La storia romana e in special modo la sua fase repubblicana è costellata da eventi che hanno fatto clamore. Eventi che rientrano anche nel diritto penale, come questi, oggetto di questo articolo, che hanno visto come protagoniste – sia pure in alcuni casi in negativo – le donne.
Nel IV secolo a.C. e più precisamente nel 331, sotto il consolato di M. Claudio Valerio e C. Valerio Potino erano avvenute delle morti inspiegabili. Morti di uomini che rivestivano posizioni di potere. L’arcano venne spiegato da una ancella che, dopo aver ottenuto l’impunità in cambio della rivelazione, svelò all’edile Q. Fabio Massimo che la strage era stata la conseguenza di un muliebris fraus: alcune matrone avevano preparato e somministrato alle vittime – mariti o comunque parenti stretti – dei potenti veleni. Nelle case delle accusate vennero rinvenute delle pozioni misteriose, che furono portate nel Foro, dove vennero convocate anche una ventina di matrone.
Due di esse, Cornelia e Sergia, dissero che si trattava di 𝑣𝑒𝑛𝑒𝑛𝑎 𝑏𝑜𝑛𝑎, di misture salutari, insomma. Ma la loro accusatrice le sfidò a berli, e dopo averlo fatto, morirono entrambe.
Ce lo racconta Tito Livio nei suoi Libri ab urbe condita (XVIII), pur non giurando sulla veridicità dell’accaduto e associando, secondo lo schema annalistico, le catastrofi naturali agli eventi di eccezionale gravità.
L’anno seguente fu terribile sia per l’inclemenza del tempo sia per le colpe commesse dagli uomini. Consoli erano M. Claudio Marcello e Caio Valerio. Negli annali ho variamente trovato Flacco e Potito come soprannomi attribuiti a Valerio: quale sia la verità non è però molto importante. La notizia che vorrei sinceramente fosse falsa (e non tutti gli autori la riportano) è questa: che gli uomini la cui morte rese memorabile l’anno morirono non per la pestilenza, ma avvelenati. (…) Mentre i personaggi più in vista della città contraevano la medesima malattia e morivano quasi tutti nella stessa maniera, un’ancella si presentò all’edile curule Quinto Fabio Massimo dicendo che gli avrebbe rivelato la causa del contagio che affliggeva i cittadini se egli le avesse garantito che quella denuncia non le avrebbe arrecato danno.
Quello che accadde in seguito appare poco credibile: dopo la morte delle due donne, le altre presero tempo per consultarsi con le complici, che vollero ingerire anche loro le pozioni, morendo della stessa atroce morte. Le loro ancelle, arrestate, rivelarono i nomi di altre avvelenatrici.
Una follia, più che un crimen. O così si pensò all’epoca.
Il fatto era così grave che fu necessario purificare la città col rito della lustratio, cerimonia periodica e quinquennale (da cui la parola “lustro” per indicare un numero di anni pari a cinque), perché veniva effettuata quando i censori lasciavano la loro carica al termine del mandato. I giudici, successivamente nominati, condannarono a morte centosettanta donne.
Passò del tempo e, tra il 184 e il 180 a.C., scoppiò una misteriosa epidemia, alla radice della quale erano ancora delle donne. Più di duemila, tutte condannate dopo il processo.
Infine, nel 153 a.C., si verificò un altro misterioso episodio: due donne, Publilia e Licinia, furono accusate di avvelenamento dei mariti, ambedue consoli. La differenza rispetto ai casi precedenti è che questa volta non ci fu condanna pubblica. Le donne furono infatti consegnate ai familiari e strangolate, tipica morte senza effusione di sangue riservata alle donne.
I racconti parlano chiaro ma non altrettanto chiaro appare il movente di tali delitti, perché, comunque li si voglia interpretare, di omicidi si tratta. Ma poiché qualsiasi evento, anche facinora (nel senso deteriore del termine, trattandosi di vox media) come questi, va contestualizzato storicamente, appare inevitabile chiedersi quale fosse la condizione femminile all’epoca dei fatti e perché tante donne abbiano scelto una strada così discutibile per rivendicare l’autonomia e la libertà diminuite ulteriormente dalla crisi e da una legislazione oppressiva e liberticida.
Si tratta di un’epoca piuttosto estesa temporalmente poiché va dal IV al II secolo a.C., ma gli eventi di maggior peso sono avvenuti nel II secolo, epoca di trasformazioni socioeconomiche non indifferenti. Basti qui citare la lex Oppia (215 a.C.) per la quale le donne ricche e patrizie si erano viste depauperate della possibilità di ostentare vesti molto colorate e gioielli preziosi nel nome di leggi sumptuariae (cioè, relative alle spese e all’ostentazione del lusso), che limitavano fortemente la possibilità di godere dei privilegi dovuti alle donne di alta condizione socio-economica. In realtà l’impossibilità di ostentare vesti troppo vistose e monili preziosi era solo la punta dell’iceberg di una legge fortemente vessatoria nei confronti delle donne. La legge, emanata all’inizio della II guerra punica, cadde in un periodo di forte crisi per l’erario romano per la quale si decise una tassazione dei patrimoni femminili.
Nel 195 la lex Oppia, a causa delle dimostrazioni di cui ci rende conto anche Catone il Censore (all’epoca console), che ne fa una questione ideologica e misogina più che morale, viene abrogata. Non sarebbe accaduto senza le contestazioni femminili – soprattutto di ricche matronae patrizie, che speravano infine di poter disporre del loro patrimonio personale – appoggiate dai tribuni della plebe. Il Senato fu assediato. Queste le parole pronunciate da Catone in merito alla protesta, parole che con il contenuto della lex Oppia paiono avere poco a che fare e molto, invece, con la paura di ben altre rivendicazioni femminili.
“Questo non è che uno, e dei minori, tra i freni che le donne mal sopportano di vedersi imporre dalle usanze o dalle leggi. Ciò che desiderano è la libertà o, se vogliamo chiamare le cose con il loro nome, la licenza in tutti i campi. Che cosa non tenteranno, se otterranno questo?”
Le ragioni delle donne sono riassunte in uno dei passi del discorso di Lucio Valerio, uno dei tribuni che, assieme a Marco Fundanio, aveva proposto l’abrogazione della legge:
“… poiché a te uomo è permesso ornare con la porpora la tua praetexta, forse alla tua madre di famiglia non concederai di avere una veste purpurea, e sarà forse il tuo cavallo bardato in maniera più bella di quanto non sia vestita tua moglie”.
Non passano molti anni che viene emanata con le stesse finalità coercitive la lex Voconia (169), che limita la possibilità per le donne di ereditare più di 200.000 assi e di godere dunque di uno status e di privilegi adeguati al loro rango. Impossibile anche ereditare dalla madre. Solo le Vestali e la Flaminica Dialis erano escluse dalla lex Voconia “perché queste ultime non erano toccate dalle prescrizioni del primo caput della lex. Come è noto, le Vestali per essere tali dovevano aver reciso i vincoli agnatici con la famiglia di origine. Essendo sottratte a ogni forma di dominio maschile del padre, del marito o del tutore erano libere di testare senza le procedure cui erano soggette le altre donne. Si è ritenuto sulla scorta di questo testo che la lex Voconia includesse (come altre leggi) una lista di exceptae personae, tra cui le Vestali.” (A. McClintock)
In questo periodo, contraddistinto da guerre continue e da turbolenze sociali, gli uomini abili alla guerra erano lontani da Roma e questo accentuò il disagio della componente femminile, già di per sé, come detto, gravemente limitata nei suoi diritti.
“Come meravigliarsi se, in questo quadro, vennero sempre più affermandosi i culti bacchici?”, dice Eva Cantarella. E cita, la studiosa, l’inevitabile e prezioso Livio che sull’argomento fornisce informazioni dettagliate, narrando che i culti orgiastici si erano diffusi a Roma anche in virtù dell’opera della sacerdotessa campana Paculla Annia, che li avrebbe introdotti a Roma attorno al 188 a.C., come espressione deviata dei culti misterici in onore di Bacco.
I Bacchanalia esistevano già, infatti, ma erano riti diurni e riservati alle sole donne, con la frequenza di tre giorni all’anno.
Paculla li modificò in riti notturni e ne amplificò anche la frequenza (cinque al mese), aprendoli a uomini e donne di tutte le classi sociali, e al vino, bevanda notoriamente vietata alle donne. Anche i figli di Paculla, Minio e Errenio Cerrino, partecipavano ai riti orgiastici. Tali raduni venivano effettuati nel lucus Stimulae (boschetto sacro di Stimula, la dea della follia), sull’Aventino (zona multietnica, dove abitavano, tra l’altro molti plebei) e prevedevano una corsa verso il Tevere dove uomini e donne immergevano delle fiaccole senza farle spegnere.
Cosa accadesse durante i riti è facile comprenderlo, ma per evitare la condanna morale che, inevitabile, si sarebbe abbattuta sui partecipanti, che si abbandonavano ad accoppiamenti omo- ed eterossessuali, si parlava di “possessione” tanto che gli uomini si travestivano da donne, in un chiaro rovesciamento, anche estetico, della loro identità sessuale. Una sorta di carnevale erotico, se vogliamo, forse uno sfogo per la donna romana, costretta a condurre una vita sacrificata seppure più libera rispetto alla sua omologa ateniese. Questo culto venne soppresso nel 186 a.C. col decreto Senatus consultum de Bacchanalibus, dopo un’estesa inchiesta del Senato romano al termine della quale migliaia di persone furono condannate a morte.
Fontaine ipotizza che la protagonista della fabula plautina “Truculentus”, l’avida e disinibita cortigiana Fronesio, sia proiezione neanche tanto velata della sacerdotessa campana. Un esempio di quanto i Bacchanalia fossero diventati argomento di discussione e di condanna morale. Lo stesso dicasi per gli echi della legge che sopprimeva i Baccanali nell’ “Hecyra” di Terenzio.
Ma quale rapporto hanno i riti orgiastici con gli avvelenamenti degli uomini? Anche qui la storia ricorda da vicino quella raccontata da Livio, che pare un modello da applicarsi a una serie infinita di eventi (basti pensare anche alla congiura di Catilina): una ex iniziata, la liberta Ispala Fecenia col suo amante, Publio Ebuzio, rivelò al Senato le pratiche della setta. Le rivelazioni della coppia contemplarono l’uso di violenze, falsificazioni testamentarie e avvelenamenti di parenti degli iniziati, finalizzati al recepimento della ricca eredità.
Possiamo parlare, come sostiene Hermann, di rivolta protofemminista? Non concordano in molti, che in questi eventi vedono piuttosto un temporaneo momento di rivalsa contro la marginalizzazione della donna, ma anche di altre figure che non avevano spazio nella rigida società romana (basti pensare ai plebei e ai liberti). Il clima di controllo sui costumi pubblici e privati all’inizio del II secolo era particolarmente oppressivo. Lo testimonia Catone il Censore che, se dobbiamo dare credito a Livio e a Plutarco – che pare avere raccolto la notizia da un’anonima fonte latina – avrebbe fatto espellere nel 184 (anno della censura, assunta assieme a Valerio Flacco) ben sette senatori sotto l’accusa di indegnità. L’iter prevedeva in questi casi che i censori redigessero una lectio senatus, una sorta di lista dei senatori con omissione degli indegni.
I senatori espulsi furono sette, ma i nomi a noi sicuramente noti sono due: quello di Lucio Quinzio Flaminino, e quello di un personaggio che Plutarco chiama Manilio, forse identificabile in Manlio Vulsone, futuro console del 178.
E se persino Catone dichiara di abbandonarsi alle effusioni con la moglie, è pur vero che l’amore nel matrimonio romano non veniva contemplato come elemento indispensabile per la felice riuscita del legame, fondato principalmente sulla riproduzione e sul perpetuarsi della res familiaris. Su questo ricordiamo le parole di Seneca, che invita a non amare la moglie di “affetto”, non trattandosi di un’adultera, e a limitarsi ad esprimere un sentimento “giudizioso”. Moderato, insomma.
Il primo, Lucio Quinzio Flaminino, fu accusato di aver fatto giustiziare senza motivo un nobile della popolazione dei Boi, quando era proconsole della Gallia Cisalpina. Le fonti non concordano, semmai, su chi lo abbia “convinto” a far giustiziare l’uomo: se una donna (come sostiene l’annalista Valerio Anziate), che per capriccio glielo aveva chiesto mentre stava banchettando col proconsole, o un amasio cartaginese, di nome Filippo, come attesta Tito Livio. Certo è, invece, che i Flaminini erano legati agli Scipioni, famiglia notoriamente avversa ai catoniani.
Il motivo dell’altra sanzione, comminata a Manilio (o Manlio) ce lo rivela Plutarco: pare che Manlio avesse baciato la moglie davanti alla figlia, che, vivendo ancora a casa, doveva essere ancora piccola e ingenua. Parliamo di un basium, non di un suavium (bacio erotico e sensuale), ma lo stesso il senatore fu reputato indegno per la circostanza della presenza della figlia e forse perché il bacio era stato accompagnato da un abbraccio eccessivamente impetuoso.
E questo, se fosse vero, sarebbe stato già meno perdonabile, tanto più per la mentalità romana.
I Baccanali furono ufficialmente abrogati, ma in realtà sopravvissero fuori da Roma, soprattutto nell’Italia meridionale dove si erano già profondamente radicati e dove continuarono ad essere praticati in segreto.