La festa-sed (heb-sed) era per gli Egizi una delle più importanti della regalità. Oggi tradurremmo la parola “sed” come “giubileo”, e in effetti la festa giubilare – ancora oggi celebrata nei moderni stati monarchici –  deriva dall’antico rito egizio, anche se il significato è ovviamente cambiato.

Placchetta con scena di giubileo di Den (3.030-2.985 a.C.). Vi si legge anche il nome di Hemaka (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Nell’Egitto preistorico il sovrano veniva ucciso quando era troppo vecchio per regnare; le ragioni erano due: da una parte, vi era una ragione di carattere magico-religioso: il re incarnava il Paese (o, nella preistoria, il clan, la tribù) e dunque tutto ciò che concerneva la sua persona, la sua debolezza, la sua vecchiaia, i suoi mali si sarebbero riflessi sull’intera comunità. Queste constatazioni di carattere metafisico riposavano su osservazioni più concrete; in effetti la seconda ragione che portò ai sacrifici (e più tardi al giubileo) era più pratica e concerneva l’impossibilità fisica o psichica, per un re troppo vecchio, di reggere lo Stato; questo, in una struttura sociale di tipo piramidale, avrebbe portato alla paralisi delle strutture e al caos, come in effetti successe alla fine di regni, pur gloriosi, ma troppo lunghi (Pepy II, Ramses II).

Così la soluzione dei popoli con tale struttura (non solo d’Egitto e non solo preistorici) era quella di uccidere i vecchi re.

In un momento imprecisato della preistoria più recente (forse nel Neolitico, ma comunque nel Predinastico) venne creata la festa-sed; il rituale nasce proprio dall’esigenza di ridare forze al sovrano senza ucciderlo, come invece si faceva nella lontana preistoria, ma com’era uso, per esempio, anche presso tribù dell’Alto Nilo sino ai primi del XX secolo.

Il nome “sed” derivava dalla coda di toro, simbolo di potenza e attributo di re e dei; certamente il nome era connesso anche con il dio Sed, a forma di canide e associato a Wepwawet, a sua volta accostato più tardi ad Anubis.

Tavolozza di Narmer, verso: il faraone nell’abito dell’epoca, divenuto poi l’abito rituale usato nelle principali cerimonie. Nel dettaglio, la coda di toro (coda: “sed”) (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Sappiamo che uno dei più antichi calendari, di remota origine preistorica, fu quello lunare, ove il mese era di 30 giorni; e di 30 anni era la cadenza della prima festa sed. Le due cose sono connesse? I 30 anni, che sappiamo con certezza essere connessi con l’elementare realtà biologica dell’invecchiamento, sono simbolicamente legati anche ai 30 giorni lunari, come simbolo della rinascita? La luna infatti, dopo la fase di luna nuova, rinasce per arrivare alla gloria luminosa della luna piena. Ad oggi, non è dato sapere se le due cose furono connesse; ciò che sappiamo, però, è che entrambe sono parte di quel fiorente periodo preistorico che vide nascere fondamentali idee sacre e profane, religiose e secolari (anche se dobbiamo tener presente che tali differenziazioni sono solo nostre, peculiari dell’Occidente moderno, sulla scia della mentalità analitica greca; negli altri popoli dell’antichità, era un tutt’uno).

Dettaglio della placchetta con scena di giubileo di Den (3.030-2.985 a.C.). Vi si vede il faraone con la Doppia Possente (la corona Pa-Sekhemty) nell’abito della cerimonia sed, assiso sul trono posto sulla pedana e nella cappella cerimoniale (generalmente una struttura leggera, con colonnette lignee a sorreggere un riparo di stoffa). A destra si vede il sovrano nella corsa rituale fra i cippi confinari (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

La festa sed, essendo motivata dalla causa prima dell’invecchiamento biologico del re, può dunque considerarsi innanzi tutto una festa secolare (potremmo dire “naturale”) ma, come tutto nell’antico Egitto, era strettamente interconnessa con gli aspetti sacrali, divini, oltremondani, metafisici. Il tutto per far confluire le forze naturali nel punto focale, nello scopo ultimo di ridare forza, vitalità e virilità al faraone senza il rito dell’uccisione preistorica.

Così si comprende bene la particolare cadenza della festa: il giubileo infatti veniva generalmente celebrato dopo i primi 30 anni di regno, ossia, quando potevano iniziare a manifestarsi i segni della nuova fase biologica del sovrano: l’invecchiamento.

Dopo il giubileo del 30° anno, i giubilei venivano celebrati ogni 3 anni o, in caso di necessità, sempre più spesso. Ramses II arrivò a celebrarne 14: dopo il primo, gli altri si susseguirono ogni 3, 2 addirittura dopo un anno, viste le condizioni fisiche del sovrano che già dagli 80 anni aveva sviluppato una grave forma di arteriosclerosi e la cui salute fisica e mentale si deteriorava ovviamente sempre di più.

Ma anche quello del giubileo al 30° anno non era un dogma (l’Egitto era una società a-dogmatica): per differenti ragioni il faraone poteva decidere di celebrarlo in altri momenti, generalmente anticipandolo. Vista infatti la finalità dell’heb-sed, ossia rinnovare le forze, se il faraone si sentiva indebolito, se era malato, poteva decidere di celebrare il giubileo (o, se il sovrano era ormai in condizioni di non poter decidere, lo facevano i reggenti per lui). Così non mancarono i casi in cui il re, salito al trono troppo vecchio (per esempio Adjib) celebrasse il giubileo dopo pochi anni di regno; inoltre alcuni sovrani che erano stati associati al trono forse celebrarono la festa sed calcolando gli anni di regno dall’inizio della coreggenza.

Ricostruzione grafica del Tempio Est di Amenhotep IV a Karnak, che recava le scene del giubileo celebrato fra 2° e 3° anno di regno (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Né mancarono anche altre motivazioni per celebrare la festa. Lo fece per esempio Akhenaton, che celebrò il giubileo addirittura nel 2° – 3° anno, evidentemente per tutt’altre ragioni, legate probabilmente alle sue idee di innovazione religiosa, dunque una “rinascita giubilare” di tutt’altro tipo, ma con lo stesso senso.

E vediamo adesso quali erano le modalità di celebrazione della festa giubilare. Innanzi tutto, come possiamo conoscere tutto ciò? Come sempre, ci rivolgiamo agli egizi, ai loro testi, alle loro immagini. I primi cenni sono le raffigurazioni della corsa del sovrano intorno ai cippi confinari dell’Egitto (v. sotto per i dettagli), che appaiono su tavolette sin dalla 1a dinastia; altre immagini ci vengono da tutti i periodi successivi, di cui possiamo ricordare le statue in abito della festa sed (da Djoser a Montuhotep II a molti altri faraoni), o rilievi come la già citata corsa intorno ai cippi confinari, che ora appare anche sui monumenti, come nei celebri sotterranei di Djoser; e sempre il complesso di Djoser conserva anche le strutture in cui si svolse il rituale: i cippi confinari, il cortile dell’intronizzazione con la pedana, le cappelle. Né vanno dimenticati i numerosi rilievi che raffigurano il sovrano seduto sul trono alcaico, due volte, con le corone del Doppio Paese (v. sotto).

Il faraone Djoser (3a dinastia) seduto sul trono arcaico, con l’abito della cerimonia sed. Museo Egizio, Il Cairo (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Prima di analizzare la festa vera e propria, ricordiamo ancora che il tutto richiede strutture apposite (cortili, cappelle, pedane, ecc.), ossia aree costruite e destinate particolarmente all’heb-sed.

Del tutto, abbiamo testimonianze importanti nei cicli raffigurativi che ci narrano, e mostrano, lo svolgimento delle parti salienti della cerimonia.

I siti più generosi in questo senso sono numerosi: il più antico è il complesso funerario, e in particolare l’area destinata all’heb-sed, di Djoser (3a dinastia); poi abbiamo scene e testi del rituale nei seguenti siti: il tempio solare di Niuserre, ad Abu Gorab (5a dinastia); il tempio di Amenhotep a Soleb, la tomba di Kheruef a Tebe (TT549), il tempio orientale di Amenhotep IV a Karnak (tutti della 18a dinastia). Per la Bassa Epoca possiamo ricordare il grande tempio di Bastet a Bubastis (22a dinastia) con le sue numerose scene dell’heb-sed, e preziosi blocchi della 26a dinastia, saita. A tutto ciò vanno aggiunti testi e scene dei grandi templi tolemaici (Dendera, Esna, Edfu, Kom Ombo, File) che ci permettono di ricostruire dettagli e fasi del rituale.

Danzatrici e musiciste nella festa sed di Amenhotep III. Tebe Ovest, TT192, di Kheruef. (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Altri dettagli, spesso concernenti parti più segrete del rituale, provengono da papiri e testi biografici. Tutti questi documenti forniscono i mille frammenti di un complesso mosaico che oggi conosciamo a grandi linee e spesso in molti dei suoi dettagli: troviamo scene che ci forniscono conoscenze che vanno dal rituale a varie fasi della festa, con processioni, danze, giochi e canti. Rituali, abluzioni, preghiere e formule; ruolo dei partecipanti e loro funzione pratica e simbolica; insomma un quadro affascinante di vera e propria creazione magico-religiosa.

Il rito della festa sed si può schematizzare con una suddivisione in tre fasi.

1) La prima ripeteva sostanzialmente i riti dell’incoronazione: innanzi tutto veniva sepolta una statua che rappresentava il vecchio sovrano, ora pronto a rigenerarsi; il re era inizialmente vestito con il caratteristico abito della festa sed, un lungo mantello bianco che lo avvolgeva completamente, lasciando scoperte solo la testa e le mani; è probabile che questa sorta di guaina crisaliforme accostasse il rito all’idea di rigenerazione spirituale e fisica, come nel caso di Osiris; il re acquisisce in questa fase “anni per milioni”, ossia è completamente rigenerato. Il faraone riceveva le corone dell’Alto e Basso Egitto mentre stava seduto alternativamente sui due troni, ognuno posto sotto una cappella adatta e su una pedana, di cui un esemplare si conserva nel complesso di Djoser a Sakkara.

La pedana dell’intronizzazione nella corte sed di Djoser (1), sulla placchetta di Den (2), come appare nelle figurazioni egizie (3) e nella realtà (4): la pedana con le doppie scale e i due troni (assenti nel disegno in cui è però indicato il posto che occupavano) sotto il baldacchino (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
La pedana dell’intronizzazione nel rilievo di Senwsert I: il sovrano è raffigurato due volte, con le corone Bianca e Rossa, sui troni sopra la pedana, sotto il baldacchino; Museo del Cairo (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

2) Nella seconda fase appaiono la sposa principale del re e i suoi figli; questi personaggi simbolizzano probabilmente l’eredità dinastica del passato (nella figura della sposa, che svolse sempre un importante ruolo nella trasmissione del potere in quanto incarnazione della Dea) e quella del futuro, rappresentato dai figli del re.

3) Nella terza fase il sovrano si identifica con Osiris nell’elevare il pilastro djed, simbolo del dio e di stabilità. Nel corso delle cerimonie il re dimostrava il proprio vigore fisico con una corsa rituale; in quanto a questa corsa, l’ovvia domanda è: “ma il faraone faceva davvero la corsa?”. Le raffigurazioni dicono di sì, e non potrebbe essere altrimenti, poiché la raffigurazione non solo attesta e perpetua l’avvenimento, ma lo rende reale, lo “ricrea” nell’eternità della dimensione metafisica. Ma nella realtà? Ovviamente, sarebbe sciocco porsi questa domanda riferendola ad un assoluto che invece riguarda millenni e decine e decine di faraoni. I casi saranno stati numerosi e differenti. Non solo per differenti faraoni, ma anche per lo stesso faraone nelle diverse età e condizioni di salute.

Djoser effettua la corsa rituale fra i cippi confinari; il faraone veste il rituale abito arcaico: la coda di toro (sed), la cintura (shesme.t) e il perizoma shendyt; indossa la Corona Bianca, tiene nella mano destra lo scettro nekhakha (il “flagello”) e nella sinistra il mekes (o imy.t), il contenitore che racchiude il Testamento di Geb, che assicura e testimonia la legittima regalità del sovrano (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

È un’ovvietà che in qualsiasi caso la raffigurazione mostri il sovrano per le ragioni di magia religiosa di cui sopra. Ma possiamo abbandonare le ipotesi ed avere qualcosa di più concreto? Si: ancora una volta gli Egizi ci vengono in aiuto con la straordinaria generosità documentale: questa corsa, effettuata in epoca storica direttamente dal re o da un suo rappresentante ove ne fosse impedito il sovrano, in epoche precedenti sappiamo essere effettuata da prigionieri: per esempio, sulla mazza di Narmer sono raffigurati 3 prigionieri in atto di correre fra gli altari. Ovvio e plausibile dunque inferire che in epoca storica, là ove il sovrano fosse inabile a svolgere il rito, si scegliesse un sostituto per il rituale (non più i prigionieri, ma probabilmente uno dei principi ereditari, se pensiamo alle condizioni di Ramses II per lungo tempo). Tornando alle raffigurazioni, quali altri dettagli ci danno sulla corsa? Vediamo che il faraone veste il rituale abito arcaico: la coda di toro (sed), la cintura (shesme.t) e il perizoma shendyt; indossa la Corona Bianca, tiene nella mano destra lo scettro nekhakha (il “flagello”) e nella sinistra il mekes (o imy.t), il contenitore che racchiude il Testamento di Geb, che assicura e testimonia la legittima regalità del sovrano.

La mazza cerimoniale di Narmer in cui si vedono tre prigionieri, con le mani legate dietro la schiena, fra i cippi confinari della cerimonia. (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

Il resto dell’heb-sed è più una formalità dell’apparato religioso, la comunicazione ufficiale alle divinità del Paese del fatto che le forze del sovrano erano state rinnovate: con una processione il faraone si recava “in visita dalle principali divinità del paese”, ossia, nello stesso luogo dei riti, si recava dagli dèi dei nomoi (i distretti) che riposavano in apposite cappelle.

Per tutti questi riti erano approntate delle complesse strutture che comprendevano le cappelle citate, padiglioni e case del Nord e del Sud, il palco reale con i padiglioni per i due troni, le particolari strutture a forma di “D” accostate, che possono essere due (e dare la forma di “B”, come nel caso di quelli del complesso di Djoser) o più (documenti come placchette e rilievi ne mostrano 3) queste strutture si trovavano di fronte ad altre analoghe e speculari, ancora per simbolizzare le due parti del paese, e delimitavano l’area della corsa rituale e, in maniera simbolica, delimitavano l’Egitto e probabilmente l’intero universo, proprietà del faraone; per tale motivo sono state chiamate in inglese “cairn”, in francese “bornes”, in italiano “cippi”; insomma delle vere pietre di confine del territorio simbolico.

Cippi di confine del complesso di Djoser. In basso a sinistra vediamo una foto della grande corte, dominata dalla piramide a gradoni; le minuscole figure in fondo, sulla destra, sono persone che guardano ciò che resta dei grandi cippi confinari, che vediamo bene nelle foto in alto a sinistra e in basso a destra. Nel disegno in alto a destra vediamo una ricostruzione della corte con i cippi così come dovevano apparire (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).

In occasione della cerimonia venivano emessi oggetti commemorativi che cambiarono in ogni epoca; nell’età thinita furono probabilmente palette, placche e vasi; poi vi furono oggetti sempre più importanti, come statue e monumenti; nel caso di Djoser, nel suo complesso funerario troviamo la maggioranza delle installazioni create per la festa sed.

Ricordiamo infine che, come accade in tutte le regalità del mondo e in ogni tempo, uno degli scopi della festa era quello di impressionare il popolo, che credeva realmente nella rigenerazione del sovrano; se dunque la maggioranza dei riti era segreta, allo scopo di tenere informato il popolo non veniva risparmiato nulla per rendere il rito più sfarzoso e solenne; i pochi documenti che abbiamo mostrano le strutture di cui abbiamo parlato, ma anche processioni, araldi che portano stendardi, animali e offerte in abbondanza.

 

GALLERY:

La corsa rituale di Djoser nelle raffigurazioni dei sotterranei; i numeri danno l’ordine di lettura (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Ricostruzione pittorica del complesso di Djoser. Sulla sinistra, al centro, si vede il cortile dominato dai cippi confinari, e più in basso la corte del giubileo (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Ricostruzione pittorica della corte sed del complesso di Djoser. Sono indicati i santuari dell’Alto e del Basso Egitto (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Complesso di Djoser: la corte del giubileo con le cappelle dell’Alto e Basso Egitto e, in primo piano, la pedana dell’intronizzazione (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
L’abito della festa sed in due statue di Montuhotep II da Deir el Bahari: a sinistra la celebre statua rinvenuta nel cenotafio del suo tempio, e oggi al Museo del Cairo; a destra, una delle 8 che si trovavano nel viale di accesso al tempio, riparate dai sicomori, ancora in situ (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
A sinistra, Montuhotep II in una statua in abito della cerimonia sed dal complesso di Deir el Bahari. New York, Metropolitan Museum of Art.
A destra, Montuhotep III. Dal tempio di Montu ad Armant. Museo di Luxor. In questo caso non va confusa la guaina crisaliforme, osiriaca, di questa statua, con l’abito della festa sed (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Veduta e ricostruzione del complesso solare di Niuserre ad Abu Gorab, visto da Sud. Il tempio ha ricostruiti cicli di bassorilievi su vari temi, uno dei quali era la celebrazione dell’heb-sed (© Archivio CRE/Maurizio Damiano – Enciclopedia “Il velo di Iside”).
Ricostruzione pittorica del complesso solare di Niuserre ad Abu Gorab, visto da Est; in primo piano l’imbarcadero, seguito dalla rampa monumentale e, sullo sfondo, il grande obelisco (© Archivio CRE/Maurizio Damiano – Enciclopedia “Il velo di Iside”).
Veduta del paesaggio nilotico e, in fondo, fra le palme, il tempio di Amenhotep III a Soleb, in Sudan (Alta Nubia) che sorge sulla riva Ovest del Nilo; la foto è scattata dalla riva orientale (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Tempio di Amenhotep III a Soleb: veduta della prima corte (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Tempio di Soleb: veduta del passaggio dal secondo pilone; si vedono due colonne della prima corte e, dietro la parete del passaggio del 2° pilone: è qui che sono raffigurate le scene della festa giubilare (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Tempio di Soleb: il passaggio dal secondo pilone con le scene della festa giubilare; si può vedere Amenhotep III con il lungo manto della festa sed (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Scena sui talatat (i blocchi trasportabili da un solo uomo impiegati da Akhenaton) del Tempio Est di Amenhotep IV a Karnak, con scene del giubileo celebrato fra 2° e 3° anno di regno. Museo di Luxor (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Blocco di provenienze sconosciuta, ma con ogni probabilità doveva far parte del Tempio Est di Amenhotep IV a Karnak; vediamo scene del giubileo celebrato fra il 2° e 3° anno di regno. Cambridge, Fitzwilliam Museum, E.GA.2003.1943 (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Amenhotep III con l’abito giubilare, seguito dalla consorte regale, Tiye, che qui incarna il divino femminile. Tebe Ovest, TT192, di Kheruef. (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Dettaglio della sfilata delle principesse asiatiche che offrono libagioni; sul capo portano le mezzine nemeset. Si tratta di alcuni dei più bei rilievi dell’antico Egitto. Tebe Ovest, TT192, di Kheruef. (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Veduta dell’area archeologica del tempio della dea Bastet a Bubastis (oggi Tell Basta). (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Bubastis, tempio di Bastet: officianti del giubileo su un blocco di Osorkon II (22a dinastia) (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
A sinistra, il faraone con la Corona Rossa e l’abito del giubileo; dietro di lui, i portatori di ventaglio. A destra, le cappelle con le statue divine che, nel corso della cerimonia, il faraone andava a visitare, simbolizzando un viaggio nel Paese per rendere omaggio a tutti gli dèi. Bubastis, tempio di Bastet; blocchi del giubileo di Osorkon II (22a dinastia); (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Blocco con porta stendardi nel corso dell’heb-sed. Bubastis, tempio di Bastet: blocco del giubileo di Osorkon II (22a dinastia) (© Archivio CRE/Maurizio Damiano).
Advertisement
Articolo precedenteLa Grotta Cosquer: un tesoro sommerso che torna oggi in superficie
Prossimo articoloMuseo dell’Arte Salvata: il “porto sicuro” delle opere ritrovate.
Maurizio Damiano

Egittologo, archeologo, Maurizio Damiano è oggi in Italia e all’estero un’autorità in materia, un nome associato a numerosi scritti, a tante spe­dizioni, organizzate e dirette in prima persona, un’attività scientifica ad alto livello intrapresa con la caparbietà e la passione che soltanto i sici­liani possiedono, quelli che sentono scorrere nel­le vene il fuoco dell’Etna, e fin da piccoli sono av­vezzi ad inerpicarsi per i suoi impervi sentieri.
Nasce a Randazzo nel 1957, i genitori sono due medici, l’ambiente familiare piuttosto aperto e stimolante, non mancano i viaggi ed i riferi­menti culturali, e poi c’è il nonno, Antonio Petrullo, con i suoi ri­cordi dell’Africa, a gettare inconsapevolmente un seme destinato a germogliare con gli anni.
Né va dimenticato lo zio materno, Alfio Petrullo, geniale scrittore, poeta e ricercatore del Tutto che pone i semi di un’apertura mentale, all’epoca di certo inusuale, nella mente del giovanissimo Maurizio.
Quest’ultimo fre­quenta la scuola statale, le medie al San Basilio, ed il Liceo, dove incontra, come professore di Storia dell’Arte, don Virzì, ed ha modo di affinare, nei lunghi colloqui con lui, la già grande passione per l’archeologia, nata probabilmente dalla fascinatio esercitata su di lui da bambino dagli spettacoli al Teatro Greco di Siracusa che vedeva assieme ai genitori; una passione per l’archeologia indirizzata e resa più solida dalla preparazione con don Virzì, e che Maurizio esterna esplorando con gli amici il territorio circostante.
A quel tempo colti­va anche l’hobby della pittura.
Poi la svolta: a 17 anni, assieme alla famiglia, lascia Randazzo, si iscrive a Medicina sotto la pressione dei genitori, ma poi la lascerà per Scienze naturali all’Università di Pavia, ma si laurea nell’88,perché nel frattempo premo­no altri interessi: la scintilla scocca quando visita il Museo Egizio di Torino, e ne incontra il diretto­re, Silvio Curto, poi sovrintendente per le Anti­chità Egizie in Italia, sotto la cui guida inizia gli studi di Egittologia.
Da quel momento ha incon­trato la sua vocazione e la sua strada.
Si specializ­za in Archeologia Egizia; poi in Storia ed Archeo­logia Nubiana, tiene corsi e seminari, diventa col­laboratore del Museo Egizio di Torino, e dal 1998 inizia l’attività di docente all’Università Aperta di Imola.
A quella teorico scientifica si affianca un’attività pratica frenetica ed incessante: fonda e coordina il Progetto Nubia (1979-1988), finanziato negli anni da vari sponsor, tra cui il ministero per gli Affari Esteri e l’istituto Italo-Africano, lavora in Sudan con varie agenzie dell’ONU; dal 1979 effettua ri­cerche nei deserti d’Egitto e Nubia.
La Nubiologia diviene la sua prima specializzazione, il «Progetto Nubia», infatti, è un progetto esplorativo e di ca­talogazione delle antichità della Nubia sudanese, grazie al quale si è resa possibile la creazione del primo archivio fotografico delle antichità nubia­ne e delle civiltà limitrofe (ad oggi uno dei più grandi archivi al mondo: oltre 1.000.000 di immagini dell’Egitto, Libia, Giordania, Israele, Libano, Siria, ecc., e una vastissima cartografia archeologica computerizzata).
Al nome di Maurizio Damiano sono lega­te scoperte e rinvenimenti di interesse storico: numerose necropoli meroitiche, un tempio dello stesso periodo, necropoli dell’epoca di Kerma e centinaia di siti preistorici.
Tra l’altro è ideatore e coordinatore generale del «Progetto Prometeo», di ricerca nei deserti d’Egitto e Sudan, in seno al quale ha esplorato per primo le aree più lontane del Deserto Occidentale egiziano, realizzandone la cartografia; ha scoperto l’oasi di Zerzura (quel­la cercata invano dal protagonista del film II pa­ziente inglese), la «pista di Alessandro Magno», un villaggio minerario egizio, cave, miniere, for­tezze romane… colmando inoltre varie lacune storiche.
Ha contribuito a fondare il CISE (Centro Italiano Stu­di Egittologici) di Imola e fondato il CRE (Centro Ricer­che Egittologiche) di Verona, organismo tutt’oggi da lui diretto che, fra l’altro, si occupa di realizzare la ricostruzione in realtà virtuale di intere aree archeologiche, e che ha ricevuto la concessione per la missione permanente di ricerca e scavo nel deserto presso la Valle dei Re e la costruzione di una sede a Tebe, poi mutata nell’ampia concessione per l’intero Deserto Occidentale egiziano, in cui le ricerche sono state portate avanti sino al 2011 e poi interrotte per le vicende politiche e la proibizione da parte dei militari a qualsiasi accesso nell’area, ritenuta pericolosa per la situazione libica.
Nel frattempo Maurizio Damiano, che è membro di varie associazioni cul­turali internazionali, organizza mostre, come quella del 1984-85 nella Galleria del Sagrato a Milano, tiene cicli di conferenze, partecipa a con­vegni, prende parte a servizi radiofonici e televisi­vi per la Rai e le Tv private, scrive libri, relazioni ed articoli.
Ne ha pubblicato circa un centinaio, per riviste italiane ed estere, quali Archeologia Viva, Historia, Farmacia Naturale, Nigrizia.
Fra le pubblicazioni, che ad oggi contano 21 volumi in Italia e all’estero, ricordiamo:
Oltre l’Egitto: Nubia (Electa, 1985), Il sogno dei faraoni neri (Giunti, 1994), Egitto e Nubia (Mondadori, 1995), Dizionario en­ciclopedico dell’antico Egitto e delle civiltà nu­biane (Mondadori, 1996), la grande opera divul­gativa Egitto.
L’avventura dei faraoni fra storia e archeologia, in quattro volumi, edita anche a fa­scicoli per la Fabbri, la realizzazione di due Cd­-rom: I tesori del Nilo (1998) e La Valle ‘dei Re (1999), e i due DVD di 150 minuti: Le meraviglie d’Egitto. (2004).
Nell’immaginario collettivo l’archeologo è sempre stato una figura affascinante, che vive esperienze ed avventure misteriose.
Ma oggi il nostro personaggio, oltre alla vanga, usa anche il computer, e per condurre le sue ricerche e realiz­zare le sue opere si avvale di tecnologie moderne e sofisticate.
A dispetto di quanti, nell’era di In­ternet, vorrebbero mandare in soffitta tutte le di­scipline «antiche», l’archeologia oggi ha avuto un nuovo impulso, e sembra po­tere registrare ancora notevoli progressi proprio grazie al sussi­dio delle scienze informatiche e multimediali. Sposa­to dal 1987 e separatosi nel 2014 per il ritorno della ex moglie nella città natale (Parigi; e come non comprendere la nostalgia del paese natìo?), è padre di Louise e Colette

(Tratto dal sito http://www.randazzo.blog/2017/09/04/maurizio-damiano/ )

1 COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here