La storia di Catone Uticense e della moglie Marzia è stata, non per la sua eccezionalità, ma per i protagonisti che la interpretarono, un episodio famoso della storia romana, un ulteriore tassello nella direzione di un’ immagine, quella della tarda repubblica, in cui lo stoicismo di matrice greca, il culto delle virtù civili- minacciate dalla figura cesarea- e la considerazione sociale della donna trovarono un perfetto punto di incontro.

L’episodio è stato descritto con dovizia di particolari da autori come Plutarco nelle sue “Vite parallele”, Lucano all’interno della “Pharsalia” (Phars. II, 326-391) e Appiano da Alessandria nella “Historia romana”, per citare i più famosi. E anche Dante Alighieri, pur sotto un’ottica cristiana e attraverso il filtro testuale lucaneo, affrontò l’argomento.

Plutarco nella vita di Catone il Giovane (“Cato minor”, 24-25), parallela a quella del greco Aristide, racconta l’episodio con una certa perplessità, evidenziando il comportamento alquanto singolare del suo protagonista, Marco Porcio Catone il Giovane (futuro Uticense).

Quando avvenne l’episodio, Catone viveva già da alcuni anni con la seconda moglie, Marzia, figlia di Lucio Marcio Filippo, sposata giovanissima nel 62 a.C. dopo il ripudio per adulterio della prima moglie, Atilia. Quest’ ultima era stata sposata nel 73 a.C. da Catone Uticense dopo che la fidanzata, Emilia Lepida, aveva contratto matrimonio col senatore Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica. Atilia, che, a dire di Plutarco, fu la prima donna di Catone, gli diede due figli: Marco, che trovò la morte a Filippi, e Porzia, che sposò in prime nozze Marco Calpurnio Bibulo, console nel 59, alleato politico del padre, e in seconde, diventata vedova, il primo cugino Marco Giunio Bruto, il cesaricida, di cui – si racconta – era sempre stata innamorata.

Marco Giunio Bruto

Un amico di Catone, il ricchissimo oratore Quinto Ortensio Ortalo, non aveva figli maschi. Costretto dalle circostanze, dunque, Ortensio, a scopo procreativo, chiese a Catone la figlia Porzia come moglie, facendo leva sulle virtù civili dell’amico e sul suo senso del dovere verso Roma.

Così fa dire Plutarco ad Ortensio (“Cato minor”, 25, 4-9):

«Sosteneva che se pure una cosa del genere può apparire strana, dal punto di vista della natura è cosa giusta e giovevole alla collettività che una donna in pieno fiore non resti inattiva fino allo spegnimento della sua capacità generatrice, senza con ciò infastidire ed impoverire la propria casa, generando più figli di quanti sia giusto. Inoltre, se uomini di valore hanno comuni discendenti, la loro virtù si accresce e si comunica a questi e lo stesso Stato si amalgama per via delle parentele».

Ma Catone negò l’assenso, sostenendo che “trovava strano che gli chiedesse la figlia quando era già sposata con un altro”. Queste le parole che Plutarco gli fa pronunciare.

Il suicidio di Porzia

Così Ortensio spostò la sua attenzione su Marzia, la moglie di Catone, e questi con apparente incoerenza – visto che anche Marzia era “già sposata con un altro” – acconsentì di “prestargli” la moglie a fini procreativi. Subordinò l’assenso, tuttavia, al permesso del padre di lei, Lucio Marcio Filippo. Perché serviva necessariamente l’approvazione del padre di Marzia? Perché il matrimonio della donna con Catone era sine manu e lei era sotto la tutela del padre, che poteva interrompere quando voleva il matrimonio della figlia. I matrimoni a Roma potevano essere cum manu, laddove la donna passava dalla potestas paterna a quella maritale, o sine manu, se a controllare l’operato della figlia era ancora il pater familias. La donna, per la sua “levitas animi”, infatti, era considerata soggetto dotato sì di diritti, ma esercitabili solo previo assenso del suo tutore.

Questo spiega anche la prima richiesta di Ortensio a Catone relativa a Porzia, sposata anche lei, dunque, con la modalità sine manu, e per la quale l’oratore doveva rivolgersi al padre, Catone, appunto.

Catone neuticense

L’assenso fu concesso, Marzia divorziò da Catone (o fu prestata, secondo alcune fonti) e fu sposata (o “affidata” ad Ortalo). Il matrimonio, se matrimonio ci fu, avvenne alla presenza del marito, che, in tal modo, volle manifestare in pubblico il suo totale assenso e sancire un’alleanza senza dubbio proficua per tre famiglie.

Sappiamo dalle fonti, in questo concordi, che il matrimonio tra Catone il Giovane e Marzia era sereno e che nessuna ombra lo turbava.  L’interrogativo inevitabile è quale sia stato il ruolo di Marzia in questa vicenda, ma la risposta non deve essere inficiata dal confronto, anch’ esso forse inevitabile, con la morale sessuale attuale. In epoca repubblicana la donna, salvo alcuni rari casi, non aveva voce in capitolo sul suo matrimonio e sulle sue scelte e passava, come detto, da una tutela all’ altra, come fosse incapace di intendere e di volere.

Ma Marzia era davvero la moglie perfetta e, sebbene innamorata di Catone, accettò la volontà del padre e del marito senza protestare. Anche Catone la amava ma metteva, evidentemente, il bene di Roma e della trasmissione della res familiaris (e del mantenimento del potere degli optimates susseguente) su un gradino ben superiore a quello della sua felicità individuale.

Ecco cosa ci racconta lo storico Appiano di Alessandria- vissuto tra I e II secolo d.C.- nella sua “Historia romana” (2, 14, 99):

«Catone aveva sposato Marzia, la figlia di Filippo, quando era ancora molto giovane; era molto attaccato a lei, e da lei aveva avuto dei figli. Tuttavia, la diede a Ortensio, uno dei suoi amici, che desiderava avere figli ma che era sposato a una donna sterile. Dopo che Marzia ebbe dato un figlio anche a lui, Catone la riprese di nuovo in casa, come se l’avesse prestata.»

Marzia compì diligentemente il suo dovere e diede un figlio ad Ortalo, o forse due, se contiamo quello che teneva in grembo al momento del “prestito”. Pare che Marzia, infatti, fosse incinta di Catone quando passò nella casa del grande oratore, rivale e poi grande amico di Cicerone. Ortensio morì nel 50 a.C.  Marzia tornò di sua spontanea volontà dal primo marito e Catone la risposò.

Questa la storia. Molti ed interessanti gli spunti della vicenda, tanto che l’argomento fu oggetto in età imperiale di numerose “controversiae” retoriche di ambito giuridico, che si interrogavano se un comportamento come quello di Catone convenisse ad un uomo dabbene (conveniatne res talis bono viro) o se Catone avesse fatto bene ad affidare Marzia ad Ortensio (an Cato recte Marciam Hortensio tradiderit). E di questo Quintiliano nella sua “Institutio oratoria” ci dà testimonianza (III, 5, 11 e X, 5,15).

Il comportamento di Catone, assai singolare – ma niente affatto raro nelle alte sfere romane – è stato spiegato in molti modi diversi: come espressione dello Stoicismo, pensiero filosofico che l’uomo politico professava; come volontà, sostenuta per la verità da Ortensio, di stabilire più stretti legami di parentela tra le due famiglie; e come desiderio, assai materialista, di Catone di impossessarsi dei lasciti di Ortensio alla vedova.

È vero che lo Stoicismo professava un’idea della donna come oggetto comune, esistente per i soli fini procreativi. Nell’ idea stoica, infatti, non doveva esistere nel matrimonio l’idea del piacere erotico, presente invece nell’ adulterio, né di conseguenza la passione sensuale.

Il matrimonio a Roma

 Girolamo in un suo trattato polemico, “Adversum Iovinianum”, riporta alcuni passaggi significativi di un dialogo senecano perduto, “De matrimonio”, in cui il filosofo di Cordoba afferma che “in aliena quippe uxore omnis amor turpis est, in sua nimius. Sapiens vir iudicio debet amare coniugem, non affectu. Nihil est foedius quam uxorem amare quasi adulteram”. Per Seneca, dunque, “se l’amore verso la moglie altrui è vergognoso, lo è anche nei confronti della propria moglie quando è eccessivo. Un uomo saggio deve amare la moglie con giudizio, non con passione. Niente è più indecoroso che amare la propria moglie come un’adultera”.

E in verità, al di là della valutazione dello Stoicismo, il matrimonio romano nasceva da un accordo tra le famiglie e non implicava un sentimento amoroso. Tuttavia l’amore non era escluso: esso poteva nascere dopo la celebrazione delle nozze tra due giovani, all’ inizio estranei l’uno all’ altro.

Quanto ai più stretti legami di parentela tra le famiglie, è innegabile che, in tempi difficili come quelli delle guerre civili, le alleanze tramite matrimonio risultavano innegabilmente utili; difficile, invece, pensare che Catone “scommettesse” sui lasciti- assai imprevedibili-di Ortensio alla sua vedova. I lasciti, però, ci furono e provocarono le pesanti accuse di avidità di Cesare a Catone (Anti Catonem). Plutarco commentò le affermazioni di Cesare (nemico politico di Catone), dicendo che accusare di avidità Catone equivaleva ad accusare Eracle di vigliaccheria e che Catone si riprese Marzia, perché non aveva nessuno che badasse alla casa e ai figli.

Ecco ancora le parole dello storico (“Cato minor”, 52, 5-7):

Ortensio aveva lasciato Marzia erede, al momento della morte. Per questa ragione, Cesare accusò Catone di essere avido e di trafficare con i matrimoni: perché –egli chiese– Catone lasciò a un altro sua moglie, se la voleva, e perché, se non la voleva, la riprese con sé, se non perché la donna venne usata da lui come un’esca per Ortensio, a cui egli la cedette quando era giovane per riprendersela ricca?

 

Plutarco

Un’altra obiezione si fa immediatamente strada, ad una più attenta riflessione, ed è che, se l’obbedienza al dettato stoico fosse stato lo stimolo per persuadere Catone a cedere, allora perché il politico non aveva accondisceso subito alla richiesta di Ortensio, quella relativa alla figlia Porzia? Anche Porzia, infatti, era una donna fertile, poiché aveva dato due figli al marito.  E tra l’altro Plutarco ci informa che Marzia, al momento della richiesta, era incinta di un figlio di Catone.

Un passaggio importante della vicenda, infatti, è proprio quello della gravidanza di Marzia al momento del “prestito”: i Romani sapevano che “prestare” una moglie ad un amico per perpetuarne la famiglia non equivaleva necessariamente a procreare. Non era sicuro, infatti, che una donna fertile con un uomo si dimostrasse altrettanto fertile con un altro. Così avevano creato la variante della donna già “incinta” al momento del passaggio.

La versione che ce ne offre Lucano è manifestamente poetica e di forte impatto patetico.

Ecco i versi (“Pharsalia”, II, 326-373):

«Nel frattempo, mentre il sole scacciava le fredde tenebre, risuonarono le porte, attraverso cui irruppe piangendo la veneranda Marcia, che aveva lasciato il funerale di Ortensio. Unita vergine, un tempo, ad un marito migliore, successivamente – allorché ebbe adempiuto all’unione generando un terzo figlio – fu concessa per popolare con la sua fecondità un’altra casa e per riunire due famiglie con il sangue materno. Ma, dopo aver deposto nell’urna le ceneri di Ortensio, anelante nel misero volto, strappandosi le chiome scarmigliate e battendosi con frequenti colpi il petto, con la cenere del sepolcro addosso (non altrimenti sarebbe piaciuta al primo marito), così si espresse tristemente: «Finché potevo contare sul sangue e sull’energia di madre, o Catone, ho adempiuto ai tuoi comandi e ho concepito figli da ambedue i mariti: con le viscere esauste e spossata dai parti ritorno, ma in condizione di non poter essere più ceduta ad un ulteriore marito.

Ridonami i casti patti del primo matrimonio e dell’unione concedimi soltanto il nome: mi sia consentito far scrivere sulla mia tomba “Marcia di Catone” e nei lunghi tempi a venire non si rimanga in dubbio se ho mutato il primo matrimonio cacciata o ceduta. Tu non mi accogli come compagna di felicità o in momenti lieti: io vengo per dividere con te le preoccupazioni e le fatiche. Concedimi di seguirti nell’accampamento: per qual motivo dovrei esser lasciata in un luogo sicuro, mentre Cornelia sarà probabilmente più vicina al conflitto civile?». Queste parole piegarono quell’uomo eccezionale e – nonostante la circostanza non fosse propizia all’unione, dal momento che il destino chiamava alla guerra – pur tuttavia si decise a riaffermare soltanto il vincolo del giuramento senza alcuno sfarzo esteriore e ad ammettere alla cerimonia gli dèi come testimoni.

I serti festosi non pendono dalla soglia incoronata né la candida benda è distesa sugli stipiti, non vi sono le torce nuziali né il talamo troneggia su gradini d’avorio né compaiono le vesti screziate d’oro o la matrona che, con in capo la corona turrita, evita di toccare la soglia alzando il piede; il velo rosso, destinato a proteggere con delicatezza il timido pudore della sposa, non copre il suo volto chinato né la cintura adorna di gemme stringe le vesti ondeggianti né una bella collana adorna il suo collo né un piccolo mantello, scendendo dalla sommità delle spalle, circonda le nude braccia. Così come si trova, ella conserva il triste abbigliamento del lutto ed abbraccia il marito nello stesso modo con cui si stringe ai figli; la porpora viene completamente nascosta dalla lana adoperata per il lutto.»

Molti sono gli elementi testuali di grande interesse: “irruppe” (inrupit) ci dà l’idea di un’irruzione improvvisa, di una precipitazione- a funerale di Ortensio appena concluso- a casa del marito, da cui Marzia- definita “sancta”, appellativo riservato solo a Catone e a Bruto- vuole tornare a trascorrere i suoi ultimi giorni. Poi, mostrandosi “affranta”, “triste” (maerens/maesta , due parole con la stessa radice, ad enfatizzare ulteriormente il concetto)  e addolorata nelle modalità previste per le vedove (capelli scamigliati, battitura di colpi al petto, cenere maritale sulla veste), chiede a Catone di riaccoglierla come moglie, ma senza adempiere ai doveri coniugali (nomen inane conubii), perché spossata dai numerosi parti e non più feconda.

Questa è la prima condizione imposta da Marzia a Catone; la seconda è di avere il privilegio di essere ricordata come univira (“moglie di un solo uomo”) e di potersi fregiare sulla lapide della dicitura “Martia Catonis” (“Marzia di Catone”). Vuole seguirlo in guerra come la moglie di Pompeo, Cornelia, segue il marito. Solo che Cornelia, dopo la morte del marito, non si risposerà mai più e lo piangerà fino alla fine dei suoi giorni. Qualche commentatore ha interpretato l’allusione a Cornelia come un riferimento da parte di Marzia ad una posizione filo-pompeiana del marito Catone. In realtà sappiamo che Catone diventò pompeiano solo dopo la morte di Pompeo, poiché prima sosteneva la causa della libertas e della res publica senza particolari apprezzamenti verso Pompeo, che anzi considerava troppo bramoso di potere.

Marzia viene dipinta da Lucano come una donna di grande dignità, che, in un momento di divisione quale quello delle guerre civili, si è sacrificata come individuo per un bene superiore: il rinsaldamento dei rapporti parentali e sociali.

Catone accetta e si celebrano le nozze, ma sono nozze tristi e non gioiose e il loro abbraccio non è come quello tra due coniugi, ma come quello di una madre con i suoi figli, tanto che lei, con la sua veste scura del lutto- indossata anche durante le nozze- copre la toga purpurea del marito. Quello che viene celebrato è un funerale, più che un matrimonio: quello di una res publica in cui i valori civili sono stati abbandonati per “ambitio regni” e che precipita verso la dictatura del vero genio del Male, Cesare (secondo Lucano).

Dante Alighieri, che adoperò più volte la “Pharsalia” come fonte episodica, collocò Marzia nel Limbo accanto agli spiriti magni (If., IV) e la citò anche nel I canto del Purgatorio (v. 77 e sgg.), quando Virgilio, approdato con Dante sulla spiaggia della montagna-isola del Purgatorio, ne interroga il custode, Catone Uticense, riferendosi a Marzia che ancora vuole essere considerata di Catone (v. 80).

  Catone nel Purgatorio dantesco

Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti 78

di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:

per lo suo amore adunque a noi ti piega. 81

Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni”. 84

“Marzïa piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là”, diss’elli allora,
“che quante grazie volse da me, fei. 87

e nel “Convivio” (IV, XXVIII, 13-15, 17-18), interpretando, in quest’ ultimo caso, la storia di Marzia in senso evidentemente allegorico, come ritorno dell’anima (Marzia) a Dio (Catone), e i vari passaggi della sua vicenda terrena come tappe verso l’acquisizione di virtù superiori.

Risulta di tutta evidenza anche in questo caso la marcata ascendenza lucanea, che viene correttamente citata.

 «13. E che queste due cose convegnano a questa etade, ne figura quello grande poeta Lucano nel secondo de la sua Farsalia, quando dice che Marzia tornò a Catone e richiese lui e pregollo che la dovesse riprendere [g]ua[s]ta: per la quale Marzia s’intende la nobile anima. 14. E potemo così ritrarre la figura a veritade. Marzia fu vergine, e in quello stato si significa l’adolescenza; [poi si maritò] a Catone, e in quello stato si significa la gioventute; fece allora figli, per li quali si significano le vertudi che di sopra si dicono a li giovani convenire; e partissi da Catone, e maritossi ad Ortensio, per che [si] significa che si partì la gioventute e venne la senettute; fece figli di questo anche, per che si significano le vertudi che di sopra si dicono convenire a la senettute. 15. Morì Ortensio; per che si significa lo termine de la senettute; e vedova fatta – per lo quale vedovaggio si significa lo senio – tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone, per che si significa la nobile anima dal principio del senio tornare a Dio. E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo. 16. (…) 17. «Ora» dice Marzia «che ‘l mio ventre è lasso, e che io sono per li parti vota, a te mi ritorno, non essendo più da dare ad altro sposo»; cioè a dire che la nobile anima, cognoscendosi non avere più ventre da frutto, cioè li suoi membri sentendosi a debile stato venuti, torna a Dio, colui che non ha mestiere de le membra corporali. E dice Marzia: «Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio»; che è a dire che la nobile anima dire a Dio: ‘Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi, almeno, che io in questa tanta vita sia chiamata tua’. 18. E dice Marzia: «Due ragioni mi muovono a dire questo: l’una si è che dopo di me si dica ch’io sia morta moglie di Catone; l’altra, che dopo me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti»

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Annamaria Zizza

Mi sono abilitata in Italiano e Latino e in Storia dell’Arte, sono passata di ruolo per l’insegnamento dell’Italiano e del latino nei Licei nell’anno 2000/2001.

Sono attualmente in servizio dal 2007/2008 al Liceo Classico “Gulli e Pennisi” di Acireale CT, dove ricopro il ruolo di docente a tempo indeterminato nel triennio del corso C.

Ho frequentato con esito positivo i seguenti corsi di aggiornamento/formazione:

– Didattica della lingua italiana;

– Tecnologie informatiche applicato al PNI e al Brocca;

– Valutazione scolastica;

– Valutazione e programmazione scolastica;

– Sicurezza nelle scuole;

– Didattica della letteratura italiana;

– Didattica della letteratura latina;

– rogramma di sviluppo delle tecnologie didattiche;

– Didattica breve nell’insegnamento del latino;

– Comunicazione

– Per una didattica della lettura e della narrazione;

– Autori, collane, libri, progetti editoriali: valorizzare la scuola attraverso la lettura;

– La dislessia

Ho tenuto in qualità di esperto due corsi PON sulle abilità di base per l’Italiano e uno sui connotati profetici nella Comedìa dantesca; ho svolto il ruolo di tutor in altri corsi PON ministeriali.

Sono stata per tre anni funzione strumentale nell’area “Supporto ai docenti”, direttrice di laboratorio multimediale, catalogatrice Dewey nella biblioteca scolastica, bibliotecaria, RSU, coordinatrice e segretaria di Consiglio di classe con frequenza annuale. Ho elaborato e tenuto il percorso di ricerca-azione “Sopravvivere alla vita: istruzioni per l’uso” nell’ambito della DLC.

Ho partecipato a svariate iniziative culturali come relatrice: dalla tavola rotonda organizzata dal Comune di Acireale sul saggio della prof.ssa Ferraloro inerente il romanzo di Tomasi di Lampedusa “Il gattopardo”, a conferenze di argomento letterario presso scuole, al progetto “Dante nelle chiese di Acireale”, organizzato dal vescovado (con relativa Lectura Dantis), al festival Naxoslegge con un’altra lectura Dantis e a presentazioni di libri.

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