Come è noto, alle donne nell’ antica Roma erano precluse l’attività politica e quella forense, non due realtà diverse ma anzi inestricabili, poiché l’idea di civis romanus passava dall’ oratoria come strumento per fare negotium (politica). Era il possesso della parola da parte di chi doveva esserne escluso il vero pericolo, la parola che sovrintende all’oratoria e, conseguentemente, alla politica.

Lo prova anche l’emarginazione della donna dalla pratica di bere vino, che scioglie la lingua e pone le fondamenta dello stravolgimento degli equilibri all’interno della famiglia e della res publica, come afferma Plutarco nelle “Vite parallele” (Vita di Numa, 3,1) a proposito del “mos maiorum” stabilito da Numa Pompilio.

Eppure è esistita una donna che ha infranto il tabù. Si chiamava Ortensia ed era la figlia del grande oratore Quinto Ortensio Ortalo e della moglie di quest’ultimo, Lutazia, figlia di Servilia e di Quinto Lutazio Catulo. Nata probabilmente attorno all’ 80 a.C., il suo nome viene ancora oggi ricordato perché con grande coraggio pronunciò un’orazione davanti ai triumviri, nel 42 a.C. Un’orazione che sarebbe dovuta essere pronunciata da un uomo, se non fosse che nec quisquam virorum patrocinium eis accomodare auderet (trad.nessun uomo aveva osato assumere il loro patrocinio”), come specifica lo storico Valerio Massimo nei suoi  “Factorum et dictorum memorabilium libri” (IX, 8.3.3).

Ortensia oratrice

Il padre di Ortensia, che aveva difeso il questore Gaio Verre contro Cicerone e che in seguito era diventato grande amico dell’Arpinate, l’aveva educata in maniera singolare, considerati i costumi romani: Ortensia, infatti, aveva avuto accesso alla letteratura greca e latina fin dalla più giovane età e in seguito aveva approfondito gli studi retorici, anche per la fascinazione che suo padre esercitava sulla sua persona, esercitandosi anche sullo stile di Ortensio, il maggior esponente dell’asianesimo a Roma.

Probabilmente sposò il suo secondo cugino, Quinto Servilio Cepione, figlio di Quinto Servilio il Giovane e fratellastro di Catone Uticense. La sorella di Cepione, Servilia, diventò la madre del cesaricida Marco Giunio Bruto, che ebbe forse da Cesare, per lungo tempo suo amante.

Ma quale fu l’occasione che permise ad Ortensia di mettere in mostra le proprie doti oratorie?

Nel 42 a.C. i triumviri Antonio, Lepido e Ottaviano emanarono un provvedimento straordinario, secondo il quale 1400 matrone, effettuata una stima dei propri beni e in proporzione alla loro entità, avrebbero dovuto contribuire alle spese della guerra che si stava combattendo in Oriente contro i cesaricidi.

Marco Antonio. Busto dei Musei Vaticani.

Appare di tutta evidenza che la pesantezza fiscale del provvedimento fosse destinata a colpire una parte della classe dirigente romana e precisamente quella costituita dai nemici politici dei triumviri. Nel provvedimento i triumviri specificavano che eventuali menzogne relative alla stima sarebbero state punite a norma di legge e che sarebbero state incoraggiate anche le delazioni, sia di liberi che di schiavi. La prima reazione delle matrone interpellate fu quella di cercare una mediazione familiare: si rivolsero alle donne dei triumviri (mogli, madri e sorelle) affinché le aiutassero a trovare una soluzione di compromesso. Ottavia, sorella di Ottaviano, e Giulia, madre di Antonio, accolsero la petizione; Fulvia, moglie di Antonio, la respinse.  La prima era stata coinvolta in quanto sorella di Ottaviano, ma forse anche perché nipote acquisita di Marzia, matrigna di Ortensia (su Marzia vedi l’articolo della scrivente: La moglie “in prestito”: il caso di Marzia e Catone Uticense).

Marzia era figlia di Lucio Marcio Filippo, patrigno di Ottavia. Ottavia, inoltre, era sposata con Gaio Claudio Marcello che, pur avendo ottenuto il perdono di Cesare per le sue scelte politiche, manteneva relazioni con i suoi nemici.

Marzia Catonis

Ma forse la vera speranza di Ortensia era Giulia e questo appare singolare. Antonio sarebbe dovuto essere raggiunto tramite la moglie, ma le matronae scelsero di avvicinarlo anche per mezzo della madre (Lucchelli – Rohr Vio: “La ricchezza delle matrone: Ortensia nella dialettica politica al tramonto della Repubblica”, in “Femmes influentes dans le monde hellénistique et à Roma”).

Forse temevano che Fulvia non avrebbe acconsentito alla richiesta? O forse Antonio richiedeva un “surplus” di convincimento, perché poco malleabile sull’argomento? C’è una terza spiegazione, forse la più convincente: la propaganda di Ottaviano, volta a demonizzare in epoca successiva la figura di Antonio, potrebbe spiegare l’enfasi sul rifiuto di Fulvia alla mediazione e la narrazione tramandata.

Appiano, la fonte principale sulla vicenda, riporta in forma diretta il discorso tenuto da Ortensia. È probabile che la matrona avesse letto o recitato un testo, naturalmente in latino, anche se la trascrizione che lo storico di Alessandra ne diede è in lingua greca. Non sappiamo se avesse avuto l’opportunità di visionare l’originale, né se avesse aggiunto del suo. Sappiamo però che l’orazione aveva avuto successo e non solo ai suoi tempi se Quintiliano, che pure sosteneva il modello oratorio ciceroniano, tessé un elogio dello stile asiano dell’orazione. Ricordiamo che Ortensia, considerato che aveva seguito le orme del padre, doveva anche condividerne le inclinazioni stilistiche e che la sua oratio doveva seguire, pertanto, le regole dell’asianesimo: frasi brevi e spezzate, concettosità, amore del nuovo e del prezioso. Tutt’altro stile da quello atticista, dunque.

Ad ogni modo, Quintiliano testimonia che ai suoi tempi quell’oratio veniva ancora letta. E non si limita a dire questo. Aggiunge dell’altro (Institutio oratoria, I, 1,6).

Quanto poi ai genitori, desidererei che in loro ci fosse quanta più cultura possibile. E non parlo soltanto dei padri: sappiamo infatti che all’eloquenza dei Gracchi contribuì molto la madre Cornelia, della quale il linguaggio pieno di erudizione è stato tramandato anche ai posteri nelle lettere; e si dice che la figlia di Lelio rendesse nella parola l’eleganza paterna, e l’orazione della figlia di Q. Ortensio, presso i triumviri, è letta non solo per fare onore al suo sesso.”

“E’ letta non solo per fare onore al suo sesso.” Questo notevole apprezzamento insinua il dubbio che l’oratio di Ortensia fosse conservata presso le scuole di retorica, sia per il valore della stessa, che per l’esempio di asianesimo a cui era improntata. Era un modello anti-ciceroniano prezioso per i maestri, che avrebbero potuto utilizzarlo per insegnare ai discepoli quali scogli evitare nella “navigazione” oratoria, per citare la bella metafora cesariana contenuta nel “De analogia”.

Institutio Oratoria

Lo storico di età giulio-claudia Valerio Massimo, non volendo affermare le qualità oratorie di Ortensia perché impeditone dal suo tradizionalismo, ne spiegò il successo sottolineando il legame di sangue tra padre e figlia: secondo lo storico, infatti, Ortensia si era limitata a prestare la sua voce a quella del padre, ormai defunto (Factorum et dictorum memorabilium libri IX, 8.3.3):

«Revixit tum muliebri stirpe Q. Hortensius verbisque filiae aspiravit, cuius si virilis sexus posteri vim sequi voluissent, Hortensianae eloquentiae tanta hereditas una feminae actione abscissa non esset.»

Trad.

«Parve allora rivivere nella figlia Quinto Ortensio ed ispirarne le parole: del quale se i posteri di sesso maschile avessero voluto imitarne l’efficacia, la grande eredità dell’eloquenza di Ortensio non sarebbe finita con la sola orazione di una donna.»

Una sorta di medium, di tramite del valore paterno, non una donna dalle caratteristiche originali e dal forte spessore culturale. Eppure, sebbene Valerio Massimo si sforzi di effettuare una vera e propria deminutio capitis della personalità di Ortensia, a ben leggere l’oratio ci rendiamo conto che essa è ispirata ad una visione politica conservatrice, cosa che sarebbe dovuta piacere allo storico. Prova ne sia che le matrone destinatarie del provvedimento provenivano da famiglie di optimates i cui uomini non potevano esporsi perché proscritti, e dunque impossibilitati de facto e de iure ad intervenire, come sarebbe stato auspicabile.

Il discorso di Ortensia violava sì il mos maiorum, che proibiva alle donne l’accesso al foro, ma aveva una sua doppia giustificazione: la prima era l’assenza forzata dei mariti, che “costringeva” le loro donne ad intervenire al posto loro; la seconda, ancora più stravagante, era l’ingiustificato (anche per la legge dell’ospitalità romana) rifiuto da parte di Fulvia ad accettare la mediazione (Cenerini, La donna romana). Ortensia dice addirittura di essere stata “costretta” dal rifiuto di Fulvia a presentarsi al Foro.

Insomma, se il mos maiorum era stato violato, la responsabilità non era stata delle donne.

Ma lasciamo la parola alla stessa Ortensia nella narrazione di Appiano di Alessandria (Ῥωμαικά, Bella civilia, IV, 32).

Voi ci avete prima tolto padri, figli, mariti, fratelli (…). Se ora ci togliete anche i beni ci ridurrete a stato indegno della stirpe, dei costumi e del sesso. Se vi dite offesi da noi come dagli uomini, proscrivete anche noi, come quelli.

 L’argomentazione addotta da Ortensia è di grande efficacia. Rivolgendosi direttamente ai triumviri, la figlia di Ortensio fa appello al decoro a cui devono tradizionalmente essere improntati la stirpe,  i costumi e il sesso, e provocatoriamente sfida i triumviri affinché proscrivano anche le donne, così hanno già fatto con i loro uomini. Solo così il provvedimento fiscale avrebbe senso.

Ricordiamo che le proscrizioni di epoca sillana avevano visto il passaggio improvviso di vasti patrimoni da una mano all’altra e i parenti di Ortensia lo avevano sperimentato in maniera diretta. Parentele “sillane”, quelle di Ortensia: suo padre, Quinto Ortensio Ortalo, probabilmente pronunciò l’orazione funebre per la morte di Silla, e sillano era anche lo zio materno, Quinto Lutazio Catulo.  Difficili anche i rapporti con i triumviri: il fratello di Ortensia, Ortensio Ortalo, era stato proscritto da Antonio nel 43 e sgozzato dopo Filippi sulla tomba del fratello del triumviro, che Ortensio aveva fatto condannare a morte dopo le idi di Marzo.

Lucio Cornelio Silla

Anche il patrimonio della famiglia di Ortensia era stato confiscato. La casa del grande oratore, passata alla sua morte al figlio, entrò nei possedimenti di Ottaviano che scelse di non abbatterla, ma di ristrutturarla radicalmente e di abitarvi. E contigui ai conservatori erano altri parenti:  il marito di Ortensia, Quinto Servilio Cepione, era il padre adottivo di Marco Giunio Bruto, il cesaricida, in quel momento in Oriente per combattere contro i cesariani, e anticesariano era Catone Uticense, imparentato anche lui con Ortensia.

Insomma, appare di tutta evidenza come la famiglia allargata, di cui Ortensia faceva parte, non era solo un nucleo familiare, ma anche un gruppo politicamente orientato. Di fatto, difendendo le donne, Ortensia difende anche se stessa e il ruolo della sua famiglia nella società romana.

Il contesto storico è delineato chiaramente nel discorso di Ortensia, quando la donna fa riferimento ad Antonio e a Lepido definendoli “hostes publici”. La donna pare in primo luogo riferirsi al provvedimento con cui il 30 giugno del 43 a.C. il senato dichiarò Lepido, come già Antonio, nemico pubblico, dopo la sconfitta di quest’ultimo a Modena e l’alleanza tra i due in Gallia il 29 maggio.

Così Appiano di Alessandria (Ῥωμαικά, Bella civilia, IV, 32, 139), riportando il discorso di Ortensia:

Ma se nessuna di noi donne votò che voi foste dichiarati nemici pubblici, né si impadronì con la violenza della vostra casa, o annientò il vostro esercito o trasse a sé un altro esercito, o vi impedì di conseguire una carica pubblica o un onore qualunque, perché dobbiamo condividere le punizioni se non abbiamo collaborato a farvi dei torti?

 Il 43  a.C., infatti, fu un anno difficile per i triumviri: la dichiarazione del senato che li proclamava hostes publici aveva avuto conseguenze terribili anche sul fronte economico: appare evidente dal passo sovracitato che era stata strappata loro la casa (“con violenza”) e non è casuale che in questo periodo Antonio abitasse nella domus rostrata sottratta a Pompeo Magno. La moglie, Fulvia, la stessa che negò il proprio appoggio al tentativo di mediazione familiare delle donne, era ospitata presso Calpurnio Pisone. Per quanto riguarda il passaggio testuale relativo all’annientamento dell’esercito, verosimilmente Ortensia si riferisce alla sconfitta di Antonio a Modena da parte delle truppe filosenatoriali.

Appare evidente che il nodo principale per venire a capo della situazione è l’analisi dei rapporti tra le proscrizioni (del 43 e del 42), della ridistribuzione delle ricchezze tra soggetti diversi (Luciano Canfora, “Proscrizioni e dissesto sociale nella repubblica Romana”) e dell’ azione contro le matronae, che, lo sottolineiamo ancora una volta, non sono donne comuni, ma aristocratiche contigue alla factio degli optimates.

A leggere Cassio Dione, le liste di proscrizione del 43 comportavano provvedimenti molto severi: non solo confisca dei beni, ma anche condanna a morte in contumacia dei proscritti e dei nemici dei triumviri e ulteriori tassazioni straordinarie; nel 42 la mano dei triumviri appare più lieve, perché le proscrizioni non prevedono la condanna a morte, ma “solo” l’acquisizione forzosa dei beni dei proscritti, la re-introduzione di vecchie tasse e l’introduzione di nuove tasse che colpivano il patrimonio immobiliare e gli schiavi. In più adesso è previsto l’obbligo di versamento di una decima da parte dei più ricchi, a prescindere dal rango e dal sesso. Quando si dice rango e sesso – e qui ci corre in aiuto Appiano – si vuole dire che vengono colpiti non solo i liberi (uomini e donne), ma anche i sacerdoti e i liberti arricchiti, stavolta selezionati su precisa base censitaria (patrimonio superiore a 400.000 sesterzi, corrispondenti a 100.000 denari).

La Storia Romana di Appiano.

Questa è la modifica più sostanziale al provvedimento iniziale e non è cosa da poco. Inoltre, il tributo fornito dalle 1400 donne iniziali appare a molti commentatori come provvedimento isolato, mentre il secondo è inserito in un pacchetto più ampio, che comprende anche un prelievo forzoso del 2%. Scrive Appiano che il primo tributum era diretto solo alle donne; mentre Cassio Dione specifica che il secondo era diretto anche agli uomini, purché condividessero con le 400 donne un patrimonio superiore a 400.000 sesterzi. Non solo: il primo provvedimento non esplicitava la modalità per la stima dei beni delle 1400 donne né la percentuale da introitare nelle casse dei triumviri. E l’allusione alle delazioni era stata cassata nel provvedimento correttivo, successivo all’orazione di Ortensia.

Come mai i triumviri si convincono a modificare l’assunto del dispositivo? E’ stata sufficiente l’ orazione di Ortensia e il clamore che ad essa si accompagnò per convincere i tre a rinunciare alla punizione e al tono minaccioso contenuto nel testo?  Rimaneva un problema di non poco conto: ai triumviri servivano urgentemente fondi per condurre la guerra in Oriente contro i cesaricidi e i rastrellamenti di fondi successivi alla prima ondata di proscrizioni del dicembre del 43 non avevano dato risultati ragguardevoli. In realtà, da quando la lotta politica si era fatta più violenta, nelle mani delle donne si erano gradatamente concentrate grandi risorse economiche. Le guerre civili, combattute a partire dall’inizio del I secolo a.C., avevano impoverito molte importanti famiglie a causa delle confische e delle proscrizioni attivate già da Lucio Silla e ne avevano diminuito o annullato il peso politico.

Solo i patrimoni in mano femminile non venivano quasi toccati, come si può evincere dal caso di Terenzia e Cicerone (vedi l’articolo della scrivente: Una donna non comune: Terenzia, la prima moglie di Cicerone”). E ciò trovava una sponda legale nella separazione dei beni tra coniugi sancita dalla legge romana. Pertanto i patrimoni in mano alle donne potevano essere utilizzati (e lo erano in molti casi) per sostenere le battaglie politiche dei mariti esiliati o proscritti e per garantirne il ritorno ai vertici della politica romana.

La coraggiosa risposta delle matrone nei confronti dei triumviri appare d’altra parte senza dubbio  motivata in termini più di una replica a un atto politico ostile che a una pura imposizione fiscale sui patrimoni, benché priva di precedenti. I patrimoni a Roma erano principalmente immobiliari, mentre la parte mobile era notevolmente più esigua. Perdere parte del proprio patrimonio a seguito di un provvedimento (il primo) dai contorni sfumati e dalle regole non certe significava non solo la diminuzione del peso economico-sociale della famiglia, ma soprattutto l’ obbligo per essa di svendere parte dei beni immobili in assenza di acquirenti immediati. La conseguenza era grave ed inevitabile: si traduceva nel mancato sostegno ai mariti o ai figli proscritti. Insomma, non si trattava solo di una tributo sostanzialmente vessatorio a livello economico, ma soprattutto dell’annullamento dell’influenza sociale e politica della famiglia colpita.

Il punto cruciale della sua orazione fu la seguente (citiamo ancora Appiano, op. cit., IV,34):

Perché mai- chiese Ortensia – le donne dovrebbero pagare le tasse, visto che sono escluse dalla magistratura, dai pubblici uffici, dal comando e dalla res publica? Direte che lo dovremmo fare perché c’è la guerra. Ma quando mai mancarono le guerre e quando mai furono tassate le donne, se la natura da ciò le preserva in tutte le nazioni?

E continua, dicendo che solo una volta le donne pagarono un tributo e fu durante le guerre contro Cartagine. E anche in quel caso non si trattò di campi, o di denari dotali o di terre, senza i quali una donna non può vivere con dignità, ma di gioielli preziosi che esse, spontaneamente, diedero alla patria in un momento di grave pericolo. Non ci fu necessità di minacciare delazioni, in quel caso, tanto il dono fu spontaneo e offerto senza costrizione alcuna.

E ancora:

Non fummo costrette a pagare tributi né da Mario, né da Cinna, né da Silla, che tiranneggiava la repubblica. E voi dite di ristabilirla, questa repubblica.

Argomentazioni assai efficaci, quelle di Ortensia, che fa appello all’esclusione dalla politica e dai pubblici uffici delle donne per cui la tassazione sarebbe cosa ingiusta, e che rievoca con efficace pathos l’azione delle donne del passato, che si erano “autotassate” spontaneamente, privandosi di gioielli preziosi per amor di patria. Quella stessa patria che i triumviri “dicono” di voler risollevare. C’è ironia nella sua oratio, c’è atto memoriale nella rievocazione del passato glorioso di una Roma non divisa tra partiti e in balia di guerre fratricide, in cui l’unione permetteva la sconfitta di nemici esterni pericolosi.

Appiano racconta che l’ adunata delle donne diede molto fastidio ai triumviri, che cercarono con la milizia di sgomberare il foro dalla loro importuna presenza. Ma la folla, che aveva ascoltato l’orazione di Ortensia, si oppose e i triumviri a quel punto decisero di rinviare al giorno dopo la discussione del provvedimento. E questo accadde, ma con le sostanziali modifiche che abbiamo riferito.

Fu, quella di Ortensia, una grande vittoria e non solo per le matronae che patrocinava. Fu una vittoria dell’intelligenza e dell’unione familiare.

Fu una vittoria, sia pure temporanea, per il suo sesso, da sempre ostracizzato dalla vita politica perché temuto.

Resta il rimpianto che ad un così grande talento oratorio non sia stata data l’occasione di costruire una carriera di meritati successi.

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Annamaria Zizza

Mi sono abilitata in Italiano e Latino e in Storia dell’Arte, sono passata di ruolo per l’insegnamento dell’Italiano e del latino nei Licei nell’anno 2000/2001.

Sono attualmente in servizio dal 2007/2008 al Liceo Classico “Gulli e Pennisi” di Acireale CT, dove ricopro il ruolo di docente a tempo indeterminato nel triennio del corso C.

Ho frequentato con esito positivo i seguenti corsi di aggiornamento/formazione:

– Didattica della lingua italiana;

– Tecnologie informatiche applicato al PNI e al Brocca;

– Valutazione scolastica;

– Valutazione e programmazione scolastica;

– Sicurezza nelle scuole;

– Didattica della letteratura italiana;

– Didattica della letteratura latina;

– rogramma di sviluppo delle tecnologie didattiche;

– Didattica breve nell’insegnamento del latino;

– Comunicazione

– Per una didattica della lettura e della narrazione;

– Autori, collane, libri, progetti editoriali: valorizzare la scuola attraverso la lettura;

– La dislessia

Ho tenuto in qualità di esperto due corsi PON sulle abilità di base per l’Italiano e uno sui connotati profetici nella Comedìa dantesca; ho svolto il ruolo di tutor in altri corsi PON ministeriali.

Sono stata per tre anni funzione strumentale nell’area “Supporto ai docenti”, direttrice di laboratorio multimediale, catalogatrice Dewey nella biblioteca scolastica, bibliotecaria, RSU, coordinatrice e segretaria di Consiglio di classe con frequenza annuale. Ho elaborato e tenuto il percorso di ricerca-azione “Sopravvivere alla vita: istruzioni per l’uso” nell’ambito della DLC.

Ho partecipato a svariate iniziative culturali come relatrice: dalla tavola rotonda organizzata dal Comune di Acireale sul saggio della prof.ssa Ferraloro inerente il romanzo di Tomasi di Lampedusa “Il gattopardo”, a conferenze di argomento letterario presso scuole, al progetto “Dante nelle chiese di Acireale”, organizzato dal vescovado (con relativa Lectura Dantis), al festival Naxoslegge con un’altra lectura Dantis e a presentazioni di libri.

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