Lo scorso 8 febbraio, un team di ricercatori della Cornell University di Ithaca, coordinato dal prof. Sturt Manning, ha pubblicato sulla rivista Nature i risultati di un’indagine volta ad approfondire le cause del repentino collasso dell’Impero Ittita. Secondo gli esperti, un ruolo cruciale potrebbe aver giocato un drammatico triennio di carestia tra gli anni 1198-1196 a.C., identificata tramite la dendrocronologia. Grazie al lavoro del Cornell Tree-ring Laboratory è stato possibile identificare questa lunga stagione di estrema aridità del clima, analizzando campioni di legno di ginepro (alberi altamente longevi, che possono superare il millennio di vita) provenienti da Gordion, dove erano stati utilizzati per costruire la camera funeraria di un parente (probabilmente il padre) del mitico re Mida di Frigia. La conclusione dello studio è stata che questa prolungata siccità abbia pesantemente influito sull’agricoltura e sull’economia dell’impero, contribuendo a causarne il disfacimento.

Uno dei campioni lignei esaminati dal CTRL, con evidenziati gli anelli della carestia. Credits to Cornell Tree-Ring Laboratory

Nei giorni immediatamente successivi alla pubblicazione, si sono moltiplicati articoli e proclami dai toni chiaramente esagerati, in cui si tentava di far passare il messaggio che la carestia fosse stata la principale o unica causa del collasso. Questo ha portato, naturalmente, a facili retoriche sul cambiamento climatico e a titoli acchiappa-like che tentavano di paragonare questa antica situazione con la nostra attuale. Urge quindi innanzitutto chiarire due aspetti.

Primo, l’Impero Ittita non fu certamente portato al collasso dal solo cambiamento climatico. Diamo per buono che la cronologia corrisponda: il triennio di carestia è di datazione sicura (1198-1196 a.C.), mentre più dibattuta è quella dell’effettiva fine dell’Impero, solitamente datata al 1170; ma supponiamo che i calcoli possano essere conciliati. Ciononostante gli ultimi imperatori ittiti ebbero a che fare, riassumendo all’osso, con gravissime secessioni di vassalli (soprattutto Karkemiš nel sud-est e Tarkuntašša a sud), sollevazioni in aree endemicamente ribelli (Arzawa e Lukka), lotte dinastiche per la successione al trono (figlie di una corte imperiale da sempre divisa e incline alle congiure), pressione di nemici esterni (il nascente Impero Assiro a est, i barbari Kaška dal nord, i Frigi e altri popoli balcanici da nord-ovest e i celeberrimi Popoli del Mare dal Mediterraneo), il tutto complicato da uno svuotamento interno del paese (causato da guerre di difesa, guerre civili e guerre di offesa, come l’invasione di Cipro), dalla difficoltà di amministrare efficacemente i domini da una capitale “decentrata” come Hattuša e dalle inevitabili tensioni sociali e difficoltà materiali causate da tutto questo. In questo quadro, un triennio di carestia avrebbe certamente avuto un effetto devastante, ma andrebbe annoverato tra le con-cause, piuttosto che eretto a male primitivo trascurando tutto il resto.

         Strutture lignee dal Tumulo di Gordion. Credits to Cornell University

Secondo, è subdolamente ingannevole tentare di istituire un parallelo tra oggi e allora, essendo in realtà la situazione odierna molto più grave. Quella del 1198-1196 a.C. fu infatti una naturale epoca di siccità, causata da normali e ciclici cambiamenti del clima del nostro pianeta, del tutto indipendente dall’azione dell’uomo e ristretta a una precisa area geografica. La nostra condizione attuale è invece comune a tutto il pianeta, e almeno in parte senza dubbio dovuta e aggravata dall’azione degli esseri umani. Un qualsiasi tentativo di raccontare la caduta dell’Impero Ittita come frutto di un cambiamento climatico in maniera analoga al nostro difficile presente, perciò, è solo una trovata pubblicitaria di facile e poco scientifico clickbaiting.

La porta dei leoni di Hattuša, la capitale ittita distrutta dall’invasione dei barbari Kaška.

Questo significa che siamo davanti a un fenomeno senza precedenti nella storia? Per la sua dimensione globale probabilmente sì, ma è molto interessante scoprire che si è già assistito, e più di una volta, al crollo di civiltà fiorenti per causa di un climate change prodotto dallo sconsiderato comportamento umano.

Un primo caso esemplare è quello della storia dei Maya. Discendenti di altre più antiche civiltà mesoamericane, essi iniziarono il loro processo di etnogenesi nel secondo millennio avanti Cristo, in quello definito “Primo Periodo Pre-Classico”, processo sicuramente compiuto nel Tardo Periodo Pre-Classico (400 a.C.-250 d.C.), quando ormai la società e la cultura erano ben delineate e le grandi piramidi e altri edifici in pietra venivano eretti con regolarità. La civiltà del Periodo Classico che si sviluppò nei secoli seguenti raggiunse il suo apice nell’VIII secolo, quando le grandi città maya erano oltre 40 e il numero totale degli abitanti dell’area superava i 10 milioni, ridicolizzando nel confronto la coeva Europa carolingia e seconda solo alla Cina della dinastia Tang. Questa ricca e fiorente civiltà si sviluppò nei Bassopiani Meridionali del Messico, nel Belize, nel Guatemala e sugli Altipiani di El Salvador prospicienti al Pacifico: un’areale molto variegato, ma con alcune caratteristiche comuni. L’agricoltura innanzitutto, che era il primo mezzo di sussistenza dei Maya, la cui dieta era sostanzialmente vegetariana (la carne era un lusso rimediato attraverso la caccia, poiché gli unici animali domestici che essi mangiavano erano tacchini e una piccola razza di cani). In secondo luogo, il rapporto con la foresta, che forniva frutta, materiale da costruzione, carne attraverso la caccia, e che pian piano veniva abbattuta per ricavarne terreni coltivabili. Fu proprio questo rapporto simbiotico con la foresta che, entrando in crisi, produsse nel IX secolo il cosiddetto “Crollo Maya”: sulla spinta della enorme crescita demografica, sempre più aree boschive venivano bruciate per far posto a campi di mais, zucche e fagioli, tanto che oggi è difficile persino per noi immaginare le ridottissime dimensioni cui la foresta pluviale era stata relegata.

Le rovine di Tikal, una delle più potenti città maya del Priodo Classico, oggi nuovamente circondate dalla foresta

Inoltre, benché le tecniche della rotazione dei campi e delle colture swidden fossero loro ben note da secoli, i Maya iniziarono ad impiegare metodi di coltivazione sempre più intensivi, per rispondere alla crescente domanda di cibo, impoverendo e stremando così il suolo, che a un certo punto cominciò a rendere di meno. In questo contesto di forte pressione sulla terra, i cicli di cambiamento climatico tra periodi più piovosi e periodi più asciutti che per secoli si erano alternati senza recare grossi danni (fin dai primi insediamenti del 1800 a.C.), risultarono invece fatali, producendo un repentino collasso di tutto il mondo maya. Le città vennero abbandonate e gradualmente fagocitate dalla foresta, la popolazione crollò, e persino la cultura conobbe una breve fase di regressione. La risposta umana fu quella della migrazione: gli abitanti dei Bassopiani Meridionali si trasferirono nelle regioni più settentrionali dello Yucatan, dove diedero vita a una nuova fase della loro cultura, quella Post-Classica, che tuttavia non raggiunse mai le vette del Periodo Classico e che fu trovata già in crisi e facilmente travolta dall’arrivo dei conquistadores spagnoli. Le somiglianze con i nostri giorni sono tremendamente inquietanti, con una piccola differenza: la migrazione verso nord dei Maya poté rivolgersi a una regione sostanzialmente disabitata, in grado di accogliere nuovi insediamenti umani e priva salva dai disastri ecologici di matrice antropica da cui si fuggiva. Oggi un’operazione del genere sarebbe replicabile in maniera analoga solo con un trasferimento dalla Terra a un altro pianeta (come già suggeriva il film Interstellar nel 2014).

Le due aree di insediamento della civiltà Maya: Pre-classica e Classica a sud, Post-classica a nord. Credits to Microsoft co.

L’altro caso storico analogo, forse un po’ più noto attraverso documentari e il film Rapa Nui del 1994, è quello appunto dell’Isola di Pasqua. Colonizzata per la prima volta da navigatori polinesiani verso il 900 d.C., essa si presentava ai primi abitanti come una grande foresta di palme in mezzo all’Oceano, molto diversa dallo scoglio roccioso che è oggi. Lontanissima a est rispetto al cuore degli arcipelaghi della Polinesia e della Melanesia, essa venne colonizzata probabilmente in varie ondate, ma le enormi distanze non ne consentivano una frequentazione per scopi commerciali, isolandola letteralmente dal resto del mondo. La vita sull’isola trascorse tranquilla per vari secoli, essendo gli abitanti pochi e in perfetto equilibrio con le risorse offerte dalla natura. A un certo punto della storia, tuttavia, la popolazione sentì l’esigenza di iniziare a erigere i celeberrimi moai, le statue con enorme testa rivolta verso il mare caratteristiche dell’Isola di Pasqua. Per compiere questi lavori era necessario l’uso di grandi tronchi, motivo per il quale (secondo la maggioranza degli studiosi) si iniziò ad abbattere la foresta (secondo alcuni, un certo ruolo nella deforestazione venne giocato anche dai topi importati dagli stessi colonizzatori). Il fenomeno andò intensificandosi e la popolazione aumentava, non si sa con precisione se per naturale crescita demografica o in conseguenza di nuove ondate colonizzatrici da ovest.

Una scena dal film Rapa Nui: il sovrano avanza su una portantina all’ombra dei Moai, in un paesaggio ormai desolato. Credits to Warner bros.

In conclusione, verso il 1400 la deforestazione, l’aumento della popolazione e lo sfruttamento delle risorse alimentari raggiunsero l’apice, tanto che a un certo punto l’ultima palma venne abbattuta. Le 15/20.000 persone rimaste sull’isola si resero conto solo a questo punto di essere per sempre bloccati sull’isola, non avendo più materiale per costruire imbarcazioni in grado di solcare l’oceano. Il contraccolpo non tardò ad arrivare: l’ecosistema, sconvolto, non produceva più cibo sufficiente per sfamare tutti, le principali specie di fauna locale si estinsero definitivamente: questo diede vita a feroci scontri tra gli isolani e portarono in breve tempo a una spaventosa regressione culturale. Così a fine ’700 i navigatori europei trovarono l’isola spoglia, la popolazione scarsissima e regredita rispetto alle coeve comunità polinesiane ad ovest. Le analogie ricostruibili tra questa vicenda e il tempo presente sono particolarmente stringenti e non necessitano certo di essere esplicitate. L’impossibilità di evadere da quel micro-mondo in disgregazione è la stessa che oggi abbiamo noi di lasciare il pianeta. Particolarmente inquietante risulta poi la tragica sorte degli ultimi superstiti dell’isola: “trovati” da un navigatore olandese nel 1772, essi subirono il flagello delle malattie portate dagli uomini bianchi, e da essi vennero anche in gran parte schiavizzati con l’inganno e deportati, tanto che già nel 1877 si potevano contare solo 111 abitanti indigeni sull’isola.

Moai dell’Isola di Pasqua

Se dunque gli Ittiti non furono vittime solo del cambiamento del clima, Maya e Rapa Nui collassarono per effetti di disastri climatici provocati da loro stessi, per non aver capito in tempo che il segreto della loro originale prosperità fosse nel rapporto simbiotico con la natura, e non nel suo sfruttamento indiscriminato. L’auspicio è che per una volta la Storia possa essere davvero una magistra vitae per l’essere umano, e che i problemi legati al climate change non vengano sfruttati come l’ennesima moda da cavalcare per farsi pubblicità, ma siano affrontati in maniera seria da tutti, classe dirigente, cittadini, giornalisti e… divulgatori.

Advertisement

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here