Presente al grande evento di Tourisma 2023, all’interno dell’ITER (percorso di presentazione di missioni archeologiche italiane all’estero), il prof. Diego Calaon dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha presentato al pubblico il suo lavoro sull’Isola di Mauritius. Ma cos’è e dove si trova Mauritius? Che ci fa un archeologo al lavoro in un paradiso vacanziero? Che genere di storia può avere un posto del genere? E perché un ateneo italiano è andato a compiere ricerche così lontano? A tutte queste domande il professore ha dato pronta risposta nel corso del suo brillante intervento.

Il prof. Diego Calaon, docente di Topografia Antica presso l’Università Ca’ Foscari.

Anzitutto, identifichiamo Mauritius: si tratta di un’isola, poco più piccola del Lussemburgo, situata nell’Oceano Indiano a est del Madagascar, e considerata parte del continente africano. Colonizzata per la prima volta solo a fine ’500 dagli Olandesi, passò nel 1700 in mano ai Francesi, e nel secolo successivo agli Inglesi, dai quali la comunità locale ottenne l’indipendenza solo nel 1968. Nel corso dei secoli di dominazione franco-inglese, il potere era detenuto non tanto dallo stato occupante, quanto piuttosto da due compagnie private: la Compagnia delle Indie Orientali Francese prima e Inglese poi. Non essendo mai stata abitata stabilmente prima della colonizzazione europea, la popolazione dell’isola è composta al 100% di immigrati, in stragrande maggioranza di provenienza indiana, ma anche sud-est asiatica e africana, con una piccola percentuale di europei. La lingua più diffusa è il creolo, a base francese e con influssi inglesi, portoghesi, malgasci e hindi.

Dato questo quadro, la domanda di partenza risulta ancor più impellente: cosa ci fa un archeologo a lavoro in un posto simile, dalla storia così recente e dalla cultura così variegata? Proprio quest’ultimo aspetto dà al lavoro della Ca’ Foscari un’immensa importanza: la cultura dell’isola è ancora in via di formazione, e il passato che si indaga è talmente recente e “vivo” nella società del luogo, che l’indagine scientifica assume un valore sociale e politico estremamente rilevante. Tre i progetti principali su cui si concentrano gli sforzi dei ricercatori: una mappatura degli edifici storici sette/ottocenteschi nella capitale, Saint Louis; scavo archeologico presso il sito UNESCO di Aapravasi Ghat, il porto in cui arrivavano gli schiavi (fino al 1780) e poi gli immigrati indiani, ruolo che gli ha meritato il soprannome di “Ellis Island mauriziana”; scavo archeologico e analisi biomediche-antropologiche presso i due cimiteri di Le Morne, altro sito UNESCO.

Una veduta di Saint Louis, e del suo moderno skyline in espansione.

Il primo progetto, la mappatura degli edifici storici, mira a salvaguardare gli edifici storici dall’ondata di urbanizzazione degli ultimi anni. Si tratta infatti di edifici molto delicati, realizzati in materiali deperibili (legno soprattutto), eretti sia dai coloni europei sia dagli ex-schiavi e immigrati asiatici e africani. La loro esistenza è minacciata non solo dal naturale deperimento del materiale, ma anche e soprattutto dalla selvaggia costruzione di palazzine e grattacieli nei quartieri della capitale. La loro conservazione è importante non solo in quanto testimonianza storica del passato coloniale dell’isola, ma anche e soprattutto in quanto modello architettonico di riferimento dell’edilizia locale, che rischia di essere spazzata via dall’avvento delle nuove potenze colonizzatrici: le grandi compagnie di viaggi occidentali. Lo sviluppo di questo progetto è stato anche occasione per la redazione di un Codice di Tutela dei Beni Culturali e Archeologici dell’isola, totalmente assente fino a pochissimi anni fa, redatto dalle autorità in collaborazione con l’ateneo veneziano.

Un teatro di età coloniale a Saint Louis; sullo sfondo, l’avanzata dei grattacieli.

Se la salvaguardia degli edifici coloniali ha un notevole impatto a livello sociale e di coscienza collettiva della comunità, ancor più ne hanno gli altri due scavi condotti presso Aapravasi Ghat e Le Morne. Da un lato, le indagini delle strutture portuali, che sono rimaste le stesse dal ’700 al primo ’900, danno vivissima e dolorosa testimonianza di come la nascita della comunità locale risieda nell’evento traumatico della deportazione, apertamente schiavista prima e ambiguamente servile poi. Dall’altro, le indagini biometriche e antropologiche nei cimiteri di Le Morne vanno con mezzi scientifici dritti al cuore della questione centrale: chi sono gli abitanti di Mauritius?

Archeologi in fase di scavo delle più antiche strutture del porto di Aapravasi Ghat.

A questo, in via definitiva, serve sempre l’archeologia: l’indagine del passato in quanto tale è utile per la comprensione del presente, e laddove il passato sia tanto recente da essere vivo non solo nella memoria, ma anche nei sentimenti della popolazione, il valore sociale e culturale delle indagini raggiunge una preziosità incalcolabile. Oggi, gli abitanti di Mauritius, figli e nipoti di immigrati da ogni parte del mondo per ragioni diverse, con storie composite alle spalle, si guardano in quella che è la loro terra e la loro casa alla ricerca di una precisa identità nella quale tutti possano riconoscersi. Un’identità di valore, che non sia l’ennesima condizione di sfruttamento imposta dall’esterno: come nei secoli scorsi le Compagnie delle Indie Orientali, oggi le grandi Compagnie di Viaggi colonizzano le coste dell’isola, tentando di sfruttare il lavoro dei locali all’interno dei grandi resort che vengono costruiti senza nemmeno rispetto dell’ambiente (se pensando a Mauritius immaginate grandi spiagge di sabbia bianca a perdita d’occhio coronate da palme, sappiate che non state pensando alla vera natura del luogo, ma piuttosto a un’immagine da cartolina forzatamente costruita all’interno dei villaggi vacanze attraverso l’importazione di terra, sabbia, piante e quant’altro…).

Ed è questa precisa ricerca di un’identità di valore e indipendente che ha generato la bizzarra collaborazione tra un’università italiana e un popolo sub-equatoriale, secondo le parole del prof. Calaon: “Mi chiedono spesso come mai a Mauritius ci siamo finiti noi, e non un ateneo olandese, francese o inglese, che pure avrebbero dalla loro la tradizione di un coinvolgimento più diretto nell’isola. Io credo che sia proprio questo il punto: che siano molto più sereni nell’affidare la ricerca sul loro passato a chi non ha una storia di sfruttamento coloniale presso di loro, ma al contrario ha l’imparzialità necessaria a condurre un’indagine seria e priva di mistificazioni.”.

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