigare sulla sabbia, allora il serpente protettore Mehen ne assumeva la forma e trainato dai fedeli trasportava le divinità su quel fondo infimo e pericoloso.

Fu certamente per quanto indicato in questo mito che i sovrani dell’Antico Regno fecero sistemare nei pressi delle loro tombe una o più imbarcazioni e finalmente, grazie alla tenacia di Mallakh e ai quindici anni che Junkers passò a scavare sulla Piana di Giza, oggi possiamo ammirare una vera imbarcazione prima visibile solo sulle pitture parietali.

Gli operai impiegarono più di sei mesi per rimuovere i 40 blocchi e alla fine venne alla luce uno straordinario e antichissimo kit di montaggio, il più antico che ci sia mai pervenuto, che avrebbe consentito dopo 10 anni di lavoro di rimontare una straordinaria testimonianza della tecnica costruttiva di quel tempo.

1224 pezzi disposti in 13 strati, funi per il sartiame, cesti e stuoie; alcune parti immediatamente riconoscibili, ma nella maggior parte dei casi pezzi assolutamente anonimi.

E il kit di montaggio non aveva nessun libretto di istruzioni.

Per effettuare comodamente le varie prove necessarie all’assemblaggio dei pezzi e per evitare un’eccessiva sollecitazione al legname antico che pure si presentava in ottime condizioni, fu realizzato un modellino in scala 1:10 di ogni singolo pezzo e alla stregua di un puzzle si procedette con i vari tentativi fino alla realizzazione completa della struttura navale.

Oggi, in quella costruzione non proprio elegante in prossimità della Grande Piramide, possiamo ammirare con stupore, ammirazione ed emozione una barca lunga 43,6 metri e larga nel centro 6, con un dislocamento calcolato in 45 tonnellate.

Costruita senza chiglia, presenta le tavole dello scafo unite e fissate con dei pioli e poi legate con funi di canapa e corregge di cuoio. Delle assicelle di spessore minimo sono posizionate nelle fessure dalla parte interna dello scafo. Le funi e le assicelle gonfiandosi a contatto con l’acqua, rendono la struttura stagna, evitando così il calafataggio all’esterno dello scafo.

Grazie al lavoro dei tecnici è stato possibile ricostruire le varie fasi della costruzione della barca di Khufu, che probabilmente ricalca in linea di massima la tecnica utilizzata nella falegnameria navale di quel tempo.

Una volta costruito lo scafo si tagliano le coste, fatte esattamente su misura e non intercambiabili. Ad ogni lato delle tavole messe in costa si appoggia una stretta trave che fa da supporto alla trave del ponte centrale. Assicurata con una fune al centro di queste assi posizionate in costa, c’è la spina dorsale della barca, che corre per tutta la sua lunghezza.

Sui travetti principali viene collocato il rivestimento che va a formare il ponte sul quale vengono lasciati dei boccaporti per consentire l’accesso alla stiva, sia per la manutenzione dello scafo che per il carico delle provviste.

Nella barca che ci è pervenuta, troviamo a prua la cabina del pilota o del capitano formata da una tettoia serretta da dieci sottili pali. A poppa invece è collocata una grande cabina chiusa su tutti i lati, con il tetto sorretto all’interno da tre colonne provviste di capitelli a forma di palma. Di fronte a questa cabina è stata realizzata una tettoia aperta, sostenuta da dodici pali.

A corredo dell’imbarcazione sono state trovate sei paia di remi, i più corti dei quali misurano 6,5 metri e i più lunghi 8,5. Cinque coppie sicuramente venivano legate a degli scalmi realizzati con le funi nei pressi della tettoia anteriore alla grande cabina, mentre una coppia di essi fissati a poppa fungeva da timone.

A giudicare dalla loro posizione sulla barca e dalla loro fattezza è molto probabile che questi non servissero come “propulsori”, ma per gestire l’imbarcazione mentre veniva trainata da terra con robuste funi di canapa intrecciata grazie alla forza di uomini o animali.

Per quanto riguarda la seconda barca solare che fu ritrovata, rimando ad un articolo che abbiamo già pubblicato e trovate al seguente link: https://mediterraneoantico.it/articoli/news/inaugurato-laboratorio-restauro-della-seconda-barca-cheope/

 

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Paolo Bondielli

Storico, studioso della Civiltà Egizia e del Vicino Oriente Antico da molti anni. Durante le sue ricerche ha realizzato una notevole biblioteca personale, che ha messo a disposizione di appassionati, studiosi e studenti. E’ autore e coautore di saggi storici e per Ananke ha pubblicato “Tutankhamon. Immagini e Testi dall’Ultima Dimora”; “La Stele di Rosetta e il Decreto di Menfi”; “Ramesse II e gli Hittiti. La Battaglia di Qadesh, il Trattato di pace e i matrimoni interdinastici”.

E’ socio fondatore e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Associazione Egittologia.net. Ha ideato e dirige in qualità di Direttore Editoriale, il magazine online “MA – MediterraneoAntico”, che raccoglie articoli sull’antico Egitto e sull’archeologia del Mediterraneo. Ha ideato e dirige un progetto che prevede la pubblicazione integrale di alcuni templi dell’antico Egitto. Attualmente, dopo aver effettuato rilevazioni in loco, sta lavorando a una pubblicazione relativa Tempio di Dendera.

E’ membro effettivo del “Min Project”, lo scavo della Missione Archeologica Canario-Toscana presso la Valle dei Nobili a Sheik abd el-Gurna, West Bank, Luxor. Compie regolarmente viaggi in Egitto, sia per svolgere ricerche personali, sia per accompagnare gruppi di persone interessate a tour archeologici, che prevedono la visita di siti di grande interesse storico, ma generalmente trascurati dai grandi tour operator. Svolge regolarmente attività di divulgazione presso circoli culturali e scuole di ogni ordine e grado, proponendo conferenze arricchite da un corposo materiale fotografico, frutto di un’intensa attività di fotografo che si è svolta in Egitto e presso i maggiori musei d’Europa.

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