Per quasi tutto l’ottocento il Tempio grande di Abu Simbel è rimasto sconosciuto agli occidentali. Eppure ora è considerato uno dei capolavori dell’arte egizia tanto da far spendere, dal grande egittologo Sergio Donadoni purtroppo recentemente scomparso, queste parole: “Un barocco senso di scenografia raggiunge il suo apice in questo tempio fiabesco”. Si tratta di un grandioso tempio a cella rupestre, che Ramesse II consacrò alle divinità Ra-Harakhti di Eliopoli, Amon-Ra di Tebe, Ptah di Menfi ed a sé stesso.
Del sito di Abu Simbel era allora solo noto infatti, attraverso numerose descrizioni, il Tempio Piccolo di Hathor che il sovrano dedicò alla “Grande Sposa Reale” Nefertari, raffigurata come Hathor stessa. Sino al marzo del 1813 nessun europeo si era spinto oltre Derr, la vecchia capitale della Bassa Nubia. Lo svizzero autore di questa scoperta si chiamava Johann Ludwig Burckhardt: nacque a Losanna il 24 novembre 1784 e morì al Cairo il 15 ottobre 1817 a causa di febbre alta e dissenteria. Dopo la rivoluzione francese, nel 1789 la sua famiglia si trasferì prima in Germania poi in Austria. Terminati gli studi universitari tra Lipsia e Gottinga, ritornò a Basilea nel 1805. Conosciuto però per i suoi sentimenti anti francesi qui non riuscì a trovare alcuna professione e decise quindi di cercare fortuna a Londra ove raggiunse, forte di una raccomandazione del naturalista Johann Friedrich Blumenbach, sir Joseph Banks, un importante membro di una grande società scientifica inglese: la “Associazione per favorire lo scoperta delle regioni interne dell’Africa”, comunemente nota come “Società africana di Londra”. Durante il periodo londinese lo svizzero seguì alcuni corsi presso l’Università di Cambridge specializzandosi in Astronomia, Medicina, Chimica, Mineralogia ed in Arabo.
Nel 1809 si trovava a Malta e qui decise di cambiare il proprio nome in (Sheikh) Ibrahim ibn ʿAbd Allah. Sotto queste nuove spoglie soggiornò per due anni ad Aleppo, in Siria, convertendosi all’Islam, perfezionando la propria conoscenza della lingua araba e studiando il Vicino Oriente. Qui tradusse il romanzo Robinson Crusoe divenendo ben presto un grande conoscitore del Corano e del diritto islamico, tanto da essere spesso coinvolto dagli stessi arabi in dispute su questioni religiose: in pratica era considerato un arabo dagli stessi arabi. Tutto ciò gli valse il soprannome di Sceicco e gli permise di compiere viaggi particolarmente difficili da organizzare in quei tempi. Nel periodo trascorso in Siria Ibrahim visitò ed esplorò Palmira, Damasco ed il Libano e, il 22 agosto del 1812, scoprì la capitale Nabatea, Petra. Meta obbligata a questo punto fu l’Egitto con il proposito di individuare le fonti del Niger. Non riuscendo però a trovare nessuna carovana che potesse condurlo verso Occidente decise di imbarcarsi sul Nilo, giungendo alfine alla scoperta di Abu Simbel, avvenuta il 22 marzo del 1813.
Visitò ancora la Mecca e Medina. Rientrò quindi al Cairo dove, in attesa del rientro in Europa, si spense nel 1817. La scoperta del Tempio grande fu abbastanza casuale: già il 5 marzo del 1813 Burckhardt in effetti avrebbe potuto compierla. Infatti, accompagnato dalla sua guida Mohammed Abu Saad, un anziano arabo della tribù dei Kerrarish, lo svizzero raggiunse lo speos di Abu Hoda, annotandone su un taccuino le pitture più interessanti e tracciandone una mappa, situato sulla sponda opposta del Nilo rispetto ai templi di Abu Simbel. Sul suo taccuino leggiamo infatti:” sulla riva opposta del fiume, un po’ a nord del tempio di Abu Hoda, si trova il grande tempio di Ebsambal”. Ebsambal è un altro nome del sito ed il grande tempio qui indicato è in realtà il tempio piccolo, quello dedicato alla moglie Nefertari. Si era però fatto tardi ed il futuro scopritore del Tempio Grande decise di desistere dall’attraversare il Nilo per ritornare successivamente. Il 22 marzo, rientrando da un viaggio in Sudan, Burckhardt si trovava di nuovo ad Abu Simbel. Leggiamo dal suo taccuino: “22 marzo. Ci trovammo di nuovo a camminare lungo la riva………. e attraversammo il villaggio di Ballana. Un’ora e mezzo dopo……salimmo su una collina scoscesa. Sulle due rive le rocce erano a strapiombo sul fiume. Sulla riva destra, ad est, si trova il Wadi Fereyg; a ovest la montagna ha il nome di Ebsambal”. Segue una breve dissertazione sull’etimologia di questa parola che lui identifica come probabilmente greca. Raggiunse quindi, dopo una breve camminata sulla sabbia, il tempio di Hathor del quale era già nota l’esistenza. A questo punto nel taccuino si legge una dettagliata descrizione di questo tempio, il cui stato di conservazione risulta essere perfetto.
Dopo aver esaminato questo tempio Burckhardt si prepara per far ritorno dalla sua guida, ritenendo di aver osservato tutte le vestigia del sito. Ma riprendiamo la lettura del suo taccuino: “ Per un caso fortunato mi allontanai di qualche passo verso sud e i miei occhi incontrarono la parte ancora visibile di quattro immense statue colossali, tagliate nella roccia alla distanza di circa duecento iarde dal tempio. Queste statue si trovano in un profondo avvallamento scavato nella collina”. Le statue, come il tempio stesso, erano quasi completamente sepolte dalla sabbia (il tempio verrà in seguito liberato dalla sabbia dal patavino Belzoni). Ancora dal taccuino:” Una delle statue ha ancora tutta la testa e una parte del petto e delle braccia fuori dalla sabbia. Di quella contigua non si vede quasi nulla, poiché il capo è rotto e il corpo è coperto di sabbia fin sopra le spalle. Delle altre due emergono solo le acconciature”. Seguono a questo punto alcune considerazioni: le condizioni insabbiate delle statue non fanno capire allo svizzero se esse siano assise o stanti e nemmeno se poggino su troni o su colonne appositamente costruite per sorreggerle. Un passo interessante del taccuino si ha quando considera queste statue come un esempio di bellezza greca: “ ….. Il volto della testa che emerge dalle sabbie è giovane e molto espressivo.
E’ più vicino alla bellezza greca che al tipo di qualsiasi altra statua dell’Antico Egitto che io abbia mai vista. Veramente, se si astrae dalla sottile barba allungata, questa testa potrebbe benissimo passare per quella di Pallade”. Erroneamente ritiene di vedere la rappresentazione di un nilometro su una delle statue, mal interpretando le scaglie del serpente che ornano la corona del sovrano. Riesce a distinguere sulle braccia della statua una serie di geroglifici ma non può ovviamente capirne il significato: i geroglifici al momento di questa scoperta sono ancora da decifrare! Nel taccuino scrive ancora: “Se si potesse levare la sabbia sotto questo Osiride, penso che si scoprirebbe un vasto tempio, di cui le sei statue sopra descritte ornano probabilmente l’entrata”. Burckhardt, considerata la presenza della statua di Osiride, ritiene che questo “fosse un tempio consacrato ad Osiride”. Il 22 stesso Burckhardt lasciò il sito ma il ricordo di quella straordinaria giornata rimase sempre vivo nella sua memoria tanto che, in una lettera scritta al Cairo il primo luglio 1816, ne faceva ancora riferimento paragonando le teste dei colossi di Abu Simbel al colosso in granito del Ramesseum, tuttora esposto al British, che Salt e Belzoni intendevano trasportare in Inghilterra.