E’ il 58 a.C. quando Marco Tullio Cicerone è costretto ad abbandonare Roma per un difficile esilio, che lo terrà lontano dalla famiglia e dalla politica attiva per un anno. I motivi sono noti: dal 63, anno della congiura di Catilina da lui smascherata in Senato, riunito per l’occasione nel tempio di Giove Statore, Cicerone era incalzato dai suoi nemici: i populares. Il tentativo del nobile romano era stato surrettiziamente sostenuto da Cesare e Crasso, che nel momento del pericolo si erano prontamente sfilati dall’abbraccio mortale. Ma nulla era stato dimenticato: e fu Cesare, diventato nel 60 triumviro assieme a Crasso e a Pompeo, a sollecitare il tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro affinché si servisse dello strumento della rogatio per condannare chi, come Cicerone, aveva di fatto condannato a morte un civis romanus senza la provocatio ad populum, l’appello al popolo.

La Battaglia di Pistoia: il ritrovamento del corpo di Catilina nell’opera di Alcide Segoni.

 

E’ cosa nota che la provocatio ad populum poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena detentiva. Illegale, l’atto di Cicerone di condannare a morte i congiurati; ma illegale anche la rogatio, applicata in questo caso – e strumentalmente – in maniera retroattiva (erano passati 5 anni dalla congiura di Catilina). Catilina e i suoi seguaci trovarono la morte a Pistoia, in una drammatica battaglia dall’ inevitbile esito, descritta dalla penna del cesariano Sallustio, che non nasconde la sua ammirazione per il coraggio dimostrato dal nobile romano.

I seguaci che Catilina aveva lasciato a Roma, Lentulo e Cetego, avrebbero potuto avere salva la vita: Cesare, allora pontefice massimo, propose per loro confino e confisca dei beni, ma Catone Uticense convinse tutti della ineluttabilità della pena di morte.

Cicerone, dunque, abbandonò Roma e con essa la moglie Terenzia e i figli, la tanto amata Tullia e il figlioletto Marco, nati rispettivamente nel 76 e nel 65.

L’oratore aveva sposato Terenzia nel 77, quando era già trentenne: reduce da un viaggio in Grecia a fini di studio e di salute, ma anche legato alla sua seconda causa, la Pro Sexto Roscio Amerino. In quest’ ultima Cicerone si era inimicato il potente Lucio Silla, smacherando i piani delittuosi del suo liberto, Crisogono. L’ allontanamento da Roma, dunque, risultava opportuno anche sul piano politico. Terenzia apparteneva ad una famiglia ricca ed influente, dunque era la donna adatta per un uomo ambizioso come Cicerone, che aspirava a farsi apprezzare dall’opinione pubblica.

La statua di Cicerone davanti al Palazzo di Giustizia di Roma. Mstyslav Chernov, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

La partenza dell’ oratore di Arpino è un vulnus non solo per lui, ma anche per Terenzia, privata dei suoi privilegi, della sua casa sul Palatino (abbattuta) e dei beni maritali, che le vengono confiscati, e “marchiata” dai segni del lutto. Terenzia adesso è “vedova” di un nemico del popolo romano e per questo sceglie di rifugiarsi dalla sorellastra Fabia, nella dimora delle vergini Vestali. Sa di avere una mole enorme di responsabilità che incombono su di sé: deve gestire la famiglia in un quadro di gravi difficoltà economiche, ulteriormente aggravate dalla devastazione e dal saccheggio delle proprietà del marito, deve tutelare i figli e proteggere la propria incolumità, messa a repentaglio dalla situazione politico-sociale venutasi a creare. In quel periodo, contrassegnato da torbidi, Roma era in ostaggio delle bande di Publio Clodio e di Milone, il suo avversario (e futuro assassino).

Così Cicerone scrive al fratello Quinto in una epistola del 13 giugno del 58, inviata da Tessalonica (Ad Quintum fratrem, III, 3,3),  illustrandogli le cause che lo hanno costretto a lasciare Terenzia a Roma:

Quid quod mulierem miserrimam, fidelissimam coniugem, me prosequi non sum
passus, ut esset quae reliquias communis calamitatis, communes liberos tueretur.

Che dire del fatto che non ho sopportato che mi accompagnasse la mia sfortunatissima moglie, la mia fedelissima compagna, affinché ci fosse chi proteggesse ciò che restava della comune disgrazia.

Cicerone è consapevole dei problemi a cui andrà incontro la moglie. Glielo aveva confessato in una lettera di qualche mese antecedente, scrittale quando stava per imbarcarsi per la Grecia da Brindisi (Ad Familiares, XIV, 4, 4):

Tu quid egeris nescio, utrum aliquid teneas an, quod metuo, plane sis spoliatam.

Cosa tu faccia lo ignoro, se possiedi qualcosa o, come temo, sia stata spogliata di tutto.

Cicerone teme il vero: che cioè Terenzia, per tutelare i figli e la carente situazione economica della famiglia, si sia “spogliata” dei suoi beni. E non dovevano essere cosa di poco conto: si trattava di un patrimonio ingente, costituito da una vasta proprietà con bosco e pascoli, un possedimento terriero pertinente all’ager publicus che, tuttavia, era stato conteso da un tale Mulvio, e altri immobili e case, la cui rendita ammontava a circa 80.000 sesterzi l’anno. Tuttavia le spese da sostenere dovevano essere notevoli, tanto da spingerla, nel novembre del 58, a progettare la vendita del vicus, suscitando l’immediato disappunto di Cicerone, che temeva che ciò compromettesse in futuro la condizione economica del figlio.

Quod ad me, mea Terentia, scribis te vicum vendituram, quid, obsecro te (me miserum!), quid futurum est? et si nos premet eadem fortuna, quid puero misero fiet? …Tantum scribo: si erunt in officio amici, pecunia non deerit; si non erunt, tu efficere tua pecunia non poteris. Per fortunas miseras noster, vide ne puerum perditum perdamus. (Ad Familiares, XIV, 1)

Terenzia cara, mi scrivi che hai intenzione di vendere un’intera proprietà, ma ti supplico, dal fondo della mia disperazione, di considerarne le conseguenze. E se il destino dovesse continuare a perseguitarci, che ne sarà del nostro povero ragazzo?…Mi limito a questo: se potremo contare su amici fedeli, il denaro non ci mancherà; se non lo saranno, non potrai farcela col tuo denaro. Nel nome delle nostre deplorevoli condizioni, cerca di non rovinare un ragazzo già in rovina.

Appare evidente che le epistulae ciceroniane, anche se non scritte per la pubblicazione, sono un capolavoro di perfezione stilistica e formale e anche questa appena citata non si sottrae alla norma. Ma, al di là della cura formale, connaturata nell’ oratore e che lo porta a rispettare le regole della composizione anche in produzioni non destinate alla pubblicazione, risulta palese la sincera preoccupazione dell’oratore per la situazione della famiglia e la sorte futura del figlio Marco.

Tullia. Credits: https://www.bildarchivaustria.at/Pages/ImageDetail.aspx?p_iBildID=3970021

La sua speranza di essere sostenuto a livello economico dagli amici fedeli appare alquanto velleitaria e tale si manifesterà nella realtà. Lo stesso Cicerone ne ha consapevolezza e il passaggio “si non erunt…” lo dimostra con chiarezza. Teme fortemente che la vendita della proprietà sia inutile, perché inadeguata in ogni caso a ripianare la situazione economica della famiglia, già traballante. E anche se Terenzia dovesse privarsi di parte del suo patrimonio, ciò non basterebbe  a governare con decoro la famiglia.

Dalla lettura completa dell’ epistula pare di dedurre un sentimento ambiguo nei confronti della moglie, in bilico tra ammirazione per le notizie che gli amici gli riportano, tutte plaudenti alla determinazione e all’ energia fisica e morale palesata da Terenzia in questo difficile frangente…

E litteris multorum et sermone omnium perfertur ad me incredibilem tuam virtutem et fortitudinem esse teque nec animi neque corporis laboribus defatigari.

Dalle lettere di molti e dai discorsi di tutti mi giunge notizia che sei di una forza d’animo e di un’energia incredibile e che non sei abbattuta dalle fatiche fisiche e morali.

…e contrarietà per l’autonomia comportamentale che la moglie dimostra nel governare una situazione certo non facile.

Terenzia, a leggere attentamente le lettere del marito, doveva essere donna indipendente e di non comune forza d’animo, tale da permetterle di risolvere questioni intricate quale la sottrazione degli schiavi alla confisca dei beni con una falsa rinuncia (manomissione) alla loro proprietà.

De familia liberata, nihil est quod te moveat. Primum tuis ita promissum est te facturam esse ut quisque esset meritus; est autem in officio adhuc Orpheus, praeterea magno opere nemo. Ceterorum servorum ea causa est ut, si res a nobis abisset, liberti nostri essent, si obtinere potuissent; sin ad nos pertinerent, servirent, praeterquam oppido pauci. Sed haec minora sunt.

 Per l’affrancamento dei servi non hai di che preoccuparti. Prima di tutto, ai tuoi hai promesso che ti saresti comportata secondo i meriti di ciascuno. E poi Orfeo è ancora in servizio; a parte lui, non ce ne sono tanti altri. Circa i rimanenti schiavi la prospettiva è che, in caso di confisca integrale dei miei beni, sarebbero miei liberti, purché l’avessero potuto ottenere; se invece rimanessero di mia proprietà, continuerebbero il servizio, con qualche calcolata eccezione per qualcuno. Ma questi sono problemi secondari.

 Non tanto secondari, a ben guardare: ad essere in ballo erano anche i beni dotali di Terenzia, sui quali esisteva il dubbio che la legge romana potesse esercitare la confisca, come era accaduto per quelli di Cicerone. L’oratore sembra in balia delle incertezze, afflitto per l’ esilio ormai prossimo- sta raggiungendo Cizico attraverso la Macedonia- e per la mancanza affettiva della famiglia a cui è profondamente legato, ma anche, di là delle proteste di stima e amore per la moglie, risentito per non essere stato consultato da lei nella questione. Terenzia di fatto riuscirà a risolvere la questione con l’aiuto degli amici, accettato a denti stretti da Cicerone.

A questi problemi si aggiungevano anche i rapporti poco sereni tra Marco Tullio e Quinto, suo fratello, e la di lui moglie, Pomponia, sorella del migliore amico dell’oratore, Tito Pomponio Attico.

Tito Pomponio Attico

Non sappiamo molto degli screzi tra i fratelli, ma appare di tutta evidenza che l’Arpinate abbia cercato più volte di smorzare i toni del contrasto tra le mogli, limitandolo a discordiae mulierum nostrarum (“screzi tra le nostre mogli”), di volerlo ridurre a “cose di donne” e dunque poco importanti. Potrebbe essere un’altra la spiegazione, però: è possibile che Quinto non abbia aiutato adeguatamente il fratello in esilio (o così il suo comportamento è stato interpretato da Marco Tullio, incline alla permalosità) o che si sia intromesso nella gestione della res familiaris, in mano a Terenzia.

Ma non era tutto: oltre ad appoggiare economicamente e psicologicamente suo marito e ad  occuparsi della situazione economica dei figli, Terenzia si dava un gran da fare anche nelle relazioni con gli amici e i sostenitori di Cicerone, affinché gli consentissero di rientrare a Roma.

Publio Clodio Pulcro

Altre faccende di non poco peso, tra cui la restituzione del terreno su cui sorgeva la casa incendiata sul Palatino, ponevano Terenzia in una situazione di grande esposizione personale. Un esempio fu l’accompagnamento coatto della donna alla sede dei tribuni della plebe, al cospetto di Publio Clodio. Perché Terenzia fu presa di peso dalla sua dimora e costretta a subire una simile umiliazione? Non se ne vedono ragioni coerenti. L’unica possibile è che Publio Clodio volesse intimorirla (qualcuno parla anche di violenza fisica, interpretando in questo senso il ripetuto uso da parte dell’oratore del verbo vexare), affinché smettesse di coinvolgere parenti e amici nel tentativo di far rientrare il marito dall’esilio.

Un altro momento della vita di Cicerone in cui il sostegno di Terenzia fu importante, ma meno significativo, fu durante la guerra civile. Al marito fuori Roma Terenzia si limita ad inoltrare i messaggi di personaggi politici, preoccupata probabilmente più del versamento della dote di Tullia al terzo marito, Gneo Cornelio Dolabella, e di far fronte alle esose richieste economiche di Marco, il figlio, e del marito lontano.

Il tono delle lettere appare decisamente diverso: se dieci anni prima l’oratore manifestava premura e sincero affetto per la moglie, uniti ad una grande stima per come stava gestendo una situazione tutt’altro che semplice,  adesso si percepisce dalle lettere una certa sfiducia, se non ostilità, verso di lei. Qualcosa si è evidentemente incrinato. Forse le differenze tra i coniugi cominciano a pesare: lei, Terenzia, è lontana dagli interessi culturali del marito, forte ma con una strana fragilità che le fa consultare anche troppo spesso gli indovini (di moda a Roma in quel periodo e anche in età imperiale, se dobbiamo dare ascolto ad Orazio), consigliera duranti i torbidi che hanno visto come protagonisti Clodio e il marito, che incita alla lotta contro il fazioso tribuno della plebe.

Una forzatura, in certo modo, provocata forse dalla gelosia verso Clodia, la bella sorella del tribuno, che probabilmente aveva messo gli occhi su Cicerone, non insensibile al fascino della donna, come si evince in qualche passaggio dell’ orazione “Pro Caelio”.

Clodia in un ritratto di Edward Poynter (1907). Il suo grande fascino fu decantato da Catullo nei suoi Carmi con lo pseudonimo di Lesbia.

I motivi attuali di sfiducia appaiono legati ancora una volta alla sfera economica: Cicerone nutre forti sospetti sul liberto della moglie, Filotimo (considerato da lui un imbroglione,  un merus φυρατής), procuratore della dote di Terenzia, che trascurava la gestione del patrimonio dell’oratore o forse sfruttava a suo vantaggio i dissidi tra i coniugi. La forza di carattere della donna si manifesta anche qui, nel non chiedere consigli né al marito né al fratello della cognata, Attico. Il marito non la prende bene:

Sed ad meam manum redeo; erunt enim haec occultius agenda. Vide, quaeso, etiam nunc de testamento, quod tum factum mallem cum illa quaerere coeperat. Non, credo, te commovit; neque enim rogavit, ne me quidem.

Ma riprendo a scriverti di mia mano; infatti ci conviene trattare queste cose un po’ più segretamente. Vedi, per favore, di interessarti del testamento che è stato steso quando lei (Terenzia, n.d.s.) cominciava a trovarsi in imbarazzo. Non credo che abbia fatto su di te opera di persuasione; non chiese il tuo consiglio e neanche il mio.

La situazione di Cicerone è in realtà difficile e la ricerca di denaro si fa sempre più ossessiva. Chiede insistentemente ad Attico di vendere i suoi vestiti, i mobili, l’argenteria, di riscuotere qualche credito. E proprio Terenzia si occuperà di riscuotere dagli Oppii ( o forse se li farà prestare: la vicenda non è affatto chiara) 20.000 sesterzi. Persa ormai la fiducia nella moglie, Cicerone arriverà ad accusare Terenzia, in una lettera del 6 agosto del 47 indirizzata all’amico Attico, di aver trattenuto per sé una parte della somma, pari a circa 2000 sesterzi. Il terribile dubbio che lo attanaglia, adesso, è che, se la moglie ha trattenuto una parte dei soldi per sé in un’operazione di modesta entità, cosa potrebbe avere fatto in situazioni economicamente più vantaggiose? Così si esprime con Attico:

Poi, relativamente a Terenzia, tralascio tutti gli altri punti dolenti, che sarebbero innumerevoli, ma ce n’è uno più scabroso di questo che passo a dirti? Tu le avevi chiesto di pagarmi con una lettera di cambio dodicimila sesterzi: a questo ammontava il residuo in contanti. Essa me ne ha inviati diecimila ed ha aggiunto la precisazione che la rimanenza era di tale entità. Se si è abbassata ad operare una detrazione relativamente modesta da una somma non ingente, puoi vedere chiaramente che cosa ha combinato nel caso di operazioni rilevanti (Cum hoc de parvo detraxerit, perspicis quid in maxima re fecerit, Ad Atticum, XI, 24).

Le lettere successive, fredde e concise, sono emblematiche di un rapporto ormai gravemente incrinato. Cicerone accusa Terenzia di affari poco leciti e di essersi approfittata in sua assenza delle possibilità offerta dalla gestione del patrimonio familiare, complice Filotimo. Queste saranno le cause che lo porteranno a chiedere il divorzio, nel 47. Quanto a Terenzia, lei ribatterà che il vero motivo era il desiderio da parte del marito di sposare la bella e ricca Publilia, di appena vent’anni. Lo fece nel 46 e non fu un matrimonio felice. Nel 45 morì l’amata Tullia e questo diede il colpo di grazia al già traballante ménage familiare. Terenzia si risposerà con lo storico Sallustio e forse ancora altre due volte, dopo la morte del secondo marito: con Messalla Corvino (matrimonio attestato da Plutarco), e da Vibio Rufo (matrimonio attestato da Girolamo, che forse la confonde con Publilia). Morì a 103 anni.

Advertisement
Articolo precedenteOsiride e Antinoo. Una morte per annegamento
Prossimo articoloTurchia: trovate ad Aizanoi teste di Afrodite e Dioniso
Annamaria Zizza

Mi sono abilitata in Italiano e Latino e in Storia dell’Arte, sono passata di ruolo per l’insegnamento dell’Italiano e del latino nei Licei nell’anno 2000/2001.

Sono attualmente in servizio dal 2007/2008 al Liceo Classico “Gulli e Pennisi” di Acireale CT, dove ricopro il ruolo di docente a tempo indeterminato nel triennio del corso C.

Ho frequentato con esito positivo i seguenti corsi di aggiornamento/formazione:

– Didattica della lingua italiana;

– Tecnologie informatiche applicato al PNI e al Brocca;

– Valutazione scolastica;

– Valutazione e programmazione scolastica;

– Sicurezza nelle scuole;

– Didattica della letteratura italiana;

– Didattica della letteratura latina;

– rogramma di sviluppo delle tecnologie didattiche;

– Didattica breve nell’insegnamento del latino;

– Comunicazione

– Per una didattica della lettura e della narrazione;

– Autori, collane, libri, progetti editoriali: valorizzare la scuola attraverso la lettura;

– La dislessia

Ho tenuto in qualità di esperto due corsi PON sulle abilità di base per l’Italiano e uno sui connotati profetici nella Comedìa dantesca; ho svolto il ruolo di tutor in altri corsi PON ministeriali.

Sono stata per tre anni funzione strumentale nell’area “Supporto ai docenti”, direttrice di laboratorio multimediale, catalogatrice Dewey nella biblioteca scolastica, bibliotecaria, RSU, coordinatrice e segretaria di Consiglio di classe con frequenza annuale. Ho elaborato e tenuto il percorso di ricerca-azione “Sopravvivere alla vita: istruzioni per l’uso” nell’ambito della DLC.

Ho partecipato a svariate iniziative culturali come relatrice: dalla tavola rotonda organizzata dal Comune di Acireale sul saggio della prof.ssa Ferraloro inerente il romanzo di Tomasi di Lampedusa “Il gattopardo”, a conferenze di argomento letterario presso scuole, al progetto “Dante nelle chiese di Acireale”, organizzato dal vescovado (con relativa Lectura Dantis), al festival Naxoslegge con un’altra lectura Dantis e a presentazioni di libri.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here