Göbekli Tepe e Karahan Tepe. Due nomi difficili, che sono destinati a riecheggiare nei libri di storia delle prossime generazioni come “i più antichi insediamenti stabili degli esseri umani” e “i siti che hanno messo in crisi e riscritto la storia ufficiale”. Definiti giustamente “ground zero della storia” dalle autorità culturali turche, i due siti distano circa 40 km e si trovano nel sud-est del paese, nella cosiddetta Mesopotamia Settentrionale, al confine con la Siria.

Gobekli Tepe. Credits to Turkish Culture Ministry

Si tratta di due insediamenti Neolitici, di dimensioni notevoli, realizzati interamente in pietra. Diverse le caratteristiche che li rendono unici, tutte legate alla più incredibile: l’antichità. Entrambi i siti risalgono almeno al X millennio a.C.: Göbekli Tepe è stato datato con ragionevole sicurezza al X-IX millennio a.C., mentre incerta è ancora la datazione di Karahan Tepe (grossomodo contemporaneo, potrebbe essere addirittura leggermente più antico). Entrambi i siti sono poi caratterizzati da enormi strutture fondate su pilastri megalitici, dalla caratteristica forma “a T”, che nei casi più incredibili superano i 5,5 metri di altezza! Strutture cultuali, residenziali, abitazioni private: i siti sembrano essere vere e proprie città ante-litteram, con un piccolo particolare interessante: secondo qualsiasi libro di storia, l’agricoltura si sarebbe sviluppata per la prima volta sulla Terra in questa zona… ma non prima della caduta di questi enormi siti!

Karahan Tepe. Credits to Turkish Culture Ministry

E che dire della metallurgia, le cui prime attestazioni sicure non possono essere portate, anche nei casi delle teorie più estreme, più indietro del V millennio a.C.? L’idea che centri di queste dimensioni e opere architettoniche così complesse siano state portate a termine da popolazioni prive di risorse agricole e di strumenti tecnologici quali la ruota o gli strumenti in metallo è risultata indigesta a molti studiosi: eppure, le testimonianze archeologiche non mentono. Tra i vari misteri ancora irrisolti di questi insediamenti, uno è connesso da vicino alla mancanza di metallurgia: si tratta della grande abbondanza delle sculture di ogni forma e dimensione, in pietra, spesso a grandezza naturale o superiore al vero. Com’è stato possibile per gli antichi abitanti dell’Anatolia realizzarle? È certamente quello che si sono chiesti gli archeologi anche negli ultimi mesi, segnati in entrambi i siti dal rinvenimento di nuove, straordinarie sculture.

La statua falloforica di Karahan Tepe. Credits to Turkish Culture Ministry

A Karahan Tepe, la scoperta più singolare: una gigantesca statua raffigurante un uomo, alta 2,3 metri, con una grande testa dal volto estremamente realistico. A colpire è anche il corpo: su tutto il busto, sono chiaramente evidenziate le ossa delle spalle, le coste e lo sterno, attraverso profonde scanalature: secondo le prime interpretazioni, questo tipo di raffigurazione potrebbe essere un tentativo di rendere in maniera naturalistica il corpo umano o forse, all’esatto contrario, di indicare simbolicamente una persona defunta. La caratteristica più singolare, tuttavia, è un’altra ancora: la statua infatti ha le braccia lungo i fianchi, con le mani vicine tra loro all’altezza del pube, e con la sinistra regge il suo stesso fallo, puntato in maniera ortogonale in avanti.

La statua falloforica di Karahan Tepe. Credits to Turkish Cultural Ministry

Gli abitanti di questo insediamento non sono nuovi a trovate di questo genere: meno di due anni fa veniva divulgata la notizia della scoperta di un ambiente sotterraneo nel quale, tra le altre cose, spiccavano undici grandi colonne di forma fallica. Non ci sono ancora ricostruzioni ufficiali precise da parte degli studiosi, ma la connessione con un qualche culto della fertilità e/o potenza guerriera in questo luogo parrebbe evidente. Accanto al “gigante” è stata rinvenuta anche la statua di un avvoltoio.

L’avvoltoio di Karahan Tepe. Credits to Turkish Culture Ministry

Meno osceno ma più articolato quanto rinvenuto negli scorsi mesi a Göbekli Tepe. Qui gli scavi si sono concentrati nel cosiddetto Edificio D, uno dei più importanti dell’intero complesso, in seguito allo studio del quale è stato messo in dubbio che la collina sia stata creata volontariamente per nascondere il sito (l’ipotesi inizialmente più accettata dagli archeologi): analizzando crolli e riempimento di questo edificio e di un altro, è stato proposto che invece il sito sia stato vittima di frane dovute, forse, a un’alluvione. Quel che è stato rinvenuto su una parete della stanza fa parte di un complesso sistema decorativo: ai piedi di un grande pannello di pietra inciso e forato era stata realizzata una banchetta decorata, sulla quale era posta una statua a grandezza naturale.

Il cinghiale di Gobekli Tepe. Credits to Istituto Archeologico Germanico

La statua in questione, in pietra calcarea bianchissima, rappresenta un cinghiale, rappresentato in maniera estremamente realistica, non solo anatomicamente ma anche nel colore: l’analisi della superficie, infatti, ha rivelato la presenza di pigmenti di colore rossi, neri e bianchi. Tutte queste caratteristiche fanno del cinghiale dell’Edificio D la statua dipinta più antica della storia dell’umanità, nonché un’antichissima testimonianza di arte realistica e, dunque, un serio problema per alcune rigide teorie sull’arte preistorica, che andranno inevitabilmente aggiornate. Le decorazioni della banchetta, a bassorilievo, prevedevano poi in ordine da sinistra a destra una specie di H, una mezzaluna, due serpenti e tre “maschere” umane.

La banchetta decorata, con cinghiale e pannello retrostante. Credits to Istituto Archeologico Germanico

Le due statue animali, avvoltoio di Karahan Tepe e cinghiale di Göbekli Tepe, si somigliano molto nello stile e nei processi realizzativi, e sono solo gli ultimi esemplari di una ricca messe di reperti simili che in pochi anni sono emersi da entrambi gli scavi. In queste straordinarie località, ben più che delle banali “Stonehenge anatoliche”, la Storia viene riscritta ogni giorno dal lavoro paziente degli archeologi. Attendiamo allora nuovi incredibili tasselli dai prossimi scavi.

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Giulio Vignati

Nato nel 1997, grande appassionato di storia antica e storia in generale, frequenta il Liceo Classico a Milano diplomandosi nel giugno del 2016. Si iscrive poi al corso di laurea in Lettere con indirizzo Antichista presso l’Università degli Studi di Milano, laureandosi nell’ottobre del 2019 con una tesi in Epigrafia Latina dal titolo “Gli equites nella documentazione epigrafica di Brixia”. Passa poi al corso di laurea magistrale in Archeologia presso la medesima università, specializzandosi in storia e archeologia del Vicino Oriente Antico e conseguendo la laurea con una tesi di ambito vicino-orientale dal titolo “Produzione e circolazione di manufatti d’argento tra Anatolia e Mesopotamia Settentrionale durante il Bronzo Medio”. Dal 2020 è membro della missione italiana in Turchia PAIK, che scava presso l’antico sito anatolico di Kaniš/Kültepe, e della missione italiana nel Kurdistan Iracheno MAIPE, che scava presso gli antichi siti di Tell Aliawa e Tell Helawa, partecipando alle operazioni di scavo, documentazione e post-scavo di entrambi i progetti.
 

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