Visitare la mostra “I Pittori di Pompei” al Museo Civico Archeologico di Bologna, mi ha portato a fare alcune riflessioni che voglio condividere con i lettori di MediterraneoAntico, nella speranza di portare un duplice contributo: incuriosire ed invogliare il maggior numero di persone a visitare questa splendida mostra e mettere a fuoco alcuni passaggi legati al mondo dell’archeologia. Ovviamente mi rivolgo a chi – come me – non è un addetto ai lavori e vuole fare un viaggio nell’antico, prendendosi il tempo di guardare oltre i contenuti dei comunicati stampa, utilissimi per avere le informazioni necessarie alla comprensione dell’evento e che su MediterraneoAntico abbiamo pubblicato più volte.
Per coloro che fossero interessati ecco i link:
Prima di iniziare questa chiacchierata mi preme ringraziare i protagonisti di questa mostra: Museo Civico Archeologico di Bologna dove si snoda, attraverso le sue splendide sale, il percorso espositivo, un evento che ha sostenuto e fortemente voluto; Panstudio Architetti Associati che quel percorso espositivo lo hanno realizzato valorizzando e rendendo ben leggibile ogni singolo reperto; Museo Archeologico Nazionale di Napoli sempre generoso nel condividere il patrimonio che custodisce e pronto a cogliere ogni stimolo che porta alla condivisione della cultura. E, infine, la figura di un archeologo dalla grande esperienza e sensibilità, Mario Grimaldi, che ci ha regalato un punto di vista originale sulle città sepolte dal Vesuvio. Non era semplice, ma c’è riuscito!
Pompei è un luogo unico al mondo, nonostante la snervante e consueta abitudine di associarla a nuove scoperte che avvengono altrove e che nulla hanno a che fare con la sua storia e la sua archeologia.
Ogni qual volta devo rapportarmi a questa città antica il pensiero corre a quei momenti drammatici scanditi dalla terra che d’improvviso diventa malferma, con la cenere che oscura il sole e i lapilli che cadono dal cielo come proiettili. Immagino le donne e gli uomini intenti alle loro attività, abituati a vivere su una terra che trema e distrugge e che poi si ferma, torna ad essere quieta, e dà all’uomo il tempo di ricostruire.
Alcuni avranno pensato a come ripararsi nell’attesa che tutto passasse, come mille altre volte. Altri avranno pensato che una volta terminato tutto questo trambusto se ne sarebbero andati in cerca di un luogo più sicuro, come già avvenne all’indomani del terremoto del 62 d.C.
Ma il “formidabil monte sterminator Vesevo” aveva altri programmi e la città, come in un drammatico ed enorme scatto fotografico, si fermò congelata in quell’autunno del 79 d.C.
Le vicende legate alla riscoperta dei luoghi sepolti dall’eruzione del Vesuvio sono note e raccontate in molti saggi. A sorprendermi, ogni volta, sono i materiali e le informazioni che gli archeologi hanno raccolto e continuano a raccogliere tuttora, in un’area archeologica non interessata da un progressivo e lento abbandono e priva degli stravolgimenti conseguenti a uno sviluppo urbano continuativo che modifica le funzioni degli spazi, dei contesti e la sua geografia.
Un po’ come se tutto finisse in questo preciso istante e qualcuno, chissà in quale futuro, ritrovasse nel mio studio questo scritto, sospeso proprio qui. La mia tazza del caffè appoggiata sulla scrivania tra gli appunti vergati a lapis su fogli riciclati e il mio scheletro, con le mani ancora sulla tastiera, recuperato e magari trasformato in calco con la tecnica messa a punto da colui che diresse gli scavi a Pompei nella seconda metà dell’Ottocento, Giuseppe Fiorelli!
Tutto l’arredo del mio studio finirebbe in un museo, tutelato e valorizzato, certamente più di quanto lo sia adesso! Ma ad essere davvero importante sarebbe la scoperta della tecnologia presente al suo interno, da quella informatica a quella dell’illuminazione, da quella del riscaldamento a quella della climatizzazione e poi l’attrezzatura fotografica, i numerosi testi in varie lingue…
Rilevante sarebbe anche la venuta alla luce di una struttura organizzata che si occupa di pubblicare materiale inerente alla storia antica e all’archeologia, che sottende un contenitore – la rivista – ed un mestiere. Perché gli archeologi non affrontano uno scavo per trovare e portare in salvo l’antico vaso, ma per il contesto che lo ha custodito e che dà al reperto la sua stessa ragione di esistere.
Lo studio degli elementi che formano l’arredo del mio luogo di lavoro, compresi i quadri e le fotografie appese, potrebbe dare delle indicazioni sul mio status all’interno della società in cui ho vissuto e, pur se in modo parziale, potrebbe dare delle indicazioni sui gusti e le mode del mio tempo. Lo studio dei contenuti potrebbe invece dare indicazione sul regime fiscale in uso, di come si viaggiava, delle malattie e dei farmaci prescritti per curarle, della religione, delle abitudini alimentari e molto altro ancora.
È in questo modo (nell’esempio del mio studio e della mia dipartita espresso in estrema sintesi) che gli archeologi operano e
hanno ricostruito la storia delle città sepolte dal Vesuvio, che hanno dato concretezza alla vita dei loro abitanti e rilevato lo sviluppo urbanistico che le ha interessate fino a quel drammatico 79 d.C.
A dare un contributo importante a questo incessante lavoro di ricostruzione storica sono stati gli affreschi presenti all’interno delle case di queste città, che ci sono stati restituiti dal tempo in uno stato di conservazione talvolta eccellente e comunque mediamente molto buono e ben leggibile.
La collezione degli affreschi dell’area vesuviana distaccati dalle pareti e custoditi oggi presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli conta di circa tremila unità e ha una precisa data di nascita,
il 23 giugno del 1739, quando avvenne il primo distacco a cura dell’ingegner Rocco Gioacchino de Alcubierre, responsabile degli scavi in area vesuviana per conto di Carlo III, in occasione del ritrovamento del primo affresco: un fregio con un delfino, un mostro marino e due leoni. Il luogo del ritrovamento è la città di Ercolano e da quel momento si procedette al distacco quasi sistematico degli affreschi che perdurò fino al XIX secolo, quando venne opportunamente deciso di lasciare in loco quelle meraviglie proteggendole adeguatamente.
I soggetti rappresentati e la qualità dell’esecuzione, assieme alla ricerca archeologica all’interno delle domus e alle fonti storiche antiche, hanno permesso agli studiosi di recuperare informazioni utili, consentendo non di rado di risalire al nome e alle attività del dominus, il padrone di casa, e al suo ruolo all’interno della società in cui viveva.
Ad esempio la domus di Marco Lucrezio Frontone situata nella Regio V di Pompei, presenta una raffinata decorazione pittorica con rimandi letterari e artistici che intendono evidenziare l’elevato livello culturale del proprietario. In particolare nel tablino, lo spazio utilizzato come luogo di ricevimento, possiamo osservare una decorazione nel tardo IV stile, con il trionfo di Bacco e Arianna e gli amori di Venere e Marte, affiancati da immagini di ville marittime e di nature morte. Nel triclinio, la sala da pranzo, in un pannello posto al centro di una parete troviamo l’affresco che racconta dell’uccisione di Neottolemo da parte di Oreste davanti al tempio dei Delfi, mentre nel cubicolo, la camera da letto, probabilmente in uso alla padrona di casa, al centro della parete destra troviamo Arianna che porge il filo a Teseo e su quella sinistra una Venere allo specchio intenta a farsi acconciare i capelli. Al di sopra della porta d’ingresso si riconosce, se pur parzialmente deteriorato, un affresco che ci riporta alle vicende della Guerra di Troia. In un altro cubicolo troviamo Narciso mentre osserva sé stesso riflesso nell’acqua e Perona che allatta Micone.
Marco Lucrezio Frontone era un uomo politico membro di una delle più influenti famiglie di Pompei, candidato a cariche pubbliche come edile e duoviro (sulla facciata della sua abitazione sono vergate delle iscrizioni di propaganda elettorale, in una di esse è definito come “vir fortis et honestus”) e la domus doveva assolvere al delicato compito di raccontare ai visitatori il dominus, anche attraverso il repertorio di immagini scelto per decorare gli ambienti.
In mostra ne è esempio la Casa di Giasone in un allestimento che ricostruisce i cubicoli “g” ed “e” della splendida domus pompeiana che si estendeva su circa 400 mq con una storia edilizia assai lunga, terminata nella prima metà del I sec. d.C. Il suo nome deriva dalle pitture del cubicolo “f” (presenti in mostra ma non allestite in un cubicolo) che raccontano dell’incontro tra il re di Pelia e l’eroe Giasone da cui poi avranno inizio le avventure legate alla ricerca degli Argonauti.
Questa ricca abitazione pompeiana è nota anche come “Casa dell’Amor Fatale”, per via delle pitture che adornavano il cubicolo “g” (allestito in mostra) in cui sono presenti le figure femminili protagoniste della tragedia greca: Fedra, Medea ed Elena.
Corridoi e stanze venivano affrescate creando assi visivi e veri e propri percorsi da seguire per rimarcare lo status culturale ed economico del proprietario, in sinergia con le botteghe artigiane che operavano nelle città, in grado di fornire alle committenze – soprattutto a quelle più ricche – un servizio completo fatto anche di cataloghi, di cartoni con i vari soggetti e, forse, prevedendo dei tour nelle dimore dove già le botteghe avevano operato per mostrare il proprio “portfolio clienti”.
La mostra “I Pittori di Pompei. Affreschi romani dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli”, che ha preso forma nell’ambito di una proficua collaborazione tra il Museo Civico Archeologico di Bologna e il Museo Civico Archeologico di Napoli e curata da un archeologo di grande sensibilità ed esperienza come Mario Grimaldi, parte proprio da questo aspetto e si propone di rivalutare la figura di coloro che hanno eseguito materialmente gli affreschi nelle domus dell’area vesuviana, dando forma e colore ai desideri dei committenti e consentendo a noi di poter ancora vivere “l’inganno splendido, l’artificio per la perfetta realizzazione dell’immaginario, dove l’irreale e il tangibile si confondevano, e la memoria e i sensi erano condotti a saltanti visioni” (Paolo Moreno, archeologo e storico dell’arte antica; citazione dal catalogo della mostra edito da Mondo Mostre).
I Pittori
Nell’osservare le pitture che provengono dalle città sepolte dall’eruzione del Vesuvio, siamo consapevoli di trovarci di fronte a delle opere d’arte. Tuttavia nella concezione moderna di “opera d’arte” – pur nelle sue infinte declinazioni – è determinante la figura dell’artista che esprime la propria creatività nel soggetto, nella forma e nel contenuto che intende comunicare. Potremmo dire che l’opera d’arte dà concretezza visiva alla vitalità interiore dell’esecutore, influita e suggestionata da ciò che assorbe dal tessuto sociale dove vive e svolge la propria attività.
L’artista moderno crea anche su commissione ovviamente, ma crea anche e soprattutto in modo indipendente, proponendo al mondo la propria visione sugli aspetti che decide di indagare e facendo in modo che l’opera gli venga attribuita con certezza. Per il committente moderno, dunque, non è possibile separare il nome dell’artista dall’opera che ha creato, perché la sua figura ne permea l’essenza.
Ma nell’arte della Roma antica il pictor è anonimo e la sua abilità si fonde e confonde con la necessità del committente di decorare adeguatamente le proprie domus, senza che vi siano indicati maestri e con l’esistenza di botteghe che la documentazione mostra in filigrana.
Nella sua Naturalis Historia Plinio il Vecchio ci dà contezza dell’evoluzione del pittore a partire dalla Grecia. “Appare ammirevole la saggezza degli antichi: essi, infatti, non abbellivano le pareti soltanto per i signori e i padroni, né decoravano case che sarebbero rimaste sempre in quel luogo e sottoposte quindi alla distruzione per gli incendi” afferma il filosofo e naturalista, e “non c’è gloria se non per coloro che dipinsero quadri”, riferendosi a quegli artisti che decoravano gli edifici cittadini e lo spazio pubblico, definendoli come “proprietà dell’universo”.
L’accento quindi si sposta dall’arte all’artista, proprietà dell’universo in Grecia e un semplice decoratore d’interni nella società romana, un mestiere relegato a coloro che non erano in grado di partecipare alla vita politica e militare, a liberti, donne e schiavi.
Un raffronto, che a me viene spontaneo per formazione e deformazione, è quello con l’antico
Egitto del Nuovo Regno, un periodo storico che si colloca all’incirca tra il 1500 e il 1000 a.C., durante il quale fu creato un apposito villaggio per ospitare una vera e propria corporazione di artigiani/artisti.
L’area archeologica è conosciuta ai più con il toponimo moderno di Deir el Medina (trad. Il monastero della città), mentre per gli antichi egizi era Ta Set Maat, la Sede della Verità. I Servitori della Sede della Verità hanno realizzato nel corso di cinque secoli tutte le tombe presenti nella Valle dei Re e delle Regine, dalla splendida sepoltura della regina Nefertari a quella immensa di Seti I, dalla singolare tomba di Thutmosi III in cui le figure e i geroglifici sono vergati con la stessa rapida agilità dedicata alle scritture ieratiche su papiro, fino alla minuscola sepoltura del giovane Tutankhamon.
Nessuno di loro ha apposto la propria firma in calce all’opera che ha realizzato, in una società dove l’arte era strumento esclusivo della religione e vincolata a rigidi canoni, espressione di precise speculazioni teologiche e destinata a luoghi accessibili a pochissimi (templi) o sigillati per l’eternità (sepolture).
I nomi di alcuni degli artisti/artigiani che decorarono mirabilmente le sepolture dei sovrani sepolti nella Valle dei Re li conosciamo perché – e qui ricordo l’esempio del mio studio “congelato” in un’ipotetica catastrofe – ricavati da documenti d’archivio che ci sono pervenuti su supporti differenti, in genere papiro e ostraka, grazie al lavoro e alle indagini degli archeologi, oltre alle tombe che loro stessi si prepararono ai margini del villaggio.
Così sappiamo che Amennakhte, figlio di Ipuy, Scriba della tomba dal sedicesimo anno di regno di Ramesse III, era capostipite di una famiglia che vanta ben sei generazioni di scribi…oppure…di Kenherkhepeshef, Scriba nella Sede della Verità durante il regno di Ramesse II, che nel Papiro Salt 124 è sospettato di aver accettato una “mazzetta” da un certo Paneb per dichiarare il falso e salvarlo da un’accusa.
Ma anche nell’antico Egitto l’opera non ha autore. L’analisi della documentazione antica ha consentito di capire le tecniche e gli strumenti utilizzati, le varie fasi di lavorazione, le professionalità che si alternavano durante la realizzazione della tomba e tuttavia, lasciando navigare lo sguardo tra le migliaia e migliaia di metri quadrati di pitture e iscrizioni, possiamo solo immaginare gruppi di uomini intenti a portare avanti il proprio lavoro con perizia in una sorta di arte plurale, frutto di tante mani capaci di muoversi in armonia, che resta però arte anonima.
Sembra di raccontare di arti differenti, che si modificano a seconda dell’epoca e delle società, dei committenti e degli esecutori. In realtà a ben riflettere si tratta di una sola arte che viene usata in modo differente. I pittori “patrimonio dell’universo” che abbelliscono gli spazi pubblici in Grecia; i pictores delle città sepolte dal Vesuvio che creano immagini su pareti come parole vergate su fogli di carta, presentando ai visitatori il dominus; gli artisti/artigiani egizi le cui opere erano destinate principalmente al buio eterno delle sepolture dei loro re o dei ricchi committenti della loro epoca.
Sono tutte mani che si muovono su una superficie neutra su cui prende forma la meraviglia, su cui si concretizza un pensiero, un mito. Le dita come docili esecutrici lasciano segni ispirati da un anelito divino talmente semplice da essere inspiegabile.
È così da sempre. O almeno da quando l’uomo ha scelto di trasformare un sasso levigato privo di forma in uno strumento bifacciale, un’amigdala, nella ricerca di un’inutile simmetria. Non c’era motivo, ma doveva farlo.
Attraversate, dunque, le sale di questa mostra con calma e prendetevi il tempo di leggere ciò che Mario Grimaldi ha visto tra i colori delle pitture pompeiane, cercando tra quelle opere l’anelito divino che è “inganno splendido” in ogni epoca, ad ogni latitudine. Lasciate che lo sguardo scorga ogni dettaglio, ogni suono di pennello, perché è proprio lì che si trova il senso profondo di ciò che noi chiamiamo arte.
GALLERY:
Sono uno dei progettisti dell’allestimento della mostra pittori di Pompei.
Bel servizio. Consiglio di ricordarsi anche di citare gli autori del progetto dell’allestimento senza il quale la mostra non sarebbe leggibile….
E sicuramente meno bella. Grazie
Paolo Capponcelli
paolocapponcelli@panstudioarchitetti.it
Ha perfettamente ragione e mi scuso per questa mancanza! Provvedo subito a citare Panstudio Architetti.
Paolo Bondielli