Visitare la mostra “I Pittori di Pompei” al Museo Civico Archeologico di Bologna, mi ha portato a fare alcune riflessioni che voglio condividere con i lettori di MediterraneoAntico, nella speranza di portare un duplice contributo: incuriosire ed invogliare il maggior numero di persone a visitare questa splendida mostra e mettere a fuoco alcuni passaggi legati al mondo dell’archeologia. Ovviamente mi rivolgo a chi – come me – non è un addetto ai lavori e vuole fare un viaggio nell’antico, prendendosi il tempo di guardare oltre i contenuti dei comunicati stampa, utilissimi per avere le informazioni necessarie alla comprensione dell’evento e che su MediterraneoAntico abbiamo pubblicato più volte.

Per coloro che fossero interessati ecco i link:

I Pittori di Pompei: al Museo Archeologico di Bologna 100 opere raccontano i Pictores dell’Area Vesuviana.

I colori di Pompei al Museo Archeologico di Bologna

Prima di iniziare questa chiacchierata mi preme ringraziare i protagonisti di questa mostra: Museo Civico Archeologico di Bologna dove si snoda, attraverso le sue splendide sale, il percorso espositivo, un evento che ha sostenuto e fortemente voluto; Panstudio Architetti Associati che quel percorso espositivo lo hanno realizzato valorizzando e rendendo ben leggibile ogni singolo reperto; Museo Archeologico Nazionale di Napoli sempre generoso nel condividere il patrimonio che custodisce e pronto a cogliere ogni stimolo che porta alla condivisione della cultura. E, infine, la figura di un archeologo dalla grande esperienza e sensibilità, Mario Grimaldi, che ci ha regalato un punto di vista originale sulle città sepolte dal Vesuvio. Non era semplice, ma c’è riuscito!

Affresco con strumenti per scrittura, da Ercolano. Si data al I sec. d.C. – IV stile. Foto Paolo Bondielli.

Pompei è un luogo unico al mondo, nonostante la snervante e consueta abitudine di associarla a nuove scoperte che avvengono altrove e che nulla hanno a che fare con la sua storia e la sua archeologia.

Ogni qual volta devo rapportarmi a questa città antica il pensiero corre a quei momenti drammatici scanditi dalla terra che d’improvviso diventa malferma, con la cenere che oscura il sole e i lapilli che cadono dal cielo come proiettili. Immagino le donne e gli uomini intenti alle loro attività, abituati a vivere su una terra che trema e distrugge e che poi si ferma, torna ad essere quieta, e dà all’uomo il tempo di ricostruire.

Alcuni avranno pensato a come ripararsi nell’attesa che tutto passasse, come mille altre volte. Altri avranno pensato che una volta terminato tutto questo trambusto se ne sarebbero andati in cerca di un luogo più sicuro, come già avvenne all’indomani del terremoto del 62 d.C.

Ma il “formidabil monte sterminator Vesevo” aveva altri programmi e la città, come in un drammatico ed enorme scatto fotografico, si fermò congelata in quell’autunno del 79 d.C.

L’ingresso alla mostra. Foto: Paolo Bondielli.

Le vicende legate alla riscoperta dei luoghi sepolti dall’eruzione del Vesuvio sono note e raccontate in molti saggi. A sorprendermi, ogni volta, sono i materiali e le informazioni che gli archeologi hanno raccolto e continuano a raccogliere tuttora, in un’area archeologica non interessata da un progressivo e lento abbandono e priva degli stravolgimenti conseguenti a uno sviluppo urbano continuativo che modifica le funzioni degli spazi, dei contesti e la sua geografia.

Un po’ come se tutto finisse in questo preciso istante e qualcuno, chissà in quale futuro, ritrovasse nel mio studio questo scritto, sospeso proprio qui. La mia tazza del caffè appoggiata sulla scrivania tra gli appunti vergati a lapis su fogli riciclati e il mio scheletro, con le mani ancora sulla tastiera, recuperato e magari trasformato in calco con la tecnica messa a punto da colui che diresse gli scavi a Pompei nella seconda metà dell’Ottocento, Giuseppe Fiorelli!

Tutto l’arredo del mio studio finirebbe in un museo, tutelato e valorizzato, certamente più di quanto lo sia adesso! Ma ad essere davvero importante sarebbe la scoperta della tecnologia presente al suo interno, da quella informatica a quella dell’illuminazione, da quella del riscaldamento a quella della climatizzazione e poi l’attrezzatura fotografica, i numerosi testi in varie lingue…

Rilevante sarebbe anche la venuta alla luce di una struttura organizzata che si occupa di pubblicare materiale inerente alla storia antica e all’archeologia, che sottende un contenitore – la rivista – ed un mestiere. Perché gli archeologi non affrontano uno scavo per trovare e portare in salvo l’antico vaso, ma per il contesto che lo ha custodito e che dà al reperto la sua stessa ragione di esistere.

La prima sala accoglie il visitatore con una stampa dell’affresco della Pittrice, un quadro che proviene dalla Casa del Chirurgo, Regio VI, I, 10 (I sec. d.C. – IV stile) il cui originale è lungo il percorso di visita, assieme ad alcuni falsi realizzati da copisti nel Settecento e Ottocento. Foto: Paolo Bondielli.

Lo studio degli elementi che formano l’arredo del mio luogo di lavoro, compresi i quadri e le fotografie appese, potrebbe dare delle indicazioni sul mio status all’interno della società in cui ho vissuto e, pur se in modo parziale, potrebbe dare delle indicazioni sui gusti e le mode del mio tempo. Lo studio dei contenuti potrebbe invece dare indicazione sul regime fiscale in uso, di come si viaggiava, delle malattie e dei farmaci prescritti per curarle, della religione, delle abitudini alimentari e molto altro ancora.

È in questo modo (nell’esempio del mio studio e della mia dipartita espresso in estrema sintesi) che gli archeologi operano e

  hanno ricostruito la storia delle città sepolte dal Vesuvio, che hanno dato concretezza alla vita dei loro abitanti e rilevato lo sviluppo urbanistico che le ha interessate fino a quel drammatico 79 d.C.

A dare un contributo importante a questo incessante lavoro di ricostruzione storica sono stati gli affreschi presenti all’interno delle case di queste città, che ci sono stati restituiti dal tempo in uno stato di conservazione talvolta eccellente e comunque mediamente molto buono e ben leggibile.

Uno scorcio della prima sala con le copie realizzate tra il Settecento e l’Ottocento.. Foto: Paolo Bondielli.

La collezione degli affreschi dell’area vesuviana distaccati dalle pareti e custoditi oggi presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli conta di circa tremila unità e ha una precisa data di nascita,

il 23 giugno del 1739, quando avvenne il primo distacco a cura dell’ingegner Rocco Gioacchino de Alcubierre, responsabile degli scavi in area vesuviana per conto di Carlo III, in occasione del ritrovamento del primo affresco: un fregio con un delfino, un mostro marino e due leoni. Il luogo del ritrovamento è la città di Ercolano e da quel momento si procedette al distacco quasi sistematico degli affreschi che perdurò fino al XIX secolo, quando venne opportunamente deciso di lasciare in loco quelle meraviglie proteggendole adeguatamente.

I soggetti rappresentati e la qualità dell’esecuzione, assieme alla ricerca archeologica all’interno delle domus e alle fonti storiche antiche, hanno permesso agli studiosi di recuperare informazioni utili, consentendo non di rado di risalire al nome e alle attività del dominus, il padrone di casa, e al suo ruolo all’interno della società in cui viveva.

Ad esempio la domus di Marco Lucrezio Frontone situata nella Regio V di Pompei, presenta una raffinata decorazione pittorica con rimandi letterari e artistici che intendono evidenziare l’elevato livello culturale del proprietario. In particolare nel tablino, lo spazio utilizzato come luogo di ricevimento, possiamo osservare una decorazione nel tardo IV stile, con il trionfo di Bacco e Arianna e gli amori di Venere e Marte, affiancati da immagini di ville marittime e di nature morte. Nel triclinio, la sala da pranzo, in un pannello posto al centro di una parete troviamo l’affresco che racconta dell’uccisione di Neottolemo da parte di Oreste davanti al tempio dei Delfi, mentre nel cubicolo, la camera da letto, probabilmente in uso alla padrona di casa, al centro della parete destra troviamo Arianna che porge il filo a Teseo e su quella sinistra una Venere allo specchio intenta a farsi acconciare i capelli. Al di sopra della porta d’ingresso si riconosce, se pur parzialmente deteriorato, un affresco che ci riporta alle vicende della Guerra di Troia. In un altro cubicolo troviamo Narciso mentre osserva sé stesso riflesso nell’acqua e Perona che allatta Micone.

Marco Lucrezio Frontone era un uomo politico membro di una delle più influenti famiglie di Pompei, candidato a cariche pubbliche come edile e duoviro (sulla facciata della sua abitazione sono vergate delle iscrizioni di propaganda elettorale, in una di esse è definito come “vir fortis et honestus”) e la domus doveva assolvere al delicato compito di raccontare ai visitatori il dominus, anche attraverso il repertorio di immagini scelto per decorare gli ambienti.

Ricostruzione del cubicolo (g) della Casa di Giasone a Pompei. I sec. d.C. – III stile.
A partire da sinistra: Pan e le Ninfe, Europa su toro, Eracle, Deianira e Nesso. Foto: Paolo Bondielli.

In mostra ne è esempio la Casa di Giasone in un allestimento che ricostruisce i cubicoli “g” ed “e” della splendida domus pompeiana che si estendeva su circa 400 mq con una storia edilizia assai lunga, terminata nella prima metà del I sec. d.C. Il suo nome deriva dalle pitture del cubicolo “f” (presenti in mostra ma non allestite in un cubicolo) che raccontano dell’incontro tra il re di Pelia e l’eroe Giasone da cui poi avranno inizio le avventure legate alla ricerca degli Argonauti.

Questa ricca abitazione pompeiana è nota anche come “Casa dell’Amor Fatale”, per via delle pitture che adornavano il cubicolo “g” (allestito in mostra) in cui sono presenti le figure femminili protagoniste della tragedia greca: Fedra, Medea ed Elena.

Corridoi e stanze venivano affrescate creando assi visivi e veri e propri percorsi da seguire per rimarcare lo status culturale ed economico del proprietario, in sinergia con le botteghe artigiane che operavano nelle città, in grado di fornire alle committenze – soprattutto a quelle più ricche – un servizio completo fatto anche di cataloghi, di cartoni con i vari soggetti e, forse, prevedendo dei tour nelle dimore dove già le botteghe avevano operato per mostrare il proprio “portfolio clienti”.

Ricostruzione del cubicolo (e) della Casa di Giasone a Pompei. I sec. d.C. – III stile.
A partire da sinistra: Paride ed Elena, Medea e i figli, Fedra e nutrice. Per la presenza delle tre principali eroine della tragedia greca questa domus è conosciuta anche come Casa dell’amor fatale. Foto: Paolo Bondielli.

La mostra “I Pittori di Pompei. Affreschi romani dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli”, che ha preso forma nell’ambito di una proficua collaborazione tra il Museo Civico Archeologico di Bologna e il Museo Civico Archeologico di Napoli e curata da un archeologo di grande sensibilità ed esperienza come Mario Grimaldi, parte proprio da questo aspetto e si propone di rivalutare la figura di coloro che hanno eseguito materialmente gli affreschi nelle domus dell’area vesuviana, dando forma e colore ai desideri dei committenti e consentendo a noi di poter ancora vivere “l’inganno splendido, l’artificio per la perfetta realizzazione dell’immaginario, dove l’irreale e il tangibile si confondevano, e la memoria e i sensi erano condotti a saltanti visioni” (Paolo Moreno, archeologo e storico dell’arte antica; citazione dal catalogo della mostra edito da Mondo Mostre).

Uno dei modelli iconografici che ha avuto una straordinaria fortuna è quello che ritrae Aglaia, Eufrisine e Talia, le Tre Grazie. Non è noto il nome di colui che tra il IV e III sec. a.C. decise di ritrarre in questa posa le tre sorelle divine, ma di certo la sua intuizione superò la misura del tempo arrivando a coinvolgere Raffaello, Botticelli, Canova e Picasso.
L’affresco proviene da Pompei, Masseria di Cuomo – Irace e si data al I sec. d.C. – IV stile. Foto: Paolo Bondielli.

I Pittori

Nell’osservare le pitture che provengono dalle città sepolte dall’eruzione del Vesuvio, siamo consapevoli di trovarci di fronte a delle opere d’arte. Tuttavia nella concezione moderna di “opera d’arte” – pur nelle sue infinte declinazioni – è determinante la figura dell’artista che esprime la propria creatività nel soggetto, nella forma e nel contenuto che intende comunicare. Potremmo dire che l’opera d’arte dà concretezza visiva alla vitalità interiore dell’esecutore, influita e suggestionata da ciò che assorbe dal tessuto sociale dove vive e svolge la propria attività.

L’artista moderno crea anche su commissione ovviamente, ma crea anche e soprattutto in modo indipendente, proponendo al mondo la propria visione sugli aspetti che decide di indagare e facendo in modo che l’opera gli venga attribuita con certezza. Per il committente moderno, dunque, non è possibile separare il nome dell’artista dall’opera che ha creato, perché la sua figura ne permea l’essenza.

Ma nell’arte della Roma antica il pictor è anonimo e la sua abilità si fonde e confonde con la necessità del committente di decorare adeguatamente le proprie domus, senza che vi siano indicati maestri e con l’esistenza di botteghe che la documentazione mostra in filigrana.

Nella sua Naturalis Historia Plinio il Vecchio ci dà contezza dell’evoluzione del pittore a partire dalla Grecia. “Appare ammirevole la saggezza degli antichi: essi, infatti, non abbellivano le pareti soltanto per i signori e i padroni, né decoravano case che sarebbero rimaste sempre in quel luogo e sottoposte quindi alla distruzione per gli incendi” afferma il filosofo e naturalista, e “non c’è gloria se non per coloro che dipinsero quadri”, riferendosi a quegli artisti che decoravano gli edifici cittadini e lo spazio pubblico, definendoli come “proprietà dell’universo”.

Uno scorcio della seconda sala. Foto: Paolo Bondielli.

L’accento quindi si sposta dall’arte all’artista, proprietà dell’universo in Grecia e un semplice decoratore d’interni nella società romana, un mestiere relegato a coloro che non erano in grado di partecipare alla vita politica e militare, a liberti, donne e schiavi.

Un raffronto, che a me viene spontaneo per formazione e deformazione, è quello con l’antico

Egitto del Nuovo Regno, un periodo storico che si colloca all’incirca tra il 1500 e il 1000 a.C., durante il quale fu creato un apposito villaggio per ospitare una vera e propria corporazione di artigiani/artisti.

L’area archeologica è conosciuta ai più con il toponimo moderno di Deir el Medina (trad. Il monastero della città), mentre per gli antichi egizi era Ta Set Maat, la Sede della Verità. I Servitori della Sede della Verità hanno realizzato nel corso di cinque secoli tutte le tombe presenti nella Valle dei Re e delle Regine, dalla splendida sepoltura della regina Nefertari a quella immensa di Seti I, dalla singolare tomba di Thutmosi III in cui le figure e i geroglifici sono vergati con la stessa rapida agilità dedicata alle scritture ieratiche su papiro, fino alla minuscola sepoltura del giovane Tutankhamon.

Nessuno di loro ha apposto la propria firma in calce all’opera che ha realizzato, in una società dove l’arte era strumento esclusivo della religione e vincolata a rigidi canoni, espressione di precise speculazioni teologiche e destinata a luoghi accessibili a pochissimi (templi) o sigillati per l’eternità (sepolture).

I nomi di alcuni degli artisti/artigiani che decorarono mirabilmente le sepolture dei sovrani sepolti nella Valle dei Re li conosciamo perché – e qui ricordo l’esempio del mio studio “congelato” in un’ipotetica catastrofe – ricavati da documenti d’archivio che ci sono pervenuti su supporti differenti, in genere papiro e ostraka, grazie al lavoro e alle indagini degli archeologi, oltre alle tombe che loro stessi si prepararono ai margini del villaggio.

Così sappiamo che Amennakhte, figlio di Ipuy, Scriba della tomba dal sedicesimo anno di regno di Ramesse III, era capostipite di una famiglia che vanta ben sei generazioni di scribi…oppure…di Kenherkhepeshef, Scriba nella Sede della Verità durante il regno di Ramesse II, che nel Papiro Salt 124 è sospettato di aver accettato una “mazzetta” da un certo Paneb per dichiarare il falso e salvarlo da un’accusa.

Un video proiettato in una sala di passaggio. Foto: Paolo Bondielli.

Ma anche nell’antico Egitto l’opera non ha autore. L’analisi della documentazione antica ha consentito di capire le tecniche e gli strumenti utilizzati, le varie fasi di lavorazione, le professionalità che si alternavano durante la realizzazione della tomba e tuttavia, lasciando navigare lo sguardo tra le migliaia e migliaia di metri quadrati di pitture e iscrizioni, possiamo solo immaginare gruppi di uomini intenti a portare avanti il proprio lavoro con perizia in una sorta di arte plurale, frutto di tante mani capaci di muoversi in armonia, che resta però arte anonima.

Sembra di raccontare di arti differenti, che si modificano a seconda dell’epoca e delle società, dei committenti e degli esecutori. In realtà a ben riflettere si tratta di una sola arte che viene usata in modo differente. I pittori “patrimonio dell’universo” che abbelliscono gli spazi pubblici in Grecia; i pictores delle città sepolte dal Vesuvio che creano immagini su pareti come parole vergate su fogli di carta, presentando ai visitatori il dominus; gli artisti/artigiani egizi le cui opere erano destinate principalmente al buio eterno delle sepolture dei loro re o dei ricchi committenti della loro epoca.

Nella terza sala si indagano due aspetti importanti: i modelli/soggetti e il mito. La foto mostra due affreschi in cui si ritrovano alcuni indizi che riportano ad uno schema, ad un modello preciso. Si tratta degli affreschi con soggetto di Achille e Sciro provenienti entrambi da Pompei ma da due domus diverse: Casa dei Dioscuri (a sinistra nella foto) e Casa di Achille (a destra nella foto), entrambi datati al I sec. d.C. e in IV stile.
Nel lato destro della foto sono presenti due affreschi che raccontano di Polifemo provenienti da Ercolano (l’affresco più piccolo) e dalla Casa del Laocoonte di Pompei (l’affresco più grande). Entrambi si datano al I sec. d.C. – IV stile. Foto: Paolo Bondielli.

Sono tutte mani che si muovono su una superficie neutra su cui prende forma la meraviglia, su cui si concretizza un pensiero, un mito. Le dita come docili esecutrici lasciano segni ispirati da un anelito divino talmente semplice da essere inspiegabile.

È così da sempre. O almeno da quando l’uomo ha scelto di trasformare un sasso levigato privo di forma in uno strumento bifacciale, un’amigdala, nella ricerca di un’inutile simmetria. Non c’era motivo, ma doveva farlo.

Attraversate, dunque, le sale di questa mostra con calma e prendetevi il tempo di leggere ciò che Mario Grimaldi ha visto tra i colori delle pitture pompeiane, cercando tra quelle opere l’anelito divino che è “inganno splendido” in ogni epoca, ad ogni latitudine. Lasciate che lo sguardo scorga ogni dettaglio, ogni suono di pennello, perché è proprio lì che si trova il senso profondo di ciò che noi chiamiamo arte.

GALLERY:

Uno sguardo sul percorso espositivo. Foto: Paolo Bondielli.
Lucerna a forma di piede destro calzato da sandalo in bronzo dorato. Provenienza sconosciuta. Collezione Palagi, si data alla seconda metà del I sec. d.C. ed è custodito dal Museo Civico Archeologico di Bologna. Foto: Paolo Bondielli.
Coppetta con colore blu. Da Pompei, I sec. d.C. Foto: Paolo Bondielli.
Coppetta con colore rosso. Da Pompei, I sec. d.C. Foto: Paolo Bondielli.
Coppetta con colore rosa. Da Pompei, I sec. d.C. Foto: Paolo Bondielli.
Stucco policromo con atleta, dal ninfeo della Villa di San Marco a Stabia. I sec. d.C. – IV stile. L’atleta collocato dentro un elegante tholos, con colonne corinzie e racchiuse a fusto in foglie a calice, ripropone la posa dell’Apollo liceo con il braccio destro sollevato sulla testa e la gamba sinistra scartata di lato. Foto: Paolo Bondielli.
Dettaglio dello stucco policromo di atleta della foto precedente. Foto: Paolo Bondielli.
Maschera tra grappoli d’uva e viti. Questo splendido affresco, scelto per la copertina del catalogo che accompagna la mostra, proviene dal triclinio della Casa di V. Popidius o Casa delle colombe a mosaico, a Pompei. Si data al I sec. d.C. – III stile. Foto: Paolo Bondielli.
Alcuni perpendiculae, fili a piombo. Da Pompei, I sec. d.C. utilizzati dai pictores per realizzare le quadrettature necessarie all’esecuzione degli affreschi sulle pareti. Foto: Paolo Bondielli.
Molti degli oggetti presenti negli affreschi erano utilizzati nella vita quotidiana dei pompeiani, come questo tavolino a tre piedi proveniente in bronzo da Pompei, Casa dei Vasi di vetro o Casa del Granduca Michele. I sec. d.C. Foto: Paolo Bondielli.
Il dettaglio della foto precedente mostra un elegante levriero. Foto: Paolo Bondielli.
Un divano a due sedute (bisellio) come appare in alcuni affreschi, realizzato in bronzo e legno. L’esempio qui mostrato è frutto di restauri settecenteschi che hanno assemblato parti di diversi elementi moderni e antichi, peraltro non pertinenti tra loro. Foto: Paolo Bondielli.
Dettaglio del bisellio mostrato per intero nella foto precedente. Foto: Paolo Bondielli.
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Paolo Bondielli

Storico, studioso della Civiltà Egizia e del Vicino Oriente Antico da molti anni. Durante le sue ricerche ha realizzato una notevole biblioteca personale, che ha messo a disposizione di appassionati, studiosi e studenti. E’ autore e coautore di saggi storici e per Ananke ha pubblicato “Tutankhamon. Immagini e Testi dall’Ultima Dimora”; “La Stele di Rosetta e il Decreto di Menfi”; “Ramesse II e gli Hittiti. La Battaglia di Qadesh, il Trattato di pace e i matrimoni interdinastici”.

E’ socio fondatore e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Associazione Egittologia.net. Ha ideato e dirige in qualità di Direttore Editoriale, il magazine online “MA – MediterraneoAntico”, che raccoglie articoli sull’antico Egitto e sull’archeologia del Mediterraneo. Ha ideato e dirige un progetto che prevede la pubblicazione integrale di alcuni templi dell’antico Egitto. Attualmente, dopo aver effettuato rilevazioni in loco, sta lavorando a una pubblicazione relativa Tempio di Dendera.

E’ membro effettivo del “Min Project”, lo scavo della Missione Archeologica Canario-Toscana presso la Valle dei Nobili a Sheik abd el-Gurna, West Bank, Luxor. Compie regolarmente viaggi in Egitto, sia per svolgere ricerche personali, sia per accompagnare gruppi di persone interessate a tour archeologici, che prevedono la visita di siti di grande interesse storico, ma generalmente trascurati dai grandi tour operator. Svolge regolarmente attività di divulgazione presso circoli culturali e scuole di ogni ordine e grado, proponendo conferenze arricchite da un corposo materiale fotografico, frutto di un’intensa attività di fotografo che si è svolta in Egitto e presso i maggiori musei d’Europa.

2 Commenti

  1. Sono uno dei progettisti dell’allestimento della mostra pittori di Pompei.
    Bel servizio. Consiglio di ricordarsi anche di citare gli autori del progetto dell’allestimento senza il quale la mostra non sarebbe leggibile….
    E sicuramente meno bella. Grazie
    Paolo Capponcelli
    paolocapponcelli@panstudioarchitetti.it

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