In alcune pitture etrusche è rappresentato uno strano personaggio mascherato chiamato Phersu.
Tale figura, che descriveremo in seguito nel dettaglio, si ritrova in alcune tombe di Chiusi e in quattro tombe tarquiniesi, di cui la prima è la famosa tomba degli Auguri, della II metà del VI secolo a.C., scoperta il 12 aprile 1878.
La tomba presenta una struttura tipicamente arcaica con una sola camera scavata nel tufo e a pianta quadrangolare a cui si accede tramite il dròmos (ingresso) a gradini. La camera è decorata con un fregio figurato che la percorre per intero e presenta un soffitto a doppio spiovente con colùmen, una trave longitudinale (in questo caso dipinta di rosso) che, nei templi etruschi-italici, era collocata sulla sommità del tetto e da cui si dipartivano due falde inclinate.
Nel frontone un leone e una pantera sono raffigurati mentre azzannano uno stambecco. Nella parete di fondo, in posizione centrale, è presente una finta porta con i battenti chiusi, decorati con riquadri a borchie, fiancheggiate da due figure maschili, rappresentate mentre fanno un gesto di commiato (al defunto). Anche la porta chiusa va interpretata in senso simbolico, come espressione fisica del diaframma che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. Le pareti laterali, di contro, si riferiscono ad attività agonistiche che rimandano ai ludi funebri in onore del defunto (Torresi).
Sulla parete destra della tomba appare una figura maschile stranamente abbigliata: una giacca corta a macchie che paiono ricordare una pelle di vacca rozzamente conciata, un berretto conico a strisce bianche e nere e una fascia rossa stretta ai fianchi. Il personaggio indossa una maschera rossa con barba incorporata e tiene al guinzaglio un grosso cane (un molosso? In ogni caso una specie ormai estinta) che assale un uomo che sembra un condannato a morte, con un sacco bianco sulla testa che gli impedisce di vedere. Nella mano destra l’uomo col sacco tiene una clava, che impugna strettamente per difendersi dagli attacchi del grosso cane. La scena appare vivace per i colori impiegati, tutti di grande impatto visivo, ma anche inquietante perché l’uomo mascherato appare intento a due attività finalizzate entrambe alla morte del condannato: pungola il cane all’attacco e impedisce col laccio all’uomo di sottrarsi ai denti del cane che lo vorrebbe sbranare.
Nella parete sinistra è raffigurata una scena di carattere agonistico: si intravedono un uomo nudo, un flautista e due pugili con un lebete. Accanto appare il Phersu, sebbene vestito in maniera differente rispetto alla scena della parete opposta. Sembra impegnato in una corsa col capo rivolto all’indietro. E’ lo stesso Phersu? Difficile ipotizzare che si tratti del seguito della prima scena raffigurata nella parete destra, visto che il personaggio è scalzo ed è vestito, come detto, in maniera differente, anche se si potrebbe immaginare una narrazione che ne spieghi la presenza. Il Phersu della parete destra potrebbe essere stato sconfitto e la corsa risulterebbe essere il tentativo consequenziale di sottrarsi al suo avversario con una veloce corsa.
La seconda tomba in cui appare il singolare e inquietante personaggio della tomba degli Auguri è quella delle Olimpiadi (fine VI secolo a.C., dunque successiva a quella degli Auguri). Anche in questo caso si ripete con minime varianti la scena della parete destra della tomba precedente: è presente l’uomo mascherato con giubbetto – questa volta a scacchi – e il prigioniero incappucciato brandisce ancora la clava o forse una spada. Ancora in altre due tombe, quella del Pulcinella (chiamata così perché il Phersu ha connotati assai simili a quelli della maschera napoletana) e quella del Gallo (fine VI secolo a.C. la prima, di molto più tarda la seconda, degli inizi del IV secolo a.C.) il Phersu danza indossando un giubbino a scacchi al suono di un flauto e ha accanto una danzatrice.
Anche a Chiusi sembra di vedere lo stesso personaggio in alcune tombe, come, ad esempio, nella tomba della Scimmia (V secolo a.C.) dove il Phersu è impegnato a suonare il flauto mentre un guerriero danza. Possibile anche la presenza del Phersu nella tomba del Montollo, ormai distrutta, ma della quale disponiamo di riproduzioni realizzate da Francesco Gori, etruscologo, esperto di gemme e pietre antiche, erudito e scrittore d’arte vissuto tra Sei e Settecento.
Appare evidente già dalla descrizione e dalle azioni svolte che il Phersu subisce una profonda trasformazione dal V-IV secolo a.C. in poi: il macabro gioco del laccio tende a scomparire probabilmente in conseguenza di una profonda mutazione dei rituali funerari, che vede la sostituzione dei riti più cruenti con altri di matrice ellenica (non a caso cominciano in questo periodo le raffigurazioni di sport di tradizione olimpica). Tuttavia questo non segna la scomparsa della figura del Phersu. Il suo ruolo, infatti, non pare più riconducibile ai rituali sacrificali ma svolge una funzione centrale nelle attività festive. Questa trasformazione, evidente dalla diversa datazione delle tombe in esame, spiegherebbe l’ipotesi che il Phersu inizialmente rappresenti un elemento costitutivo di un rito di damnatio ad bestias attestato nell’antica Roma che verosimilmente rimonta all’età monarchica ed è di chiara influenza etrusca. E non parliamo solo del supplizio dei parricidi (la famosa poena cullei o del sacco, sulla quale rimando al mio articolo, n.d.s.), ma di sacrifici umani di matrice etrusca che transitarono poi nella Roma arcaica (vedi il mio articolo “I sacrifici umani nell’antica Roma”) e di cui un’altra eco è possibile riscontrare nella celeberrima urna dell’Olmo Bello di Bisenzio, dove un prigioniero legato sembra venir condotto verso un orso incatenato. E ai sacrifici umani rimanda anche il sacco bianco sulla testa del condannato, poiché è cosa nota che ai condannati ai sacrifici veniva velato il capo.
È evidente che un tale singolare personaggio non poteva che alimentare le interpretazioni più diverse: c’è stato chi, come Massimo Pallottino, lo ha definito una “maschera”. E veramente appare singolare la somiglianza tra la parola Phersu e il latino persona (“maschera”). Altri etruscologi, come Altheim, hanno avanzato l’ipotesi che Phersu fosse non una maschera, che rimandasse ad un personaggio rinchiuso in un ruolo prefissato, ma un nome proprio e che indicasse la personificazione di un dio infero etrusco, Charun. E veramente alcune caratteristiche iconografiche avvicinano il Charun della tomba Francois di Vulci al Phersu delle tombe prima citate. Che l’aldilà etrusco fosse popolato da demoni spaventosi e di inaudita ferocia è cosa nota, ma appare evidente e poco spiegabile il dato che Phersu appaia sia in contesti cruenti che incruenti, ad esempio di danza e musica.
È noto che in Etruria, durante le esequie dei personaggi illustri, venivano celebrati dei giochi funebri in cui i combattenti designati cercavano di sfuggire disperatamente alla morte in una sorta di duello all’ultimo sangue. Una sorta di anticipazione dei ludi gladiatori, tanto che Bloch ha ipotizzato che gli spettacoli gladiatori romani abbiano ereditato dalla rappresentazione del Phersu proprio la loro caratteristica più eclatante: quello del gioco mortale. Anche l’utilizzo del laccio da parte di Phersu nella tomba degli Auguri ricorda fortemente l’uso della rete che i retiarii romani facevano negli spettacoli dedicati.
Questa tesi sembrerebbe trovare conferma nello storico greco Nicola di Damasco che sostiene la derivazione dei giochi gladiatori romani dagli Etruschi. Non solo: i giochi gladiatori mantengono almeno fino al I secolo a.C. a Roma uno stretto rapporto con la dimensione funebre. All’inizio a Roma i ludi gladiatori erano chiamati munera, nel senso di doni funebri, nella accezione di sacrificio offerto dai vivi agli antenati del defunto. Non è questo il luogo per approfondire i giochi gladiatori romani, ma sembra che l’arte della gladiatura sia di origine campana e che sia stata solo successivamente assimilata dalla civiltà etrusca che in quell’area d’Italia aveva una forte influenza. In seguito transitò in quella romana, probabilmente durante il regno di Tarquinio Prisco, re di origine notoriamente etrusca.
I primi giochi “romani” risalirebbero al III secolo a.C. e furono celebrati proprio in occasione delle esequie di un personaggio illustre, Giunio Bruto Pera, con tre coppie di gladiatori schierati l’uno contro l’altro. In seguito il numero dei gladiatori impegnati nei combattimenti funebri aumentò fino a qualche centinaio (I secolo a.C.), finché i ludi diventarono parte integrante degli spettacoli pubblici in epoca imperiale.
Verosimilmente il Phersu non è stato perduto col tempo come archetipo, ma è stato variamente elaborato. Lo dimostrano gli interessanti studi sui Fescennini, che risalgono al mondo falisco etruschizzato, e sull’Atellana, di origine campana (anche qui la Campania come luogo di origine), e in seguito assunta nel mondo etrusco e latino. Nell’Atellana erano presenti maschere come il mimus albus (un antenato di Pulcinella?) e il mimus centunculus con abiti rattoppati e spesso preso a bastonate (Arlecchino?). Insomma, dal Phersu demone sanguinario, il cui nome ricorda, secondo Heurgon, Persefone (Phersipnai) che regna sui morti accanto ad Ade, si è passati alla maschera teatrale. E sempre per continuare con le parole di Heurgon “esiste una vecchia associazione fra il raccapriccio della morte e lo sfogo nevrotico del riso, contro il quale questo costituisce una difesa potente”.
Non solo: l’ipotesi di Altheim, che risale al 1929, è stata ulteriormente suffragata da studi più recenti. Vanni Menichi (1986) nel suo “Le maschere nella commedia dell’arte” ha definito Arlecchino “Il capo dei diavoli, la cui natura demoniaca è indicata dal nome stesso, col quale venne anticamente chiamato”. Il nome “Arlecchino”, infatti, affonda le sue radici, secondo alcuni, nella maschera degli Herlequins, diavoli buffoni del teatro medioevale. E’ inevitabile fare riferimento anche al diavolo Alichino citato da Dante nei cc. XXI e XXII dell’Inferno, così come, ancora prima, al conte di Boulogne Hennequin, ucciso con alcuni dei suoi, denominati “la masnada di Hennequin” in uno scontro coi Normanni (882). Risalendo ancor più indietro alle origini è possibile che l’archetipo sia una antichissima leggenda germanica secondo cui, alla radice del baccano delle notti tempestose, ci sia una “masnada” di anime dannate che, comandate da un loro re, siano costrette a galoppare con una muta di cani latranti fino ai confini del mondo.
Se volessimo accettare, al contrario, un’origine non demoniaca del Phersu, potremmo prendere in considerazione l’ipotesi che lega il personaggio a Herculinus, cioè “piccolo Ercole”.
Ed effettivamente caratteristiche erculee sembra di riscontrare nella pelle rozzamente conciata che lo ricopre, nella clava e nel cane, che evoca Cerbero. E ancora è possibile rinvenire nella figura ricca di suggestioni di Phersu anche tratti che lo fanno assomigliare al personaggio di Atteone, protagonista di un mito: quello che vide il cacciatore innamorato di Artemide colpevole di avere visto la dea nuda mentre si bagnava e per questo condannato ad essere sbranato dai suoi cani.