L’ idea di strega è stata da sempre presente nel mondo antico ed è stata analizzata da etnologi e antropologi, interessati ad una raffigurazione che, proprio per i suoi connotati, diversi per contesto socio-culturale di provenienza, potesse essere ricondotta ad alcune componenti essenziali che ne spiegassero la nascita.
Una sorta di reductio ad unum di natura antropologica, che, a partire da un approccio psicologico e sociologico, vagliasse gli aspetti di cui tale figura archetipica fosse stata arricchita nelle differenti civiltà del mondo antico, alla ricerca del “succo”, cioè di componenti presenti in tutte le sue raffigurazioni che, a loro volta, potessero essere oggetto di indagine per interpretarne i motivi alla base (Needham).
Vero è che tale lavoro, per sua stessa natura, risulta poco interessato a relazionare archetipo e contesto storico e culturale di riferimento, tacendo le derivazioni comuni presenti, ad esempio, nella civiltà italiana ed europea, specie medioevale, il cui sostrato si nutre dell’ immaginario collettivo in buona parte greco e latino, anche ri-interpretato successivamente alla luce della demonologia cristiana.
Appare evidente, come afferma Laura Cherubini, che “sulle streghe si è scritto molto, esaminando i processi e i documenti d’archivio, gli stereotipi inquisitoriali e le credenze popolari, i modelli culturali e gli eventi storici sottesi alla rappresentazione del fenomeno “stregoneria”. Eppure in quel bacino le streghe esistevano già da tempo”: esistevano per la precisione già dal mondo antico, ad esempio nell’ immagine della stryx latina (voce letteraria riprodotta nel latino popolare striga, e ancora nelle lingue romanze- che dal latino derivano-, come l’italiano strega, il rumeno striga, il francese antico estrie, il portoghese estria, per tacere dei successivi prestiti presenti in lingue non neo-latine come il greco moderno, lo sloveno o il russo).
A sottolineare come, al di là di prerogative e di sviluppi talora diversi, la figura della strega abbia in comune nelle diverse comunità il volo notturno, il desiderio di succhiare il sangue dei bambini, la capacità di trasformarsi in animale. Eppure, se la filiazione diretta della strega italiana ed europea appare espressione di una precisa relazione col mondo romano, la stryx romana ha alcune caratteristiche diverse.
La stryx (in italiano “strige”) era, nelle leggende dell’antica Roma, un uccello notturno di cattivo auspicio che si nutriva di sangue e carne umana, esattamente, come nel passato e oggi, nell’immaginario collettivo, si addebita al vampiro. A differenza del vampiro, però, la stryx non era ritenuta un cadavere rianimato ma un prodotto di una metamorfosi. La strega era anche una maga, esperta di pozioni spesso venefiche, di predizioni del futuro, di “nodi d’ amore” tra uomo e donna, di trasformazioni da donna ad uccello, come rappresentato dalla maga Panfile nelle “Metamorfosi” ovidiane e di cui fu vittima Lucio, che sperava di trasformarsi in un gufo e invece si trasformò in un asino per un errore della servetta Fotide.

Anche i veneficia erano assai trattati dalla legislazione romana, come attesta, ad esempio, la “lex Cornelia de sicariis et veneficiis”, emanata da Lucio Cornelio Silla nell’ 81 a.C., che condannava chi preparava, acquistava, vendeva o deteneva veleni per fine di avvelenamento umano. Le donne erano spesso le più colpite e non pochi sono stati gli episodi di accusa e condanna a morte per delle donne accusate di avvelenamento.
In questi ultimi casi il mondo latino, il cui lessico è estremamente ricco ed adattabile ai diversi ambiti semantici, adoperava la parola “saga”, per cui le “sagae” erano donne che sapevano molto (Cicerone, “De divinatione”), che riuscivano a “sagire”, scandagliare gli aspetti nascosti e velati della realtà come potrebbe fare un cane “sagace” – o segugio- dal fiuto acutissimo.
Ma, quando veniva rappresentata come volatile da forma inizialmente femminile, ecco che si comincia a parlare di stryx. Si comincia perché la stryx non solo vola, ma ha anche la terribile caratteristica di nutrirsi delle viscere delle sue vittime, ancora vive, come ci informa il commediografo Plauto nel suo “Pseudolus”. Le stryges si trasformano spesso in uccelli notturni di cattivo augurio come i gufi e infatti questi animali sono stati associati alla magia nel corso della storia, sebbene alcuni studiosi allarghino le possibilità di metamorfosi anche ad altri strigiformi come allocchi e barbagianni.
In comune con gli strigiformi la stryx avrebbe, infatti, il pallore del viso, il becco, i lunghi artigli con cui squarciano il petto delle loro vittime, gli occhi grandi e la testa grossa. In particolare il pallore del viso potrebbe essere legato all’idea che la strega sia originariamente una vecchia maliarda, il cui sangue, da giovane caldo e ricco, si sia progressivamente raffreddato ed impoverito, spingendola a ricercare proprio nelle vittime infantili “l’umore” negatole, a causa della sua tarda età, dalla natura. I morti, infatti, sono pallentes (pallidi), non hanno color conferito loro dal sangue caldo e abbondante della gioventù e della vita in generale.

Altra personificazione della stryx è la maga Canidia degli “Epodi” e delle “Satire” oraziani.
Negli “Epodi” e nelle “Satire”, il poeta Orazio ci descrive Canidia, vecchio oscena che profana tombe, rapisce, uccide, avvelena, tortura. Nella Satira VIII (tratta dal I libro dei Sermones) essa si inoltra nei giardini di Mecenate, dilania un’ agnella con i denti e invoca i morti, ma sarà messa in fuga con la sua socia da un tronco di fico trasformato da un abile falegname in una statua del dio Priapo, che emetterà un potente peto. Sarà la statua del dio che racconterà, in prima persona, l’ oscena visione e la beffa finale.
Ecco la descrizione di Canidia e della sua compagna Sàgana.
Io, con questi occhi, ho visto Canidia
aggirarsi, la veste nera cinta in vita,
piedi nudi, capelli scarmigliati,
e insieme a Sàgana maggiore urlare al vento:
orribili le rendeva il pallore.
Eccole scavare con le unghie la terra,
dilaniare a morsi un’ agnella nera:
il sangue fu raccolto in una fossa
per evocare dagli abissi
gli spiriti dei Mani
e ottenerne responsi.
Con sé avevano un fantoccio di lana
ed un altro di cera:
piú grande quello di lana perché potesse
infliggere la pena all’altro,
e quello di cera in atteggiamento supplice,
perché sa di dover morire
come accade a uno schiavo.
Il rituale sacrificale si svolge sull’Esquilino e non è un caso che Orazio abbia scelto questa zona per rappresentarvi la scena, perché ai tempi di Orazio vi sorgeva la lussuosa villa dell’ amico e consigliere di Ottaviano Augusto, Mecenate, e il Ninfeo degli Horti Liciniani. Tuttavia secoli prima l’area era semi-disabitata e circondata solo in parte dalle Mura Serviane. Il resto era aperta campagna, fittamente costellata di tombe, ma più spesso di fosse comuni, in cui venivano gettati i corpi di plebei, vagabondi e criminali, i cui cadaveri spesso venivano disseppelliti da fattucchiere e negromanti per farne attori dei loro nefandi riti magici.
Nel testo oraziano Canidia e Sagana evocano Ecate e Tesifone, facendo comparire serpenti e cagne infernali, uno spettacolo tanto spaventoso che perfino la luna cerca di nascondersi dietro i grandi sepolcri per evitare di assistere a tali orrori.
Mentre, però, la Canidia dell’ ottava satira appare come vecchia facile allo spavento, nel V epodo il poeta illustra una scena dai connotati terribili e macabri, in cui la vittima di Canidia, un fanciullo tenero ed ancora acerbo, prega la maliarda di non fargli del male. Le sue parole avrebbero “intenerito/l’empio cuore dei Traci” ma Canidia non ha pietà di lui. Lo rapirà e lo torturerà a morte. Il personaggio oraziano risulta essere più vicino all’idea di Stryx della Canidia della satira.
Canidia allora, che fra i capelli arruffati
ha nodi guizzanti di vipere,
ordina che su fiamme della Còlchide
siano arsi cipressi funebri,
caprifichi divelti dai sepolcri,
uova di rospo viscido
sporche di sangue, penne di civetta,
erbe che vengono da Iolco
o dall’Iberia, patria di veleni, e ossa
strappate ai denti di una cagna.
Sàgana intanto, discinta e con i capelli
irti come riccio di mare
o cinghiale in fuga, sparge in tutta la casa
acqua del lago Averno.
Veia, che non è distolta da alcun rimorso,
scava a colpi di zappa
la terra, gemendo per la fatica:
qui seppelliranno il fanciullo
con solo il capo che affiora, come chi nuota
fuori dell’acqua ha solo il mento,
perché davanti ai cibi sempre nuovi e freschi
abbia a morire lentamente:
col midollo estratto e il fegato inaridito
si farà cosí un filtro d’amore,
quando le sue pupille sbarrate sul cibo
vietato si saranno spente.
Le interiora essiccate del ragazzo serviranno, come si evince dagli ultimi versi, per creare un filtro d’amore, ma, prima di morire, lui pronuncerà una maledizione contro Canidia e Sagana.
Ovidio nei suoi “Fasti” racconta, a supporto della narrazione delle origini della festività di Carna, protettrice degli organi interni, – e identificata dal poeta di Sulmona con la ninfa Crane, a cui Giano aveva conferito il potere sui cardini delle porte- la storia a lieto fine del piccolo Proca.
Nel racconto di Proca, Ovidio ci descrive con precisione le stryges, intesi come uccelli notturni avidi di carne e sangue umano: sono rapaces, hanno le penne imbiancate (canities pennis) e gli artigli uncinati; volano di notte a cercare bambini senza nutrice e ne violano i corpi. Mentre volano emettono un suono stridulo (da cui il nome stryx, secondo Ovidio). Uno di essi, che sia uccello o donna metamorfosata, visita il piccolo Proca e ne succhia il sangue portandolo quasi alla morte.
Ma interviene la dea Crane con alcuni antidoti, come passare il corbezzolo sulle porte, versare acqua sull’ingresso e prendere delle viscere di scrofa. Poi, dopo aver intonato una preghiera per tenere lontano il malaugurio dal bambino, offre alla stryx le viscere della scrofa e tocca con un ramo di biancospino la finestra della stanzetta in cui era penetrata la stryx (evidente appare qui il richiamo all’ aglio di vampiresca memoria, mentre il candore delle penne rievoca quello del barbagianni).
Seneca illustra nella sua tragedia “Medea” un incantesimo realizzato dalla maga tessala: dopo aver tagliato erbe micidiali, spreme la bava velenosa “dei serpenti, vi mescola uccelli sinistri, il cuore di un tetro gufo, le viscere di stridula strige sventrata viva”.
Ma la stryx più famosa ed impressionante della letteratura latina è senza dubbio Eritto, creata dal genio allucinato del grande poeta Lucano nella sua “Pharsalia”. Il racconto relativo alla “maga”, concentrato emblematicamente nel VI libro (i sesti libri sono da sempre rappresentativi di viaggi nell’ oltretomba) prende le mosse dalla stryx Eritto, consultata da Sesto Pompeo per la divinazione del futuro.
La maga, descritta con compiaciuto gusto del macabro, compie rituali nefandi, come la violazione dei cadaveri a cui strappa gli occhi gelidi, o di cui fruga le viscere, strappando, in un climax orroroso, i feti dai ventri ancora caldi delle madri. Infine evoca dagli Inferi l’ombra di un povero soldato morto, descritto efficacemente mentre osserva il suo corpo straziato nella paura di dovervi rientrare. Sarà proprio il cadavere resuscitato provvisoriamente alla vita con un rito considerato empio dalla stessa Eritto che, in maniera antitetica a ciò che aveva fatto Enea nell’ “Eneide” virgiliana e trasformando dunque la catabasi in distorta anabasi, profetizzerà la catastrofe per Roma. Uno dei passaggi più terribili e patetici del libro è proprio l’apparizione del povero soldato, vittima innocente dei nefandi riti di Eritto:
Detto ciò, non appena solleva il capo e la bocca schiumante,
vede ritta in piedi l’ombra del cadavere disteso,
che teme le membra esanimi e le odiate catene
dell’ antico carcere: ha il terrore di tornare nel petto squarciato,
nelle viscere e nelle fibre spezzate dalla ferita letale.

La parola stryx è profondamente legata, da quel che si nota, all’ uccello nel quale si trasforma e al verso che quello emette, inquietante e lugubre nelle sue molteplici variazioni (ululati, stridii, ronzii, grugniti) che arrivano fino all’ evocazione significativa della voce umana di genere femminile. Il verso dell’ uccello-stryx è del tutto diverso, per un latino, dalla vox, che contraddistingue gli uomini e che si manifesta in suoni articolati e dotati di senso logico, contrapponendosi ad essi perché emanazione di ombre di morti, di creature senza coscienza e ragione o di primitivi che non hanno sviluppato la facoltà del linguaggio e che, dunque, sono assimilabili ai morti (che non parlano), individui semibestiali come quelli descritti da Plinio Il Vecchio nella sua “Naturalis Historia” (Coromandi che si esprimono con urla spaventose o Cavernicoli che emettono suoni inarticolati) o dallo stesso Ovidio quando indica con la parola stridor il suono terribile e perturbante, quasi rantolo, che emette un uomo agonizzante.
Il già citato Plinio Il Vecchio così descriverà nella sua opera monumentale (“Naturalis Historia”, XXX) la sua idea di magia: “Nessuno deve meravigliarsi della sua autorità perché, unica fra le scienze ha abbracciato e incontrato altre tre discipline che hanno forte ascendenza sulla mente umana. Nessuno dubiterà che si è sviluppata dalla medicina, aggiungendo alle più dolci e desiderabili promesse la forza della religione. Inoltre, ha incorporato l’astrologia, non essendoci alcuno che non sia ansioso di conoscere il proprio futuro”.
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