Da queste pagine amerei parlare di arte egizia, uno dei tratti che più attira il pubblico.

Ed è anche un tema che da sempre mi sta particolarmente a cuore.

Questo, non solo per la sublime bellezza e l’assoluta unicità di quelle opere, dalle pitture ai rilievi, alla statuaria o all’architettura, ma per la particolare genesi di ogni opera, dall’immensità al singolo dettaglio. Nulla per caso, nulla lasciato al caso. Perché il fine non è ciò che noi consideriamo e chiamiamo “arte”, bensì l’universo stesso. O meglio: gli universi. Quello in cui viviamo e quello della dimensione parallela, da noi separata eppure intimamente unita: l’universo del Divino, ove gli umani defunti, divinizzati e immortali nei campi di Iaru o nei cieli infiniti, sono compagni di divinità cosmiche e di luminose stelle.

I concetti che più profondamente sono alla base, e la stessa linfa della creazione egizia, in nuce furono da me esposti molti anni fa nel mio volume sul tema (“Antico Egitto”, della Electa, 2001).

Qui riprenderò come base l’introduzione di allora, ampliandola nei concetti e nelle connessioni, ripromettendomi di riprendere pian piano singoli argomenti e capitoli per approfondirli nel tempo.

Forse una difficile impresa.

Perché “difficile”? Perché addirittura “impresa”?

Perché dalle origini dell’Egittologia (all’alba del XIX secolo) sino a tempi recenti, lo studio dell’arte egizia (come tutti gli studi, le discipline, e l’intero mondo del pensiero) è cambiato col cambiare dei flussi culturali e sociali. Questo è un fenomeno normale, che fa parte della storia del pensiero e della stessa essenza dell’umanità. Il discorso è complesso ma proverò a sintetizzarne i punti salienti.

E, in questo caso specifico, le interconnessioni che propongo sono indispensabili perché tutto appaia con grande chiarezza. Solo se si sarà attraversato il muro, la barriera della differenza temporale e culturale che ci separa dal popolo dei faraoni potremo capire a fondo la loro mente, e dunque apparirà con chiarezza il loro mondo.

Foto 1. Poiché questo è l’anno di Tutankhamon, mi piace iniziare con una sua immagine, e proseguire inserendone alcune altre, come omaggio al faraone e all’argomento dell’arte. Qui vediamo il 1° sarcofago (quello più interno, in cui riposava il corpo), d’oro massiccio. Già da queta meravigliosa opera potremmo trarre mille spunti per il discorso sul significato, sull’essere di queste opere per gli Egizi: il sarcofago è ricettacolo per il corpo, ma anche sua riproduzione, perché sia vivo e giovane per l’eternità; ed è molto di più: le immagini delle dee tutelari che proteggono il corpo con le braccia alate gli ridanno il soffio vitale nell’oltretomba; la “decorazione” di fiori di loto assicura la resurrezione nell’aldilà, e così via. Forme, immagini, simboli… tutto parla, tutto è linguaggio divino, estensione dei medw netjer, e dunque creazione permanente (Museo del Cairo; © Archivio CRE/Maurizio Damiano).
  1. Il processo di apprendimento.

Più su, accennavo al fatto che lo studio dell’arte egizia è cambiato nel tempo.

Prima di accennare al “come” vediamo il “perché” in una estrema semplificazione. Ogni essere vivente, sia esso un virus, un vegetale o animale, sino all’essere umano, reagisce a stimoli, con un processo che va dall’elementare reazione alla più evoluta elaborazione del pensiero. Di questo meccanismo basilare fa parte una delle sue più complesse evoluzioni: il processo di apprendimento. Noi lo connettiamo automaticamente alla cultura. Ma esso implica un tutto globale. L’apprendimento è l’assimilazione degli input che pervengono alle nostre percezioni, con successive elaborazioni.

Ergo, il processo inizia in utero, e il feto avrà reazioni diverse (e differenti corsi di sviluppo alla nascita) a seconda delle percezioni ricevute: se sono i suoni ovattati di armonie classiche e luci soffuse le reazioni neurali – e le relative nuove connessioni – saranno diverse da chi riceve traumi diretti o indiretti (materni). E così dalla nascita in poi: la famiglia, poi la scuola, gli amici e il resto del mondo; e lo stesso ambiente, naturale e artificiale, influirà sulla formazione delle vie neurali (le “strade e autostrade” del pensiero).

Da tutto ciò deriva il fatto che ciò che noi amiamo considerare “pensiero libero e del tutto indipendente” non esiste. Il nostro pensiero è sempre influenza dagli input. A tutto ciò si aggiunge la nostra storia personale: le esperienze, le reazioni, riflessioni, elaborazioni. Ciò che ho schematizzato si riflette dunque in ogni campo della vita, della cultura e dunque della società. Inevitabilmente, chi scrive una storia dell’arte (o qualsiasi altra cosa) sarà influenzato dalla propria storia e dunque dalle idee correnti della sua epoca.

In egittologia ciò lo si vede in ogni campo: dalla religione, all’interpretazione della storia, sino alla visione dell’arte, che cambia nel tempo. Qui ricorderò solo che (per fare un esempio) le visioni romantiche del Winkelmann (1717-1768), con i suoi dogmi sulla purezza dell’arte greca, che risplendeva del biancore del marmo pario di templi e statue hanno condizionato intere generazioni… sino a scoprire che era tutto errato, poiché quei monumenti erano coperti da colori sfavillanti. Così la storia dell’arte egizia, descritta anche in lavori magistrali, sublimi per la profondità e bellezza delle descrizioni e delle interpretazioni della stessa storia dell’arte, ha imperato sino ai nostri giorni, dominata dalla visione eurocentrica. Il giudizio sull’arte era incentrato al metro di paragone della nostra civiltà e cultura.

Anni fa ho voluto intraprendere un percorso diverso. Perché diverse sono state la mia formazione e le esperienze lavorative. Non solo archeologia e storia; ma anche antropologia culturale (sul campo), psicologia e molto altro; programmi che richiedevano preparazione, visioni e applicazioni olistiche (progetto di Ecologia Umana applicata alla Regione Nord del Sudan e al Darfur; Ministero degli Esteri Italiano, ONU). Il risultato è stato il diverso approccio alla visione delle cose: il distacco che permette di osservarle da un punto esterno a sé stessi.

E qui arriviamo dunque all’arte egizia.

Circondato, nei miei anni di studi d’egittologia, da volumi che descrivono mirabilmente l’arte egizia con occhi occidentali, era lampante che quegli splendidi concetti fossero del tutto estranei agli Egizi, nella loro totalità, ma soprattutto a partire da una parola.

Arte.

Come tutti i concetti, anche quello di arte è una convenzione sociale, culturale, dunque frutto di input, di apprendimento, sistema sociale e culturale. Vediamo cosa fu questo concetto per gli Egizi; qui non userò parole nuove per parlarne, ma quelle usate nell’introduzione al mio volume, citato prima. Sono passati gli anni, e accumulati studi ed esperienza, ma quelle mie riflessioni si vedono confermate.

Ed eccole dunque per voi.

Foto 2. Gruppo statuario dell’Antico Regno (Museo Archeologico di Alessandria); il significato delle statue era totalmente diverso da quello che noi diamo nel nostro concetto di arte; le statue erano una derivazione del potere magico della parola, una parola concretizzata in 3 dimensioni; i defunti, una volta svolta la cerimonia dell’apertura della bocca sulle statue, potevano passare fra le dimensioni (quella nostra, dei viventi, e quella di defunti e dèi) grazie alla magia religiosa della loro immagine, parola concretizzata in forma (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
  1. Arte?

Arte egizia.

Queste due parole evocano immagini da sogno: maschere auree, piramidi immense, profili eleganti che riempiono oscure pareti di tombe sepolte. Percorrere l’evoluzione dell’arte, esplorare i tesori lasciatici dal popolo dai faraoni vuol dire intraprendere un viaggio nell’anima degli antichi egizi. Imparare a comprenderne il pensiero, la spiritualità, la religiosità. Ma in un lavoro sull’arte egizia va chiarita una cosa innanzi tutto. La definizione di arte.

Arte.

Una piccola, semplice parola; eppure di grande complessità. Cos’è l’arte? Prima di azzardare una risposta, dobbiamo andare indietro rispetto al problema: perché ci poniamo questa domanda? In effetti quella di porre delle etichette è la caratteristica della civiltà occidentale. Altri popoli vivono determinate cose senza porsi il “problema” (solo nostro!) dell’etichetta da apporre. Così è per l’arte: cosa essa sia è una domanda della nostra cultura, che da secoli ha la tendenza, quasi il bisogno viscerale, di porre etichette “precise” su tutto (frutto della visione analitica greca).

Ma se proprio una risposta dobbiamo dare, per questa esigenza imposta dalla cultura occidentale, vediamo che non ve n’è una, ma molte, e diverse. Purtroppo spesso si osserva nella nostra mentalità un grande dispendio di energie nella critica, nello studio di un’opera; in altre civilizzazioni, ove tali critiche dell’arte erano sconosciute, le energie furono riversate unicamente nello sforzo creativo. E questo è proprio il caso dell’antico Egitto, i cui artisti non badavano alle etichette ma alla sostanza delle cose poiché alla base di tutto questo c’era la parola.

Foto 3. Tutankhamon a caccia di uccelli nella palude (la sconfitta del male), accompagnato dalla moglie, che incarna la Dea. A destra, il faraone, pronto al cammino nell’aldilà, ancora debole sul percorso della rinascita, viene amorevolmente sostenuto e accompagnato dalla moglie, a un tempo vedova umana, regale, e Dea, verso l’ingresso dell’aldilà, per il percorso di rigenerazione; Museo del Cairo (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
  1. Parola.

Cos’è la parola? Nella nostra mente occidentale purtroppo è sempre di più un vuoto insieme di suoni che trasforma il pensiero in rumore intelligibile; la tendenza è quella di farne un contenitore – dall’aspetto più o meno bello – sempre più inconsistente.

Il piacere edonistico della parola la svuota del suo potere iniziale, simbolico, che rinvia a un più complesso mondo interiore. Il suo valore, sempre nella nostra mentalità, varia molto a seconda del paese, dell’educazione, della cultura locale e dei singoli individui. Ma anche nei casi migliori, in cui si dia un significato enorme alla parola, esso non si avvicinerà mai al valore che aveva per gli Egizi.

In effetti, per il popolo dei faraoni la parola e quanto le era connesso avevano il potere più grande: quello della creazione. Lo stesso demiurgo menfita, Ptah, crea con la parola l’intero universo (“e in principio fu il Verbo” è un concetto egizio).

Il nome di una cosa evoca, crea, è la cosa nominata; solo pronunciare il nome di una cosa vuol dire crearla. La vita degli egizi è permeata da questi concetti; concetti che per estensione sono trasposti nell’immagine (che è parola scritta o disegnata) dando un potere creatore tanto alla scrittura geroglifica quanto alle raffigurazioni tombali o templari. Così la scrittura, gli stessi singoli segni geroglifici, erano medw-netjer, “parole divina”. Essi possedevano in sé la forza della parola, erano il seme in cui era racchiusa la piena potenza della creazione. Possederne la chiave voleva dire avere accesso alle più complesse possibilità del mondo divino: la parola, scritta o letta, poteva creare l’offerta del semplice pane per il defunto o la resurrezione e la rinascita alla vita eterna.

Per questo fine nacque e si sviluppò la scrittura, che inizialmente serviva solo per le iscrizioni celebrative. La stretta connessione fra scrittura e immagine è provata dal fatto che in antico egizio, benché il ricchissimo lessico avesse molti vocaboli per entrambe le parole, generalmente si impiegava una sola parola per “scrittura” e “disegno”.

Foto 4. Tavolozza di Min, ove appare lo stendardo di questo dio, che poi diverrà un vero geroglifico; questi simboli sono già da considerarsi un linguaggio magico-religioso, veri proto-geroglifici (© Archivio lezioni CRE/Maurizio Damiano).
Foto 5. TAVOLOZZA “DELLE CITTÀ”, O LIBICA. Su una faccia vediamo la rappresentazione simbolica di una conquista: animali (potenze simbolizzate o nomi di conquistatori) demoliscono le mura di città con i geroglifici dei nomi. Sull’altra faccia si vede un corteo di asini e arieti, bottino di una campagna egizia; in basso degli ulivi e il geroglifico interpretato come il nome della Libia, di cui la tavolozza celebrerebbe la conquista. Fine Predinastico, 3150 a.C.; scisto; alt. 19 cm, lar. 22 cm; MEC, JE 27434=CG 14238 (© Archivio lezioni CRE/Maurizio Damiano).
Foto 6. TAVOLOZZA DI NARMER. Questa tavolozza da belletto è uno dei documenti più celebri d’Egitto. Essa non rappresenta solo un’opera d’arte di squisita fattura, ma anche un documento storico di fondamentale importanza: il sovrano, che regnò fra il 3185 e il 3125 a.C., vi è infatti raffigurato in atto di massacrare dei nemici che dovrebbero essere gli Egizi del Delta, il cui capo sconfitto ha nome Wash. Per la prima volta, con questo reperto appare in Egitto il faraone con le due corone: Narmer indossa la corona bianca dell’Alto Egitto su una faccia e quella rossa del Basso Egitto sull’altra, rappresentando dunque il più antico documento in cui un re rivesta gli attribuiti di sovrano delle Due Terre; si tratterebbe dunque del vero documento e monumento commemorativo sull’unificazione del paese. Vi appaiono anche alcuni semplici geroglifici e le regole compositive che saranno caratteristiche della civiltà del Nilo per più di tre millenni. Dinastia 0-1, da Hierakonpolis, grovacca, alt. 64 cm, lar. 42 cm; MEC, JE 32169=CG 14716.; Museo del Cairo (© Archivio lezioni CRE/Maurizio Damiano).
Foto 7. Il dio Thot, qui a testa di ibis, era l’esecutore della parola creatrice del demiurgo Ptah. Fu dunque considerato il patrono della parola, dei medw netjer, e quindi degli scribi e delle scienze, lettere della cultura in generale. La foto lo rappresenta nelle sale nord di Hatshepsut, a Karnak (© Archivio lezioni CRE/Maurizio Damiano).
Foto 8. I medw netjer (© Archivio lezioni CRE/Maurizio Damiano).
Foto 9. I medw netjer più potenti. Vediamo qui i Testi delle Piramidi nell’anticamera della piramide di Unis; si trattava dei più potenti testi magico-religiosi egizi, atti a rendere il faraone più potente degli stessi dèi. Si tratta dei testi religiosi più antichi al mondo che ci siano giunti (gli originali, inizialmente tramandati oralmente, poi forse su papiro, e ormai scomparsi, devono risalire alla preistoria, a giudicare da certi passi (© Archivio lezioni CRE/Maurizio Damiano).
Foto 10. Un esempio di medw netjer. I geroglifici egizi nascono in quella terra, come testimoniato da molti di essi, che raffigurano animali e piante dell’area. Qui vediamo l’avvoltoio, da cui fu derivata l’aleph (disegni di H. Carter; © Archivio lezioni CRE/Maurizio Damiano)
Foto 11. Ricostruzione 3D della piana di Giza con le piramidi. Anche qui vale il concetto di creazione: le piramidi racchiudono un insieme di concetti che partono dalla preistoria e che, sviluppandosi nel tempo, si accumulano senza andar perduti: così troveremo l’antico tumulo delle tombe predinastiche (il tumulo primevo), la mastaba (il palazzo reale), la piramide a gradoni (mastabe sovrapposte, scala per il cielo) e il tutto racchiuso nella forma della piramide perfetta (benben, tumulo primevo e raggio di sole pietrificato); tutti questi, e molti altri concetti, non sono solo teologia o architettura, ma sono vere parole divine e dunque creazione di una realtà per il mondo divino; ciò che rende le piramidi non semplici tombe, ma vere macchine di eternità che devono dare non solo la vita eterna al faraone, ma renderlo divino affinché – società etica egizia! – possa continuare a compiere il suo dovere di hem, di servo divino; ossia aiutare il gregge di dio (l’umanità) a mantenere la Maat perché la Creazione si perpetui ogni giorno (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Foto 12. Sala ipostila del tempio di Esna, esempio templare di epoca greco-romana. Il tempio egizio era esso stesso estensione del concetto di creazione. Era micro- e macrocosmo, rappresentando l’universo, la Creazione. In esso era il tumulo primevo come la foresta primordiale (la sala ipostila), la summa della creazione e l’essenza dell’Umano. E, soprattutto, Verbo trasposto in pietra, perpetuava con la sua esistenza la creazione e la Maat (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Foto 13. Ramesseum: angolo nordest del secondo cortile e sfilata degli Antenati (19a dinastia, Ramses II); ogni dettaglio dei templi ha un suo significato creatore: dall’altezza delle colonne (16 cubiti, ossia 8 metri, l’altezza della piena ideale) al loro numero (nella sala ipostila ripete il numero dei mesi dell’anno e dei decani astronomici, ricreando e mantenendo così ciò cui si riferiscono. O, come nel caso della sfilata degli Antenati, si ricordano i faraoni del passato rafforzando il principio di regalità (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
  1. Parola e “arte”.

Una logica estensione di queste idee è l’applicazione della parola, del segno scritto, all’arte. In realtà gli stessi geroglifici sono nati prima come disegni che come sistema scrittorio; il nucleo era il medesimo: la parola, espressione del pensiero creatore, si fa tangibile nei tratti del disegno, del rilievo, della scultura (che è disegno tridimensionale); e quando nascono le prime immagini, le più antiche rappresentazioni (su graffiti o pitture rupestri, pitture vascolari, palette, placche, o come decorazioni di utensili, tombe o tessuti), esse sono già espressione di racconto, di parola figurata, già intesa e creata come magica realizzazione dell’eternizzare l’evento compiuto e commemorato.

Pertanto, pittura e scultura avevano significato solo rispetto alla magia religiosa, non per sé stesse. Lo scultore si chiamava: “colui che provoca la vita”, e la scultura era “dare la nascita”. Le immagini non erano mere copie della vita, ma erano imbevute di vita, preservavano l’esistenza della persona, della cosa o dell’azione per un periodo senza fine.

Se la mummia era danneggiata o persa il suo ka (il doppio spirituale, l’energia della vita, l’energia cosmica che legava ai ka del passato, presente e futuro, la scintilla divina donata dalle divinità stesse all’uomo) poteva trovare rifugio nella statua.

Le statue poste nei templi come offerte votive servivano affinché il donatore potesse partecipare ai rituali di donazione di vita. Le pitture tombali servivano a perpetuare le proprietà del defunto per l’eternità. Ciò che gli Occidentali di oggi chiamano simbolo era per gli Egizi realtà.

Foto 14. Hapy reca i suoi doni. Hapy era non il Nilo deificato, bensì più precisamente l’incarnazione dello spirito della piena del Nilo. Dal tempio di Ramses II ad Abydos, 1a sala ipostila, parete Nord. Scene come questa, accompagnate dai geroglifici quasi onnipresenti, assicurano fecondità e prosperità al Paese (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Foto 15. Nella foto vediamo una scena sul soffitto della camera funeraria della tomba di Sennedjem (TT1, a Deir el Medina): vi si vedono Sennedjem e la moglie, Iyneferti, che ricevono pagnotte, bevande e altre offerte dalla “Dea del Sicomoro”, ossia Nut che sorge dall’albero. Come in tutti gli altri casi, anche qui si tratta di una vera realtà nella dimensione divina: i defunti vedranno perpetuata l’offerta e la protezione divina per l’eternità (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
  1. Scelte stilistiche e divina perfezione.

Le immagini divine contenevano in sé il potere della realtà. Erano condizionate da questa filosofia anche le scelte stilistiche; la loro ragion d’essere risiede nella filosofia artistica egizia legata alla religione: la statua nasce dal dialogo dell’uomo con l’aldilà; è ricettacolo dell’anima divina quando si tratti della statua di divinità, sostituto del corpo ove sia destinato a ricevere l’anima del defunto in caso di deterioramento del vero corpo mummificato e, come quest’ultimo, la statua veniva “svegliata” con il rituale dell’Apertura della Bocca; inoltre, nel conservare la staticità del blocco originale da cui la statua è ricavata si attribuiscono al soggetto riprodotto le qualità del blocco stesso, di eternità e staticità.

Il geroglifico, che è insieme disegno, rilievo e pittura, integra sempre la composizione: la scrittura e l’immagine si completano a vicenda per consentire a quella che noi chiamiamo arte di svolgere la funzione, magica, che gli egiziani le attribuivano.

Quanto all’evoluzione stilistica, che si parli di templi grandiosi o di umili tombe rupestri, di palazzi reali, di statue orgogliose o di dipinti policromi, tutto ciò che oggi possiamo osservare dell’antico Egitto ci parla di una civiltà in cui, al di là degli indissolubili legami con la magia religiosa, con la spiritualità, la ricerca del bello si accompagnò sempre ad una ricerca dell’armonia e delle regole auree che a quell’armonia portavano. L’apparente immobilismo dell’arte egizia deriva in parte dall’uso del canone, ossia lo schema fisso utilizzato per ottenere le armoniche proporzioni di figure umane, tanto nelle statue quanto nelle pitture o nel rilievo. Similmente si osserva nell’architettura la medesima ripetizione di schemi, elementi, decorazioni.

Questo perché all’inizio dei tempi il mondo, sortito dalla mente e dalla parola degli dei, non poteva che essere perfetto come ogni divina creazione; dunque tale perfezione andava garantita, conservata nei millenni. In questo articolo e nei successivi ho volutamente scelto di lasciare spazio alle immagini, circoscrivendo i commenti delle mia mente occidentale, per fornire una semplice guida ai lettori; ho scelto di lasciar parlare gli Egizi, con le loro opere, con le loro idee. Bisognerà, per comprendere quell’antico mondo, abbandonare le proprie idee preconcette, il proprio senso critico da Occidentali, e lasciarli andare, svuotare la mente permettendo all’arte egizia, allo spirito dei faraoni, di penetrare in noi senza preconcetti, in un’anima tornata vergine; permettere alle opere di parlarci con le loro forme, con i loro colori, perché quei medw-netjer, quelle parole divine trasposte in arte possano ancora essere accolte in noi e trasmetterci un messaggio che viene dall’eternità dello spirito umano e, chissà, forse divino.

Foto 16. La celebre maschera aurea di Tutankhamon. Essa ritrae i tratti reali del faraone. Non per ragioni estetiche o artistiche, perché era destinata a non essere mai più vista dai mortali, ma solo dagli dèi e, se non avesse riprodotto fedelmente i tratti del faraone, gli avrebbe precluso l’aldilà. Anche in questo caso, non si tratta di mera “vanità artistica”, di aspirazione al bello, ma della funzione fondamentale di perpetuare i tratti, e dunque la vita eterna del faraone, e di nessun altro, nel caso specifico (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Foto 17. Il dio Amon con il volto di Tutankhamon; a sinistra, così come è stato visibile per decenni; a destra, il volto dopo il restauro seguito al ritrovamento del naso mancante. Altro grande simbolo del concetto del Divino universale, inafferrabile e inconcepibile per l’umanità, è Amon. Uno degli inni dedicatigli recita: “tu, che hai 99 nomi, ma il tuo vero nome è ‘Amon’“. Ora, cosa vuol dire Amon? Vuol dire… “nascosto”. Noi non possiamo conoscere la realtà del divino, che resta a noi nascosto. Raffigurare la divinità con il volto del sovrano regnante ha sempre la funzione di perpetuare a doppio senso la creazione e ciò che vi è connesso: il faraone rafforzerà la propria natura divina, e il dio proteggerà il re e il paese (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Foto 18. Statuetta di Maat in lapislazzuli e oro; Museo Egizio del Cairo. Concetto fondamentale nel pensiero egizio, la Maat è l’equilibrio cosmico che bisogna mantenere tutti i giorni. Le sue rappresentazioni non hanno una vacua funzione “artistica”, ma sono deputate a mantenere l’ordine cosmico (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
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Maurizio Damiano

Egittologo, archeologo, Maurizio Damiano è oggi in Italia e all’estero un’autorità in materia, un nome associato a numerosi scritti, a tante spe­dizioni, organizzate e dirette in prima persona, un’attività scientifica ad alto livello intrapresa con la caparbietà e la passione che soltanto i sici­liani possiedono, quelli che sentono scorrere nel­le vene il fuoco dell’Etna, e fin da piccoli sono av­vezzi ad inerpicarsi per i suoi impervi sentieri.
Nasce a Randazzo nel 1957, i genitori sono due medici, l’ambiente familiare piuttosto aperto e stimolante, non mancano i viaggi ed i riferi­menti culturali, e poi c’è il nonno, Antonio Petrullo, con i suoi ri­cordi dell’Africa, a gettare inconsapevolmente un seme destinato a germogliare con gli anni.
Né va dimenticato lo zio materno, Alfio Petrullo, geniale scrittore, poeta e ricercatore del Tutto che pone i semi di un’apertura mentale, all’epoca di certo inusuale, nella mente del giovanissimo Maurizio.
Quest’ultimo fre­quenta la scuola statale, le medie al San Basilio, ed il Liceo, dove incontra, come professore di Storia dell’Arte, don Virzì, ed ha modo di affinare, nei lunghi colloqui con lui, la già grande passione per l’archeologia, nata probabilmente dalla fascinatio esercitata su di lui da bambino dagli spettacoli al Teatro Greco di Siracusa che vedeva assieme ai genitori; una passione per l’archeologia indirizzata e resa più solida dalla preparazione con don Virzì, e che Maurizio esterna esplorando con gli amici il territorio circostante.
A quel tempo colti­va anche l’hobby della pittura.
Poi la svolta: a 17 anni, assieme alla famiglia, lascia Randazzo, si iscrive a Medicina sotto la pressione dei genitori, ma poi la lascerà per Scienze naturali all’Università di Pavia, ma si laurea nell’88,perché nel frattempo premo­no altri interessi: la scintilla scocca quando visita il Museo Egizio di Torino, e ne incontra il diretto­re, Silvio Curto, poi sovrintendente per le Anti­chità Egizie in Italia, sotto la cui guida inizia gli studi di Egittologia.
Da quel momento ha incon­trato la sua vocazione e la sua strada.
Si specializ­za in Archeologia Egizia; poi in Storia ed Archeo­logia Nubiana, tiene corsi e seminari, diventa col­laboratore del Museo Egizio di Torino, e dal 1998 inizia l’attività di docente all’Università Aperta di Imola.
A quella teorico scientifica si affianca un’attività pratica frenetica ed incessante: fonda e coordina il Progetto Nubia (1979-1988), finanziato negli anni da vari sponsor, tra cui il ministero per gli Affari Esteri e l’istituto Italo-Africano, lavora in Sudan con varie agenzie dell’ONU; dal 1979 effettua ri­cerche nei deserti d’Egitto e Nubia.
La Nubiologia diviene la sua prima specializzazione, il «Progetto Nubia», infatti, è un progetto esplorativo e di ca­talogazione delle antichità della Nubia sudanese, grazie al quale si è resa possibile la creazione del primo archivio fotografico delle antichità nubia­ne e delle civiltà limitrofe (ad oggi uno dei più grandi archivi al mondo: oltre 1.000.000 di immagini dell’Egitto, Libia, Giordania, Israele, Libano, Siria, ecc., e una vastissima cartografia archeologica computerizzata).
Al nome di Maurizio Damiano sono lega­te scoperte e rinvenimenti di interesse storico: numerose necropoli meroitiche, un tempio dello stesso periodo, necropoli dell’epoca di Kerma e centinaia di siti preistorici.
Tra l’altro è ideatore e coordinatore generale del «Progetto Prometeo», di ricerca nei deserti d’Egitto e Sudan, in seno al quale ha esplorato per primo le aree più lontane del Deserto Occidentale egiziano, realizzandone la cartografia; ha scoperto l’oasi di Zerzura (quel­la cercata invano dal protagonista del film II pa­ziente inglese), la «pista di Alessandro Magno», un villaggio minerario egizio, cave, miniere, for­tezze romane… colmando inoltre varie lacune storiche.
Ha contribuito a fondare il CISE (Centro Italiano Stu­di Egittologici) di Imola e fondato il CRE (Centro Ricer­che Egittologiche) di Verona, organismo tutt’oggi da lui diretto che, fra l’altro, si occupa di realizzare la ricostruzione in realtà virtuale di intere aree archeologiche, e che ha ricevuto la concessione per la missione permanente di ricerca e scavo nel deserto presso la Valle dei Re e la costruzione di una sede a Tebe, poi mutata nell’ampia concessione per l’intero Deserto Occidentale egiziano, in cui le ricerche sono state portate avanti sino al 2011 e poi interrotte per le vicende politiche e la proibizione da parte dei militari a qualsiasi accesso nell’area, ritenuta pericolosa per la situazione libica.
Nel frattempo Maurizio Damiano, che è membro di varie associazioni cul­turali internazionali, organizza mostre, come quella del 1984-85 nella Galleria del Sagrato a Milano, tiene cicli di conferenze, partecipa a con­vegni, prende parte a servizi radiofonici e televisi­vi per la Rai e le Tv private, scrive libri, relazioni ed articoli.
Ne ha pubblicato circa un centinaio, per riviste italiane ed estere, quali Archeologia Viva, Historia, Farmacia Naturale, Nigrizia.
Fra le pubblicazioni, che ad oggi contano 21 volumi in Italia e all’estero, ricordiamo:
Oltre l’Egitto: Nubia (Electa, 1985), Il sogno dei faraoni neri (Giunti, 1994), Egitto e Nubia (Mondadori, 1995), Dizionario en­ciclopedico dell’antico Egitto e delle civiltà nu­biane (Mondadori, 1996), la grande opera divul­gativa Egitto.
L’avventura dei faraoni fra storia e archeologia, in quattro volumi, edita anche a fa­scicoli per la Fabbri, la realizzazione di due Cd­-rom: I tesori del Nilo (1998) e La Valle ‘dei Re (1999), e i due DVD di 150 minuti: Le meraviglie d’Egitto. (2004).
Nell’immaginario collettivo l’archeologo è sempre stato una figura affascinante, che vive esperienze ed avventure misteriose.
Ma oggi il nostro personaggio, oltre alla vanga, usa anche il computer, e per condurre le sue ricerche e realiz­zare le sue opere si avvale di tecnologie moderne e sofisticate.
A dispetto di quanti, nell’era di In­ternet, vorrebbero mandare in soffitta tutte le di­scipline «antiche», l’archeologia oggi ha avuto un nuovo impulso, e sembra po­tere registrare ancora notevoli progressi proprio grazie al sussi­dio delle scienze informatiche e multimediali. Sposa­to dal 1987 e separatosi nel 2014 per il ritorno della ex moglie nella città natale (Parigi; e come non comprendere la nostalgia del paese natìo?), è padre di Louise e Colette

(Tratto dal sito http://www.randazzo.blog/2017/09/04/maurizio-damiano/ )

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