In questo periodo si parla, ma non troppo, di una mostra sull’antico Egitto allestita a Vicenza dal Museo Egizio di Torino e curata dal direttore del Museo Christian Greco, da Corinna Rossi, professore associato di Egittologia al Politecnico di Milano, e da Cédric Gobeil e Paolo Marini, egittologi e curatori del prestigioso museo torinese; una mostra che merita assolutamente di essere visitata e che in soli 17 giorni ha registrato ben 15.000 visitatori paganti.

L’ingresso alla mostra (ph. Tiziana Giuliani)

I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone” è un’esposizione che sottolinea un aspetto insolito dell’antico Egitto. Quella Egizia è una civiltà conosciuta ai più per la sua archeologia funeraria che ha plasmato su di noi l’idea di un popolo ossessionato dalla morte perché spesso è collegata a testi funerari e cosmografici, ai sarcofagi e alle tombe. Qui a Vicenza, invece, tutto ciò che si vede e respira è vita. Si racconta la quotidianità degli abitanti di Deir el-Medina – un piccolo villaggio di artigiani specializzati fondato nel 1500 a.C. circa proprio di fronte all’antica Tebe – che durante il Nuovo Regno, dall’inizio della XVIII alla fine della XX dinastia, per ben 500 anni, hanno costruito, decorato e allestito le tombe della Valle dei Re e della Valle delle Regine. Con i 180 reperti originali esposti (160 dei quali provenienti dall’Egizio di Torino e 20 in prestito dal Louvre di Parigi) la mostra restituisce uno spaccato della vita di quel villaggio e di quel particolare periodo storico. Tra i manufatti, alcuni reperti che costituivano il corredo funerario proveniente dalla più bella tomba della Valle delle Regine, quella di Nefertari, che torna in Italia, a Vicenza, dopo diversi anni di tour all’estero. Non mancano i capolavori della statuaria, come la famosa triade che vede Ramesse II seduto tra il dio Amon e la dea Mut, la dea Sekhmet e il naos di Seti I. Ma anche sarcofagi, papiri, bassorilievi, stele scolpite e dipinte, anfore, amuleti, ostraca, attrezzi da lavoro e tanti altri oggetti che ogni giorno venivano usati e che raccontano gli usi e costumi degli scribi, dei disegnatori, degli operai e degli artigiani tutti, nonché dei loro nuclei familiari: testimonianze preziose di quello che era il lavoro di questa gente, la loro organizzazione sociale, le loro credenze e tanto altro. Si parla dunque di coloro che sono stati gli artefici di capolavori che hanno modellato il nostro immaginario in merito a quest’antica civiltà dono del Nilo. Si, certo, anche qui a Vicenza viene trattato il tema della vita dopo la morte, ma con una diversa chiave di lettura: nella splendida cornice della Basilica Palladiana vengono messi in luce altri aspetti. Per questo motivo voglio definire questa mostra un inno alla vita.

La triade con Ramesse II seduto tra il dio Amon e la dea Mut al posto del loro figlio Khonsu, le tre divinità a cui era dedicato il tempio di Karnak a Tebe. Il faraone era il garante dell’equilibrio cosmico. Granito, XIX dinastia, dal tempio di Amon a Karnak (ph. Tiziana Giuliani)
La dea Sekhmet (granodiorite, regno di Amenhotep II, Tempio di Karnak) e frammento di statua del sovraintendente al tempio di Amon e Portatore di Ventaglio Amenemope (granodiorite, regno di Ramesse II, Tempio di Amon a Karnak). (ph. Tiziana Giuliani)

Chi pensa a uno scavo in Egitto lo immagina subito in una tomba. Le aree archeologiche più rilevanti e meglio conservate sono rappresentate da necropoli, più numerose e rimaste pressoché intatte rispetto alle città, costruite con materiali deperibili e spesso abitate senza soluzione di continuità fino ad oggi. E’ per questo motivo che abbiamo tantissimo materiale funerario e sappiamo moltissimo sulle credenze degli antichi Egizi, mentre di città come Menfi, ad esempio, importantissimo centro amministrativo per tutto il periodo faraonico anche sotto i Tolomei, non sappiamo nulla delle persone che vi abitarono; possediamo in generale pochissime informazioni emerse da un lontano scavo pioneristico. Deir el-Medina, invece, è stata capace di restituire un quadro molto dettagliato sui vari aspetti che caratterizzarono questa comunità, perciò si è deciso di darle voce con questa mostra, per parlare degli uomini e del loro modo di vivere, in quanto questa gente che noi crediamo ossessionata dalla morte, e la immaginiamo vivere una vita intera in preparazione alla morte, invece era ossessionata dalla vita. Qui a Vicenza si è portato l’altro Egitto, l’Egitto che molto spesso si ignora, qui si è portata la vita. La vita di una comunità incredibile, dove il livello di alfabetizzazione era molto più alto rispetto al livello medio[1].

L’allestimento della mostra che evidenzia il tetto a carena di nave rovesciata (ph. Tiziana Giuliani)

Come già detto, la maggior parte dei reperti in mostra provengono dal museo di Torino, sono quindi oggetti che chi ha già visitato l’Egizio conosce bene (ad eccezione di alcuni inediti esposti per la prima volta), ma c’è da dire che in questa esposizione i manufatti godono di nuova luce e visibilità e raccontano storie che non riescono ad emergere a Torino. Lo stesso Christian Greco afferma che si potrebbe definire questa di Vicenza una piccola succursale del Museo Egizio, un luogo dove poter approfondire argomenti che non possono essere esaminati a fondo nel capoluogo piemontese. Per questa ragione, chi andrà a vedere la mostra potrà visitare il Museo ad un prezzo ridotto, così come il contrario. Diciamo che quella messa in scena nella penombra della suggestiva Basilica Palladiana, con il suo tetto a carena di nave rovesciata, è una mostra molto raffinata, con un allestimento che è riuscito a valorizzare oggetti “non eccezionali”; un aggettivo scritto tra virgolette perché trattandosi di manufatti di uso quotidiano non possiamo aspettarci reperti di grande impatto visivo, quindi l’occhio distratto che si lascia ammaliare dalle cose strabilianti non può aspettarsi nulla di sensazionale. Questi manufatti, però, riscattano la loro eccezionalità proprio per il fatto che raccontano molto di più di quanto crediamo possibile. Il visitatore entrando rimane comunque sbalordito da uno scenografico colpo d’occhio dove architettura e allestimento si uniscono in una meravigliosa sinergia: i reperti sembrano uscire dalle ombre scure del passato e le teche danno luce a ogni singolo pezzo con un’illuminazione “da gioielleria”, ma siamo a Vicenza, d’altronde, città dalla grande tradizione orafa. L’allestimento è riuscito a valorizzare ogni singolo manufatto creando intorno ad esso una storia che si sviluppa in un percorso inteso a promuovere un interessantissimo progetto scientifico. Questa vicentina a mio avviso non vuole essere un grande attrattore per il grande pubblico, ma un’occasione per conoscere e approfondire aspetti inediti, poco conosciuti, o semplicemente curiosi, di un mondo che rapisce tutti da almeno un paio di secoli. Guidati dalle affascinanti spiegazioni del direttore Christian Greco contenute nelle audioguide distribuite gratuitamente in italiano, e di Cédric Gobeil per chi predilige la lingua inglese e francese, il percorso saprà trasformarsi in un ammaliante e immersivo tuffo nella vita quotidiana di un popolo vissuto 3500 anni fa. Durante il periodo della mostra saranno organizzate anche delle conferenze in città dove sia il direttore che i curatori si alterneranno per approfondire aspetti che riguardano l’esposizione, mettendo così a disposizione da una parte strumenti che permetteranno di capire e comprendere al meglio la mostra, dall’altra fornire contenuti più scientifici.

Ma come è nata l’idea di una mostra a Vicenza e perché allestire questo percorso?

Questa è la prima volta che il Museo Egizio cura un progetto espositivo così importante “al di fuori del museo” presentando una straordinaria selezione di reperti e sviluppando un tema centrale per gli studi egittologici. Quello che si presenta è un percorso culturale sul quale non si era scommesso in un primo momento e che, come molti altri progetti, ha vissuto un iter travagliato per via della pandemia che ha bloccato tutto. Poi Christian Greco, vicentino, con la caparbietà sua e quella del suo staff, ha concretizzato ciò che sembrava difficilmente realizzabile, regalando alla città di Vicenza e a tutti coloro che vi si recheranno la possibilità di godere di una mostra dall’alto contenuto culturale con reperti originali provenienti dai due grandi musei ai quali si uniscono contenuti multimediali che ampliano le informazioni che gli oggetti stessi trasmettono. Una mostra differente, allestita da chi non lavora solo dentro un museo ma anche sul campo, scavando di persona nei luoghi raccontati dal percorso espositivo e riversando quindi nei contenuti tutto il proprio sapere.

Come dicevo la mostra è un vero inno alla vita. Secondo Simona Siotto – Assessore alla Cultura del Comune di Vicenza – è un’esposizione che sollecita una grande necessità e un gran bisogno di vita, un concetto al quale spesso non si dedica la giusta attenzione. La vita non è subordinata solo al perfetto funzionamento di una macchina complessa come è quella del corpo umano, la vita è qualcosa di più, qualcosa che va oltre il concetto di un oggetto materiale: c’è qualcos’altro oltre a un corpo che può funzionare o non funzionare bene… c’è una vita oltre la vita, anche oltre il concetto di una vita ultraterrena che gli Egizi avevano ben definito nella loro religione. La vita è una grande forza di cui ci rendiamo conto solo nei momenti di grande gioia o di gran difficoltà, è un’idea, un pensiero, è la forza di un pensiero, ma soprattutto è scelta, perché la nostra vita è frutto di una serie di scelte che facciamo e di cui l’uomo deve essere pienamente consapevole. Anche questa mostra è una scelta: va ad immergersi in un momento storico dove la linea del tempo ci riporta a grandi scelte, a grandi lavori e a grandi uomini che hanno lavorato per far sì che la propria cultura sopravvivesse ed arrivasse fino a noi. Una cultura che ancora oggi ci stupisce per la sua bellezza e la sua profondità e ci fa capire ancora una volta che quando l’uomo si impegna riesce a raggiungere risultati incredibili.

Il direttore dell’Egizio Christian Greco all’inaugurazione della mostra (ph. Tiziana Giuliani)

I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone” è una mostra che il direttore dell’Egizio Christian Greco ribadisce non realizzabile senza il prezioso contributo di Cédric Gobeil, Paolo Marini e Corinna Rossi che hanno fatto una corsa contro il tempo in quanto in 5 mesi, grazie alla loro competenza, perizia e professionalità, sono riusciti ad organizzare un evento di questo spessore e a scrivere insieme a grandi storici ed egittologi internazionali un catalogo pubblicato da Marsilio Arte. E’ proprio il loro contributo che ha fatto di questa mostra una mostra di ricerca, in quanto ognuno ha apportato le proprie conoscenze sulla cultura materiale. Cédric Gobeil, ad esempio, che ha diretto gli scavi a Deir el-Medina, ha una profonda conoscenza e competenza del territorio, degli archivi del villaggio e di tutto il lavoro effettuato sul luogo prima da Schiaparelli, che ha scoperto il sito nel 1905, e poi, dal 1922 al 1951, dall’egittologo francese Bernard Bruyère; inoltre i suoi recenti scavi hanno portato a rivisitare alcuni contesti. Paolo Marini si occupa da anni dello studio della cultura materiale, di archeometria applicata anche agli oggetti di Deir el-Medina dove si è recato anche durante la pandemia per portare avanti il suo progetto. Corinna Rossi invece è il contatto con l’Università, il Politecnico di Milano, che ha lavorato e lavora tutt’ora con il Museo Egizio e che tra l’altro ha realizzato tramite fotogrammetria il modello virtuale in 3D della tomba di Kha e Merit, la dimora dell’eternità di Deir el-Medina che ha restituito uno splendido corredo funerario oggi conservato al museo di Torino, l’unico corredo funerario intatto del Nuovo Regno che si trova fuori dall’Egitto. Insieme hanno fatto ricerca sugli archivi e sulla materialità degli oggetti “per permettere al visitatore di intraprendere un viaggio nella Tebe del Nuovo Regno, di conoscere coloro che lavorarono nelle necropoli reali e comprendere quali fossero gli elementi iconografici e testuali che rendevano la tomba una per djet, una ‘casa per l’eternità’, una dimensione nuova dove il sovrano poteva intraprendere il suo viaggio e iniziare la wehem meswt, la sua rinascita”. In questa mostra la connessione in tra materiale e digitale sarà l’elemento che ci permetterà di conoscere più approfonditamente la biografia degli oggetti e la loro interpretazione.

La lira del Louvre, regno di Thutmose III, e un flauto (ph. Tiziana Giuliani)

Vicenza ha voluto fortemente l’Egitto[2] e Greco sceglie Vicenza per questa mostra perché mette a confronto l’operosità della città veneta durante il Rinascimento (centro di produzione artistica e architettonica importantissimo) e Deir el-Medina, una connessione che è già visibile appena si inizia il percorso espositivo dove un primo video accompagna il visitatore in un viaggio virtuale da Vicenza al villaggio degli artigiani. Nonostante l’enorme distanza spazio-temporale che li separa, questi due luoghi hanno assistito a un periodo di grande sviluppo e sperimentazione che, grazie all’impegno e l’opera di uomini straordinari, ha definito una nuova immagine nel mondo. E’ proprio questo video che introduce nella prima delle due sezioni in cui si articola la mostra dove sono quattro i temi portanti. La prima parte è dedicata alla vita terrena, quindi si affrontano gli aspetti della vita quotidiana e lavorativa, nonché quelli relativi alla creazione dei capolavori approfondendo tre aspetti. Il primo di questi capitoli, “Deir el Medina e l’occidente di Tebe”, racconta i più importanti monumenti del Nuovo Regno edificati a Waset (la Tebe dei Greci, Luxor per i nostri giorni) e la fondazione del piccolo villaggio di Deir el-Medina. Si passa poi a “La creazione del microcosmo” che presenta un focus sulla costruzione delle tombe, sulla loro struttura e decorazione, riportando strumenti, attrezzi e papiri con piante di edifici e studi di disegno. “Lo splendore della vita” si sofferma sulla vita quotidiana della comunità, raccontandone le attività e le credenze religiose tra scene dipinte sulle pareti delle tombe, stele e ostraca decorati e rarissimi strumenti musicali, come la lira proveniente dal Louvre. Con il sarcofago Khonsuirdis si passa alla seconda parte incentrata su “La vita dopo la morte”, una sezione che si concentra sulla rappresentazione dell’Aldilà e della sua simbologia attraverso i corredi delle tombe e i sarcofagi.

Sarcofago giallo femminile XXI dinastia (ph. Tiziana Giuliani)

Approfondimento sulla mostra

Statua della dea serpente Meretseger, calcare, XIX-XX dinastia (ph. Tiziana Giuliani)
Statuetta di Amose-Nefertari (legno, XIX dinastia, regno di Ramesse II) e mattone di Thutmose I (argilla, XVIII dinastia). (ph. Tiziana Giuliani)

Con il primo video e i primi reperti in esposizione il visitatore viene catapultato nella riva est del Nilo, la sponda dei vivi, dove il sole sorge ogni mattina; precisamente siamo nella Tebe del Nuovo Regno, ricca di monumenti straordinari e grandi templi dedicati agli dei locali che diventano divinità nazionali, e dove la figura di Amon si lega profondamente alla regalità. Si raggiunge poi la riva occidentale (quella dei morti, quella dietro cui il sole tramonta) con i suoi templi dei Milioni di Anni che proprio in quel periodo fanno la loro comparsa e dove veniva perpetuato il culto del faraone. Ammirando la statua della dea Meretseger che apre il ciclo della fondazione di Deir el Medina si arriva al villaggio degli operai dove oggetti particolarmente evocativi come la statua di Ahmose-Nefertari divinizzata e il mattone con impresso il cartiglio di Thutmose I raccontano la fondazione del villaggio e la particolare dimensione religiosa della comunità e delle due valli scelte dai sovrani per le sepolture reali. Deir el-Medina (Set Maat, Luogo della Verità, per gli antichi Egizi) è un luogo dal quale ci sono giunte informazioni preziosissime sulla vita delle donne e degli uomini che vi hanno lavorato, un luogo che rimanda un po’ all’idea di fabbrica: un contesto sociale ed economico che lavora assieme per una trasformazione. Per attuare questa trasformazione servivano uomini qualificati che sapevano progettare, operare, scavare la roccia, trasformare le pareti levigandole e scolpendole per poi dare loro colore con i pigmenti e dare forma così alla per djet, uno spazio che, una volta varcata la soglia, diventava la casa del faraone per l’eternità: una forma di metaverso, una realtà parallela che sovverte la dimensione spazio-temporale; un mondo in cui è ammesso solo il defunto, il quale si incammina in un viaggio ultraterreno accompagnando il sole nel suo periplo. Qui valevano delle regole diverse, regole spazio-temporali differenti, in quanto i defunti non erano più nella realtà in cui avevano vissuto fino al trapasso ma in una realtà dove serviva uno sviluppo del tempo diverso, una nuova dimensione del tempo ciclico, quello del dio sole Ra che tutte le sere tramonta e di notte, fondendosi a Osiride, affronta un pericoloso viaggio durante il quale, ora dopo ora, supera tante prove e combatte contro il serpente Apophi per poi separarsi da Osiride e tornare vittorioso sulla terra sorgendo di nuovo, ogni giorno.

La ciclicità del tempo (ph. Tiziana Giuliani)

Serviva quindi la creazione di un microcosmo dove il faraone, una volta entrato nella tomba dopo l’apertura della bocca, veniva completamente trasformato. Quando moriamo si interrompe tutta una serie di connessioni molecolari, non c’è più energia; gli Egizi lo avevano già capito ed è per questo che pensavano che la persona fosse una figura complessa. Secondo loro ogni individuo era formato da un corpo e da altre entità che al momento della morte si separavano e che dovevano essere ricomposte e rimesse tutte insieme per riportare in vita il defunto e garantirgli la vita eterna. Per questo, una volta deposta la mummia nella tomba, dovevano ricomporre i diversi componenti: il corpo, il nome, la personalità, l’ombra, il Ba (l’anima che può trasmigrare da questo all’altro regno), il Ka (la forza vitale), ecc… Gli Egizi compresero tutto ciò già nel Medio Regno, ma è nel Nuovo Regno che lo codificarono. Questo ricongiungimento era necessario a tutti gli individui, indistintamente dal ruolo ricoperto in vita. Tutte le tombe quindi, sia reali che private, aspiravano a soddisfare questa funzione. Il rituale funerario e la tomba fornivano lo spazio e gli strumenti per garantire il ricongiungimento, grazie al quale il sovrano avrebbe accompagnato il sole nel suo periplo attorno la Terra e avrebbe iniziato la vita eterna. La stessa composizione architettonica e lo schema decorativo delle tombe reali, in particolare, riflettono l’evoluzione del culto solare e la progressiva assimilazione del faraone al sole in procinto di tramontare.

Per sottolineare questo concetto importantissimo delle credenze funerarie egizie e la ciclicità del tempo, una fine linea conduttrice accompagna il visitatore lungo il percorso espositivo che si chiude in modo figurato ad anello: ad aprire la mostra vi è una statua raffigurante la dea Mut, originariamente rappresentata con il suo sposo Amon e datata agli inizi della XIX dinastia, che presenta sul retro un’invocazione al sole nascente sotto forma del dio Khepri, e a chiudere l’esposizione c’è la stele dedicata a Ra-Harakhty dal disegnatore Pay, della stessa epoca, dove vediamo nel registro superiore la divinità seduta sulla barca solare attraversare il cielo da est a ovest e nel registro inferiore è iscritto un inno al sole nascente (il defunto, associato alla divinità solare, è guidato verso la rinascita nell’Aldilà).

Statua della dea Mut, Tebe, calcare, inizio XIX dinastia (ph. Tiziana Giuliani)
Retro della statua della dea Mut, inizio XIX dinastia (ph. Tiziana Giuliani)
Papiro con esercizi di disegno, periodo ramesside (ph. Tiziana Giuliani)

Servitori della Sede della Verità (il nome di questi artigiani in egiziano antico) svolgevano forse il lavoro più importante al mondo, quello di consegnare all’eternità la vita dei faraoni in modo che il loro culto potesse perpetuarsi. Non si trattava di un mero culto regale, era una cosa più grande, un qualcosa di più vitale, di cosmico appunto. Mentre la nostra società ha cercato di esorcizzare la morte, gli antichi egizi l’hanno interiorizzata, sviluppando un’industria funeraria fiorente e proiettando la vita al mantenimento dell’esistenza dopo la morte. I lavoratori e gli artigiani vivevano, perciò, per il fine più nobile: preparare il sovrano alla vita nell’Aldilà. In questa sezione vedremo quindi come questi professionisti realizzarono tutto ciò.

 

Rilievo con raffigurato lo scalpellino Piay, calcare, XIX dinastia, e un cesello (ph. Tiziana Giuliani)
Alcuni degli attrezzi usati dagli artigiani di Deir el-Medina (ph. Tiziana Giuliani)
Ostracon con disegno tecnico di sarcofago e tracce di un’iscrizione ieratica, calcare, XIX-XX dinastia (ph. Tiziana Giuliani)

Il percorso espositivo, infatti, presta particolare attenzione al processo di costruzione delle sontuose tombe reali; sono visibili gli strumenti di lavoro, gli attrezzi e i papiri con piante di edifici e studi di disegno. Partendo dalla componente materiale, vedremo come la tomba rispecchiasse la creazione di un cosmo alternativo, il microcosmo di cui abbiamo parlato, concetto che viene spiegato molto chiaramente da un altro video di particolare impatto che ci fa fare un viaggio all’interno di uno dei progetti più antichi al mondo a noi pervenuti: la pianta della tomba di Ramesse IV. Si tratta di un papiro estremamente fragile che riproduce la sepoltura del sovrano della XX dinastia a lavori ultimati – non stiamo parlando quindi di un progetto preliminare – la cui riproduzione virtuale, curata dal Museo Egizio ma ideata da Corinna Rossi e realizzata appositamente per Vicenza da Robin Studio, rende visibili dettagli e aspetti difficili da cogliere osservando l’originale in quanto è un papiro relativamente piccolo e di difficile interpretazione. Sono “due i nuclei tematici nei quali si articola l’installazione: il primo guida il visitatore alla comprensione del papiro, spiegando cosa vi sia scritto e rappresentato; il secondo, dal carattere poetico e narrativo, mette in luce la relazione tra il ciclo solare e il ciclo vita-morte, attinenza particolarmente significativa per la costruzione della tomba”. Seguendo il primo nucleo tematico si possono apprezzare tutte le interessantissime informazioni che il papiro ha restituito; ad esempio, sapere quanta attenzione sia stata prestata nella scelta della sezione di roccia da scavare per la realizzazione della sepoltura, scoprire che i corridoi erano tutti chiusi da porte a doppio battente, che il sarcofago dipinto di rosa indica il materiale di realizzo, il quarzo, e che dovevano essere presenti dei sacelli (segnati sulla mappa in giallo) la cui identificazione è stato un mistero risolto solo dopo la scoperta della tomba di Tutankhamon. Con la seconda parte di questa proiezione potremo viaggiare con il faraone e comprendere come questo spazio sia un luogo di trasformazione e un nuovo spazio di vita.

Modello della tomba Nefertari in scala 1:10 (ph. Tiziana Giuliani)

In questa sezione vedremo anche il modello in scala della dimora per l’eternità di Nefertari che Schiaparelli fece costruire per il Museo Egizio e quello della tomba di Irinefer e Nakhtmin, Servitori nella Sede della Verità durante il regno di Ramesse II.

Modello della tomba Irinefer e Nackhtmin (ph. Tiziana Giuliani)
Modello della tomba Irinefer e Nackhtmin (ph. Tiziana Giuliani)
Ostracon con donne che si ingioiellano, calcare, XIX-XX dinastia (ph. Tiziana Giuliani)

Per poter realizzare tutto ciò di cui abbiamo parlato non ci si poteva affidare a dei lavoratori qualunque, servivano le maestranze degli uomini di Deir el-Medina, un villaggio con una squadra di artisti altamente qualificati voluto appositamente da Amenhotep I e sua madre Ahmose-Nefertari verso i quali gli abitanti esercitarono un fervente culto postumo, venerandoli e invocandoli per tutti i 500 anni di attività del villaggio (1536-1076 a.C. circa). Set Maat ospitava 120 famiglie che avevano un unico compito: quello di costruire e allestire le tombe della Valle dei Re e della Valle delle Regine. Lo splendore della vita racconta la straordinaria storia di scribi, disegnatori, operai, artigiani e artisti proponendo scorci dettagliati sulla quotidianità della piccola e laboriosa comunità, raccontandone gli ambienti domestici, le attività, le botteghe, ma anche le credenze religiose, le speranze, le paure e gli amori. Una narrazione che prende vita tra le vivide scene dipinte che decorano le pareti delle tombe di questa gente (spazi dove i Servitori della Sede della Verità erano più liberi di esprimere la loro creatività rispetto al lavoro che svolgevano nelle tombe reali) e tra gli oggetti della cultura materiale che riportano in vita gli abitanti stessi facendoceli ritrovare nei manufatti e nei loro ambienti pieni di vita e colore, oggi invece vuoti, silenziosi e privi di cromia.

Ostracon con scena di allattamento, calcare, XIX dinastia, periodo ramesside (ph. Tiziana Giuliani)

In mostra quindi non mancano le stele invocative dedicate ai fondatori della comunità e alla dea Meretseger (“Colei che ama il silenzio”, la dea serpente impersonificazione della cima della montagna che sovrasta il villaggio dove la dea era protagonista indiscussa del Pantheon egizio e verso la quale gli abitanti nutrivano una profonda devozione), ostraca fornitori di preziosissime informazioni, strumenti musicali come la lira proveniente dal Louvre a testimoniare come la musica accompagnasse le loro giornate, gli attrezzi per i lavori domestici, telai, fusaiole, busti degli antenati, uno stampo per perline di faience, ceramiche e cesti che venivano usati ogni giorno dalle persone comuni per svolgere le loro attività quotidiane.

Papiro con schizzo relativo alla costruzione di un mobile, XX dinastia, regno Ramesse IX (ph. Tiziana Giuliani)

Con essi anche i supporti dove gli Egizi si esercitavano nella scrittura e nel disegno (vedi il papiro con la rappresentazione di un mobile ricco di dettagli e l’ostracon con disegni tecnici di un sarcofago). Inoltre illustrazioni con scene di intimità, come la scheggia di calcare che raffigura una deliziosa scena di allattamento o quella che rappresenta due donne intente a ingioiellarsi nelle loro stanze. Curioso è il frammento di terracotta che riporta un ordine di acquisto di quattro finestre dove vediamo disegnato anche il modello desiderato. I testi tramandati sono di varia natura: da documenti amministrativi, economici e contabili a scritti di carattere religioso o letterario, poesie d’amore e lettere private.

Frammento di papiro dello Stato Civile, XX dinastia, regno Ramesse IX (ph. Tiziana Giuliani)

Tra i registri pubblici sono da menzionare il frammento di un papiro noto come “Stato Civile”, una sorta di catasto ante litteram che ci informa sulla composizione dei nuclei familiari, dei loro nuclei abitativi, nonché sulla complessità del sistema legale e fiscale durante il Periodo Ramesside, e il “Giornale della necropoli” (che però vediamo nella sezione della creazione del microcosmo) che ci illumina su come era organizzato un cantiere, in quanto vi furono registrati i materiali consegnati, le squadre, gli appunti sulle visite delle autorità, gli incidenti occorsi…

Un dettaglio del Giornale della Necropoli (ph. Tiziana Giuliani)

Tutto materiale questo che non solo indica un’alta alfabetizzazione (necessaria anche per copiare correttamente i testi religiosi nelle tombe), ma è anche testimone di spessore culturale, principi e insegnamenti. “Guarda con i tuoi occhi tutti i mestieri e tutto quello che è stato scritto, e vedrai che le parole che ti ho detto sono eccellenti. […] Diventerai uno scriba e te ne andrai per la casa della vita, diventerai come un baule di libri […]”. Queste sono le parole che lo scriba Amennakht dedica al suo allievo in un testo sapienziale noto come “L’insegnamento di Amennakht”. Sempre a quest’ultimo e allo scriba Hori si deve il Papiro delle Miniere d’oro, con la più antica carta geografica con informazioni geologiche di cui si abbia conoscenza. Queste sono solo alcune delle tantissime testimonianze emerse dall’operosa e colta comunità.

Ostracon di Nakhtimen con ordine di acquisto di 4 finestre, terracotta, XIX dinastia, regno di Ramesse II (ph. Tiziana Giuliani)
Sarcofago antropoide di Khonsuirdis, XXV dinastia (ph. Tiziana Giuliani)
I finti vasi in alabastro di Huy (a sx) e di Urny in legno dipinto (a dx). (ph. Tiziana Giuliani)

La mostra ci farà riflettere anche sulla “Rinascita”, la vita oltre la morte, perché, come abbiamo detto, alla morte fisica seguiva il complesso rituale finalizzato a garantire la wehem meswt, la “nuova nascita” nell’Aldilà. E’ proprio la presenza di sarcofagi (il luogo che permette al corpo di tornare a nuova vita) a ricordarcelo. Varcando la “soglia” che dalla prima ci introduce alla seconda parte della mostra si passerà proprio dal mondo dei vivi a quello dei morti, un passaggio segnato appunto dalla presenza di un sarcofago antropomorfo, quello ligneo di Khonsuirdis.

La sezione ‘Rinascita’ (ph. Tiziana Giuliani)
Il pomello di Ay (faience, XVIII dinastia) e il pilatro djed di Nefertari (legno e vetro, XIX dinastia, regno di Ramesse II). (ph. Tiziana Giuliani)

In questa sezione incontreremo un personaggio conosciuto anche ai non addetti ai lavori, la grande sposa reale di Ramesse II, la regina Nefertari: troveremo infatti il coperchio del suo sarcofago esterno rinvenuto nella tomba scoperta da Schiaparelli nel 1904, le statuette funerarie e quel che resta degli oggetti del corredo che la sovrana fece preparare per il suo viaggio ultraterreno. Non manca neppure il famoso pomello con il nome di Ay trovato nella sua sepoltura, un sovrano della XVIII dinastia vissuto un secolo prima su cui tanto si è ipotizzato. Forse Nefertari era legata in qualche modo ad Ay, forse il pomello era parte di un oggetto di famiglia a lei caro, un ricordo che lei volle portare con sé… alla fin fine gli Egizi non erano diversi da noi, provavano un certo trasporto per la cultura materiale proprio come noi.

Coperchio del sarcofago esterno di Nefertari con la dea Nut, granito, XIX dinastia, regno di Ramesse II (ph. Tiziana Giuliani)
Ushabti in faience di Seti I (ph. Tiziana Giuliani)

Ma troveremo anche gli stupendi ushabti in faience turchese di Seti I esposti proprio di fronte a quelli lignei di Nefertari e altri piccoli servitori che avrebbero dovuto alleviare le fatiche nei campi di Iaru, la coppa del Louvre, ma anche sarcofagi gialli come quello di XXV dinastia appartenuto alla Signora della Casa Tariri che con la sua mummia è testimone dell’evoluzione iconografica nel tempo. La mummia rappresenta il risultato finale del complesso processo di preparazione del defunto per la vita dopo la morte e proprio per questo è l’ultimo elemento materiale del percorso scientifico.

Sarcofago e mummia della Signora della Casa Tariri, XXV dinastia (ph. Tiziana Giuliani)

Si conclude la visita ripercorrendo anche quella che è stata la fine di questo villaggio che ha funzionato per ben cinque secoli. Oggi si direbbe che l’Egitto ha speso troppo rispetto alle proprie necessità. Già all’epoca di Ramesse III si inizia ad assistere a dei disagi sociali (vedi il papiro dello sciopero) e durante il regno di Ramesse XI (…-1078 a.C. circa), durante la vita dello scriba reale Buteamon, responsabile della Necropoli Reale di Tebe, il villaggio venne abbandonato; una data forse non proprio esatta in quanto degli ostraca sia figurativi che epigrafi attestano attività nel villaggio in periodi successivi, ma al tempo stesso sappiamo benissimo che lo stesso Buteamon se ne andò da Deir el-Medina per costruire la sua casa e il suo ufficio proprio nel tempio di Medinet Habu, poco lontano da Set Maat, un luogo che doveva essere ben protetto in quanto lui svolgeva un lavoro importantissimo: doveva salvaguardare le sepolture reali. Per compiere il suo dovere andava ogni giorno in perlustrazione della necropoli per mettere in sicurezza i sarcofagi dai predatori di tombe, un fenomeno che dilagava e che si doveva contrastare in tutti i modi. L’Egitto stava vivendo un periodo di crisi. Ne è testimone, tra gli altri, il Robbery Papyrus di Londra, dove è emblematica la risposta che una vedova diede a un giudice che le chiese come mai il marito avesse rubato dei bacini di bronzo da una sepoltura: con quegli oggetti lei e i suoi figli avevano mangiato per tre anni.

E’ proprio Buteamon a chiudere la mostra. Grazie a raffinatissime tecnologie viene narrata la costruzione del suo sarcofago restituendoci una sorta di biografia dell’oggetto. Un’ultima tappa, prima di ritornare alla realtà dei nostri giorni, che ci induce a meditare su questo periodo buio e di crisi che avvolse l’Egitto e che mise fine a quella fabbrica di meraviglie.

L’istallazione multimediale che narra la costruzione del sarcofago di Buteamon (ph. Tiziana Giuliani)
L’istallazione multimediale che narra la costruzione del sarcofago di Buteamon (ph. Tiziana Giuliani)

Per concludere, questa di Vicenza è una mostra che ci fa riflettere sulla vita, sulla vita dopo la morte, sull’esistenza lieta e sulle sue difficoltà, su come veniva organizzato il lavoro, su come si svilupparono le credenze locali, ma viene affrontato anche un tema etico, perché alla fine, quello che contava per gli Egizi era la Maat, la giustizia, la verità, allora, come oggi, la cosa che permetteva di vivere bene sulla terra e che permetteva di ambire ad una vita dopo la morte.

Quindi, auguriamoci tutti di poter diventare Maat keru, veritieri di voce, dotati di vita come il dio sole, per sempre.

La sezione ‘Rinascita’ con in primo piano, a sx, un sarcofago giallo di XXI dinastia (ph. Tiziana Giuliani)

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Ricordo che la mostra è stata ideata e promossa dal Comune di Vicenza e dal Museo Egizio, con il patrocinio della Regione Veneto e della Provincia di Vicenza, in collaborazione con il Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio e la Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza. La promozione e l’organizzazione sono curate da Marsilio Arte, che ne pubblica il catalogo. Tra i partner dell’esposizione Intesa Sanpaolo e Gallerie d’Italia – Vicenza, Fondazione Giuseppe Roi, AGSM AIM, Confindustria Vicenza, LD72, Beltrame Group ed Euphidra.

Per l’allestimento: il progetto è stato curato dallo Studio Antonio Ravalli Architetti e realizzato da MIMEC, mentre l’allestimento dei reperti è stato curato da Marco Rossani e Roberta Accordino del Museo Egizio. Le didascalie dei papiri sono state affidate a Susanne Töpfer.

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Ushabti in legno, calcare e terracotta (ph. Tiziana Giuliani)
Statuetta femminile votiva in argilla (ph. Tiziana Giuliani)

Info:

“I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone”

Basilica Palladiana, Vicenza
22 dicembre 2022 – 28 maggio 2023
www.mostreinbasilica.it 

 

 

 

[1] Stime riportano che in Egitto durante il Nuovo Regno il 2% della popolazione sapeva leggere e scrivere, percentuale che invece era molto più alta a Deir el-Medina

[2] Come ha affermato il Sindaco di Vicenza Francesco Rucco

Ostracon con disegno di prova di figure femminili, calcare, XIX-XX dinastia (ph. Tiziana Giuliani)
Ostracon con il dio Bes, calcare (ph. Tiziana Giuliani)
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