Nell’ambito del ciclo di conferenze promosse e organizzate dal Ministero della Cultura, dalla Regione Emilia-Romagna e dal Comune di Piacenza dal titolo “Viaggio nel tempo con l’Archeologia – con i direttori dei principali musei italiani… a partire dalla Sezione Archeologica di Palazzo Farnese” ospitate dal Laboratorio Aperto di Piacenza, il Dott. Christian Greco, Direttore del Museo Egizio di Torino dal 2014, ha tenuto un’interessante conferenza sulle relazioni tra i Musei, la società e la tecnologia.

Partendo da una delle definizioni proposte per “Museo” in occasione della XXV Assemblea Generale ICOM tenutasi a Kyoto nel 2019, la quale afferma “I musei sono spazi di democratizzazione, inclusivi e polifonici e sviluppano il dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, conservano reperti e artefatti, li custodiscono per la società, salvaguardano ricordi diversi per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone.”, il Dott. Greco ha più volte sottolineato come i Musei debbano essere spazi aperti, luoghi cerniera per limitare gli ostacoli della formazione del singolo.

Negli anni passati, infatti, i Musei sono sempre stati visti come ambienti elitari, dove solo gli esperti in materia potessero effettivamente sentirsi a proprio agio e comprendere a pieno le opere esposte. In realtà, non deve essere così, in quanto i Musei non richiedono nessun titolo di accesso, nessun diploma, nessuna laurea, ma anzi, sono strutture immerse nella società la quale è in continuo cambiamento e per questo anche tali luoghi devono modificarsi parallelamente alla società.

I Musei sono poi luoghi di memoria collettiva in un duplice senso: custodiscono la memoria del passato, ovvero gli oggetti e i manufatti, ma creano anche memoria attraverso la relazione con la società in primis, con la ricerca e con la conoscenza. Il Dott. Greco ha utilizzato il termine latino cura per spiegare l’atteggiamento che un Museo deve avere nei confronti dei suoi reperti: prendersi cura dei propri manufatti vuol dire studiarli, tutelarli, ma soprattutto raccontarli e renderli accessibili a tutti, di modo che tutti possano conoscere quel pezzo di storia racchiuso in essi.

Non a caso, il Museo Egizio di Torino è uno dei pochi musei ad aver cercato di condividere quanto più possibile il suo patrimonio: online sono caricati i 3800 reperti conservati, con relative schede e immagini scaricabili gratuitamente, senza dover pagare i diritti del copyright. In aggiunta, sono accessibili a tutti anche 10000 frammenti di papiri sui 17000 della collezione del museo, riportati con la rispettiva trascrizione e traduzione.

In questo senso, la tecnologia deve essere un aiuto, un punto di partenza dal quale far sorgere nuove domande: solo in questo modo un museo può essere “Museo di ricerca” – ovvero un luogo dove le biografie degli oggetti vengono studiate, rese visibili e fruibili – e nel contempo un “Museo partecipativo” – vale a dire un luogo interattivo, dove il visitatore possa entrare in relazione con ogni oggetto esposto.

Un caso esemplare di questa dicotomia è evidente nel recente studio effettuato sulla mummia di Kha in collaborazione con il British Museum e l’Università di Stoccolma: proveniente dalla necropoli di Deir el-Medina e risalente alla XVIII dinastia, ha una storia molto particolare. Infatti, quando nella campagna di scavo del 1906 Ernesto Schiaparelli, direttore del Museo Egizio, scoprì la tomba di Kha e Merit con le rispettive mummie, decise di non sbendarle perché convinto che in futuro si sarebbero trovati modi alternativi all’intervento invasivo sul corpo del defunto. La sua decisione è stata decisamente lungimirante: gli esami radiografici e le TAC hanno evidenziato non solo che i due corpi non sono stati eviscerati, il che spiega l’assenza dei vasi canopi dal corredo, ma anche che all’interno del bendaggio entrambi celano dei magnifici gioielli.

La tecnologia deve quindi essere un punto di partenza per la ricerca, deve far nascere nuove domande e ricreare quindi un nuovo Umanesimo, grazie al quale ci si deve interrogare sulla vita degli oggetti, sulla loro provenienza e sulle relazioni che hanno avuto e che hanno nella contemporaneità.

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Mara Zoppi

Appassionata fin da piccola alla storia e all’archeologia, dopo la maturità classica si iscrive alla facoltà di Lettere – curriculum Scienze dell’Antichità – presso l’Università degli Studi di Milano, laureandosi nel 2019 con una tesi di carattere archeologico-egittologico dal titolo Imhotep scriba e medico: dall’Egitto del III millennio a.C. ad oggi. Si iscrive successivamente alla facoltà di Archeologia dell’Università degli Studi di Milano dove si laurea nel 2021 con votazione 110/110 e lode sviluppando una tesi in ambito egittologico dal titolo La Casa della Vita nell’Egitto Antico: luoghi, riti, funzionari.

Ha partecipato a due laboratori di scavo archeologico: il primo sul sito di Urvinum Hortense a Collemancio di Cannara (PG) di epoca romana con l’Università degli Studi di Perugia; successivamente sul sito archeologico di Nora (Pula, CA) nella sezione competente all’Università degli Studi di Milano, quindi di epoca romana, contribuendo anche alle operazioni di post-scavo.

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