La straordinaria abilità degli antichi costruttori romani è universalmente riconosciuta, ma ci si è spesso domandati come sia stato possibile realizzare certe costruzioni monumentali ai quei tempi.
A gettare più luce su questo “mistero” è un’interessantissima scoperta del team dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Haifa, guidato dal dott. Michael Eisenberg e da Arleta Kowalewska, che ha lavorato presso la città di Antiochia-Hippos, situata su una collina che domina il versante orientale del Mar di Galilea.
Il team era impegnato nella ricostruzione della basilica romana e ne aveva già ricomposto alcune colonne alte 9 metri e formate da un piedistallo, una base, un fusto e un capitello, il tutto realizzato con blocchi di basalto estratti dalle cave locali. I blocchi avevano tutti lo stesso diametro, ma differente altezza: l’ordinamento in fase costruttiva doveva per forza essere stato pianificato in precedenza presso la cava.
Osservando attentamente alcuni blocchi, gli archeologi hanno notato alcuni segni piccoli e appena riconoscibili e hanno dedotto che fossero dei marchi incisi dai tagliapietre per indicare ai costruttori il corretto posizionamento dei blocchi: una sorta di antiche “istruzioni di montaggio”.
I tagliapietre nelle cave contrassegnavano i blocchi in modo tale che i costruttori in cantiere sapessero poi come assemblarli. I blocchi di una colonna, ad esempio, venivano marcati con una lettera che indicava la colonna e un numero che indicava la posizione del blocco nella struttura della colonna stessa. “Il pezzo marcato con ‘IIIIA’ andava sopra quello marcato con ‘IIIA’, e così via”, spiega il dott. Eisenberg.
L’utilizzo di lettere e numeri può far supporre che i tagliapietre avessero un certo grado di istruzione, ma non è detto. Anzi, tenendo conto della bassa percentuale di alfabetizzazione a quei tempi non è da escludere che i tagliapietre non sapessero né leggere né scrivere, ma sapevano certamente come incidere i loro segni.
I marchi incisi sui blocchi di pietra potevano essere di due tipi: firme o istruzioni di assemblaggio.
Il fatto che in alcuni casi i tagliapietre “firmassero” i blocchi non deve far pensare a una questione di vanità. Certamente estrarre le pietre dalla roccia madre posizionando e angolando correttamente il cuneo richiedeva esperienza e abilità, così come scolpire a mano gli elementi architettonici in modo che dalla cava uscisse il blocco finito. I tagliapietre, quindi, firmavano i blocchi anche per garantirsi i crediti del loro duro lavoro e assicurarsi di essere pagati. La firma poteva essere quella di una singola persona, ma anche di un’intera squadra che lavorava in una certa cava, e poteva indicare anche la provenienza dei lavoratori: “I segni sui palazzi e sulla tomba di Re Erode sono in ebraico e indicano quindi l’impiego di tagliapietre locali, sebbene gli edifici abbiano molte caratteristiche romane”, afferma la Kowalewska.
I segni dei tagliapietre servivano anche da istruzioni di assemblaggio. Dato il duro lavoro richiesto per estrarre e preparare i blocchi finiti, i cavatori volevano essere certi che ogni pezzo venisse posizionato esattamente dove era stato previsto. Questo stratagemma si sta trasformando oggi in un valido strumento nelle mani degli archeologi per la ricostruzione degli edifici e delle strutture monumentali, dal momento che i segni si sono preservati su molte pietre. Non tutte venivano “marcate”, a volte una su cinque: a Hippos-Sussita, ad esempio, circa il 20% dei blocchi di basalto della pavimentazione porta i segni dei tagliapietre.
Oltre all’utilità per gli archeologi nel poter forse ricostruire “tutto com’era”, questi segni servono comunque come promemoria di tutto il duro lavoro eseguito dai costruttori del passato.