Al Cairo stanno cambiando tante cose. Tra queste la più visibile – sia dal punto di vista architettonico che mediatico – è la costruzione del Grand Egyptian Museum nei pressi delle Piana di Giza, dove sorgono le tre celebri piramidi egizie sorvegliate dell’enigmatico volto della sfinge.
La sua apertura dopo una serie di posticipazioni è stata ora fissata nel 2020 ed effettivamente i lavori stanno procedendo spediti, soprattutto per quanto riguarda l’immensa opera di restauro dei reperti che verranno esposti nelle sue sale.
Questo nuovo fermento culturale impone un ripensamento delle risorse, un ricollocamento dei reperti e una gestione delle strutture già esistenti. Diventa prioritaria dunque un’attenta progettazione di quei luoghi che per decenni hanno rappresentato un solido punto di riferimento per chiunque nel mondo abbia avuto a che fare con l’antico Egitto, sia per passione che per professione, che rischiano di subire un brusco quanto deleterio ridimensionamento delle loro funzioni.
Tra questi il più importante è senza dubbio il Museo Egizio di piazza Tahrir, progettato dall’architetto francese Marcel Dourgnon in stile neoclassico e costruito dagli italiani Giuseppe Garozzo e Francesco Zaffrani, ora oggetto di attenzione da parte dell’Europa. È stato infatti dato il via ad un interessante progetto denominato Transforming the Egyptian Museum of Cairo finanziato con 3.1 milioni di euro, che vede ancora l’Italia tra i protagonisti principali grazie all’impegno di una nostra prestigiosa istituzione museale: il Museo Egizio di Torino.
Gli altri enti europei chiamati a collaborare sono:
Musée du Louvre di Parigi
British Museum di Londra
Aegyptisches Museum di Berlino
Rijksmuseum van Oudheden di Leida
Bundesamt für Bauwesen und Raumordnung
IFAO
Istituto Centrale per l’Archeologia
e, ovviamente, lo stesso Museo Egizio di piazza Tahrir.
Per i dettagli del progetto vi rimando all’articolo pubblicato sulla pagina ufficiale del Museo Egizio di Torino, mentre noi facciamo un passo indietro e proviamo a raccontare come l’Egitto ha preso coscienza del proprio passato, cercando di creare uno strumento efficace che fosse in grado di tutelare attraverso la raccolta, la tutela e il restauro, ciò che le sabbie stavano liberando con tanta generosità.
Il viaggio a ritroso nel tempo ci riporta all’Ottocento, più precisamente alle prime luci dell’alba del 19 maggio 1798 e a quella lunga colonna di 400 navi con le vele spiegate che sta salpando da Tolone. A bordo Napoleone Bonaparte con la sua Armata d’Oriente e 168 savants ai quali dobbiamo ogni cosa, tutto ciò che riguarda l’antico Egitto.
A noi non interessa lo spessore dei sogni geopolitici del generale francese, quanto l’intensità di luce che ha acceso lo sguardo curioso di quel nutrito gruppo di uomini di scienza di cui facevano parte ingegneri, architetti, botanici, zoologi, geografi, disegnatori, cartografi…
Un insieme eterogeneo di persone accomunate da un irrefrenabile desiderio di partire senza neppure conoscere la meta, che per motivi di sicurezza non gli è stata rivelata. Come il giovane Pierre François Xavier Bouchard, che appartiene a uno speciale corpo militare nato da poco, gli aerostieri, in grado di sfruttare le potenzialità della recente invenzione dei fratelli Montgolfier, al comando del geniale inventore della moderna matita, Nicolas Jacques. È proprio Bouchard che nei pressi di Fort Julien dissotterra una pietra scura di circa sette quintali e mezzo con una faccia polita ricoperta di iscrizioni per lo più incomprensibili, poco distante dalla bella cittadina di Rosetta.
E poi Dominique Vivan Denon. Napoleone non lo vuole portare con sé perché già avanti con gli anni e per i suoi trascorsi con l’Ancient Regime, ma riesce ad imbarcarsi grazie all’amicizia con Giuseppina Bonaparte: le sue straordinarie avventure lungo la Valle del Nilo saranno determinanti per la nascita dell’Egittologia.
Sarà infatti il primo occidentale a posare un paio d’occhi competenti e capaci di stupirsi sulle imponenti vestigia dell’Alto Egitto, se pur ai ritmi e suoni di un’anomala guerriglia volta ad inseguire le agili cavallerie mamelucche sopravvissute alla Battaglia delle Piramidi. Nel suo diario annoterà: “Matita alla mano, passavo da un soggetto all’altro…Ma non avevo occhi né mani sufficienti, e il mio cervello era inadeguato, per osservare, disegnare e classificare quello che colpiva la mia attenzione. Provavo vergogna per l’inadeguatezza dei disegni con cui ritraevo un monumento tanto sublime”: i percorsi di quella guerriglia l’avevano condotto presso il tempio di Dendera.
L’esperienza dell’Armata d’Oriente, fallimentare sotto il profilo militare, apre definitivamente la strada verso l’antica terra dei faraoni grazie all’opera di uomini come quelli appena citati, il cui lavoro viene poi raccolto e pubblicato nelle opere imponenti che tutti noi conosciamo, soprattutto nelle versioni più economiche visto che gli originali sono diventati costosissimi pezzi d’antiquariato.
A questa favorevole e generale predisposizione verso l’Oriente si aggiunge una fortunata coincidenza. A partire dai primi anni dell’Ottocento diventa possibile viaggiare in Egitto con una relativa sicurezza grazie a Mohamed Ali, che tra il 1805 e il 1848 ricopre la carica di Viceré per conto dell’Impero Ottomano, di cui l’Egitto era una delle province. “J’avois toute ma vie désiré de faire le voyage d’Egypte…” diceva Denon. E potremmo estendere questa frase a una buona fetta di europei che dopo aver letto delle meraviglie d’Egitto, e grazie alle importanti riforme del nuovo pascià, intraprende un viaggio tutt’altro che agevole per raggiungere le acque del Grande Fiume Nilo, ancora libere di esondare e inondare di vita la terra. Kemet, la terra nera, come gli egizi chiamavano il loro amato Egitto.
Gli stessi consoli e diplomatici che hanno le loro sedi ad Alessandria incoraggiano adesso i propri concittadini a viaggiare in Egitto e a raccogliere le antichità per conto dei rispettivi Paesi.
Tra questi i due protagonisti più noti e attivi sono senz’altro Drovetti e Salt, con i rispettivi scagnozzi sguinzagliati per tutto l’Egitto alla ricerca di reperti egizi. È in questo contesto che nascono i primi nuclei delle collezioni egizie oggi disseminate in quasi tutti i musei europei, ciascuna con la propria storia, con i propri protagonisti.
Questa sorta di stagione di caccia dei monumenti antichi crea un clima di forte ostilità tra coloro che vi partecipano. Ce lo racconta Amalia Nizzoli, indomita viaggiatrice e prima donna a dirigere una missione di scavo (Saqqara), nel suo “Memorie sull’Egitto”: “Questi uomini erano pieni di attività e zelo pei loro committenti, che per mostrar loro quanta influenza aveva ognuno di essi pel miglior esito delle loro scoperte, finivano col farsi continuamente una guerra aperta, e col disturbare a vicenda ed a forza di rivalità la più ridicola i lavori altrui. Non v’è viaggiatore o letterato che abbia vistato l’Egitto cui non siano note queste inimicizie”.
È il periodo in cui in Egitto si incontrano uomini come il padovano Belzoni, energici e desiderosi di raccogliere antichità e uomini come il piemontese Vidua, che si muovono lungo il Nilo seguendo il proprio desiderio di conoscere luoghi nuovi e suggestivi.
E si arriva al 14 settembre del 1822. Una data cardine per l’Egittologia. Anzi, la data di nascita dell’Egittologia. Un giovane francese dopo un serrato attacco alla “serratura arrugginita” che impediva di comprendere il funzionamento che stava alla base della scrittura geroglifica, irrompe nell’ufficio parigino del fratello gridando: “Je tiens l’affaire!”, ce l’ho fatta, e stramazza al suolo privo di energie.
Grazie a Jean François Champollion i monumenti egizi, silenziosi portatori di una cultura millenaria, cominciano a parlare e a raccontare al mondo la loro storia, che ha deluso chi si aspettava rivelazioni misterico esoteriche e ha infervorato gli studiosi, desiderosi di farsi avvolgere da quelle parole sacre ed entrare in stretto contatto con quegli uomini, vissuti migliaia di anni fa con le nostre stesse paure e tensioni interiori.
Ma in questo periodo storico, con i suoi aspetti emozionanti e a tratti nostalgici, viene da chiedersi: e l’Egitto? Quello moderno intendo. L’Egitto di Mohamed Ali, indubbiamente “proprietario” – pur se non diretto discendente di quella cultura – delle antiche vestigia egizie, diventato luogo da raggiungere e saccheggiare con la complicità degli stessi egiziani, attratti da un facile guadagno e totalmente inconsapevoli dell’importanza di ciò che letteralmente calpestano. Può rimanere relegato a luogo di continua e sistematica espoliazione, senza provare ad essere protagonista di questo nuovo corso degli eventi?
Evidentemente no! E lo stesso pascià se lo chiede. O meglio, lo chiede proprio a Champollion che tra il luglio del 1828 e il novembre del 1829 è in Egitto in compagnia di Ippolito Rosellini, con la celebre spedizione Franco-Toscana. Mohamed Ali sollecita una relazione sullo stato dei monumenti antichi di tutto il Paese e il giovane francese non esita a raccomandare la creazione di un’istituzione finalizzata al controllo e alla protezione delle antichità presenti in un tutto il territorio egiziano.
Nel 1835 viene varato un decreto che sancisce la nascita del Servizio delle Antichità e un Museo Egizio al Cairo. Il decreto prevede che ogni reperto recuperato in Egitto venga inviato a un intellettuale egiziano, Rifaa el-Tahtawy, e messo sotto la tutela di una sorta di ispettore, Youssef Diya Effendi, incaricato anche di andare a fare visita personalmente ai luoghi di interesse storico oggetto di attività di scavo. I reperti così raccolti vanno a formare il primo nucleo di una collezione di antichità egizie in territorio egiziano, ed è custodita in alcune stanze vuote di una scuola di lingue nel quartiere di Ezbekieh, nel centro del Cairo. Successivamente viene indicata una nuova sede presso una scuola nel quartiere di Sayedah Zeinab che appare subito inadeguata, per poi essere collocati a Boulaq, in un deposito della Scuola di Ingegneria.
Ma il decreto non riesce ad evitare la continua emorragia di reperti verso l’estero e quando la collezione viene spostata alla Cittadella, negli Uffici della Pubblica Istruzione, è talmente esigua da poter essere sistemata in una sola stanza dove gli impiegati appendono i loro soprabiti e vi depositano le sporte per il pranzo! (Così ci informa Gaston Maspero nel suo articolo Histoire du Musée d’Antiquités du Caire pubblicato sulla Revue d’Egypte et Orient del 1906).
Un altro fatto curioso, che mette in luce una certa incoerenza nella gestione dei beni archeologici da parte delle stesse autorità, è accaduto quando l’Arciduca Massimiliano I d’Austria, in visita di Stato in Egitto nel 1855, riceve in dono l’intera collezione custodita in quella stanza, che va così a formare il primo nucleo dell’attuale collezione egizia del museo di Vienna.
Ma ormai la sensibilità verso il patrimonio archeologico egiziano è stata sollecitata e il processo di evoluzione del pensiero culturale è avviato senza possibilità di riversibilità e senza soluzione di continuità. La nomina di Auguste Mariette a capo del Servizio delle Antichità sancisce una svolta epocale in tal senso. Il Servizio stesso viene potenziato e assume il potere di decidere quali reperti possono uscire dal Paese e quali devono restare. La collezione rimessa assieme con le continue acquisizioni viene di nuovo trasferita e torna a Boulaq, ma stavolta nei magazzini ormai in disuso della Compagnia Fluviale, dove possono essere montate delle vetrine per contenere i reperti di dimensioni minori e dei basamenti dove appoggiare le statue e le stele.
Viene realizzato quindi il primo allestimento espositivo della storia della collezione egizia al Cairo, che rimarrà pressoché invariato, tranne un breve periodo in un palazzo nei pressi di Giza del tutto inadeguato, fino alla costruzione del Museo Egizio in Piazza Tahrir, che si rende necessaria per l’enorme quantità di reperti che ormai cominciano ad affluire a seguito dei maggiori controlli, e per il costante pericolo di allagamenti durante le piene annuali del Nilo.
Il Museo Egizio di piazza Tahrir vedrà la luce sotto la direzione di Gaston Masperò, che si farà promotore presso il governo egiziano di una politica volta all’apertura di musei d’antichità anche in altre città. Vengono istituiti i musei ad Aswan, Asyut, Minya, Tantah e quello greco romano di Alessandria d’Egitto, posto sotto la direzione del modenese Giuseppe Botti e che dovrebbe essere riaperto al pubblico, dopo una lunghissima ristrutturazione, alla fine del 2019.
Ecco dunque cosa rappresenta il Museo di Piazza Tahrir. Ecco qual è il senso stesso della sua esistenza. Non un contenitore di opere meravigliose non più adeguato alla sua funzione, ma il raccordo temporale tra un passato che quasi ci appare mitico, fatto di intrighi e storie avvincenti, di uomini coraggiosi e di grande cultura, che ha raccolto e traghettato fino a noi la più grande collezione egizia del mondo, accudendola e dandole un forte valore identitario. Ecco perché un progetto che lo protegge, che lo rivaluta, che lo rende complementare al nuovo e ipertecnologico Grand Egyptian Museum ci appare come un giusto tributo. Ed ecco perché vedere il Museo Egizio di Torino come capofila di questo progetto mi fa oltre modo piacere: due grandi musei interamente dedicati alla medesima grande civiltà che dialogano andando nella stessa direzione, guardando al futuro per conservare un prestigioso passato e guardando al passato per avere un grande futuro.