Quasi 200 opere della Collezione Ligabue esposte per la prima volta – tra cui tavolette e straordinari sigilli risalenti a oltre 5000 anni or sono – rievocano la grande civiltà dell’Antica Mesopotamia, un territorio oggi inaccessibile.
In mostra, tra reperti e apparati multimediali, anche testimonianze delle esplorazioni di Paul Emile Botta e Austen Henry Layard nel XIX secolo, con prestiti dai musei archeologici di Venezia e Torino.
Scripta manent ammonivano gli antichi romani a conferma dell’autorevolezza e del valore nel tempo di un testo scritto, Maktub “è scritto”, dicono gli arabi.
La nascita della scrittura, avvenuta quasi contemporaneamente in Egitto e in Mesopotamia verso il 3200 a.C, segna uno dei capitoli più affascinanti e rivoluzionari della storia della civiltà, fondamentale per le dinamiche di trasmissione del sapere e per la conoscenza dell’antichità.
La mostra che si tiene a Palazzo Loredan a Venezia, dal 20 gennaio al 25 aprile 2017 in una delle sedi dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti – promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue presieduta da Inti Ligabue, patrocinata dalla Regione del Veneto e dalla Città di Venezia, main sponsor Ligabue SpA e Hausbrandt, con il contributo di DM Informatica, La Giara e Scattolon Renato, curata dal professore Frederick Mario Fales (Università degli Studi di Udine), uno tra i più noti assirologi e studiosi del Vicino Oriente Antico – ci conduce quasi 6000 anni or sono, nella Terra dei Due Fiumi, in un universo di segni, simboli, incisioni ma anche di immagini e racconti visivi che testimoniano la nascita e la diffusione travolgente della scrittura cuneiforme, rivelandoci nel contempo l’ambiente sociale, economico e religioso dell’Antica Mesopotamia. Bisogna ricordare che il cuneiforme è durato 3500 anni, mentre i segni alfabetici che si usano anche in questo comunicato, in fondo, ne hanno solo 2500.
Culla di civiltà straordinarie, oggi martoriata e saccheggiata dalla guerra e dal terrorismo che hanno reso inaccessibile il suo patrimonio di bellezza e conoscenza, la terra di Sumeri, Accadi, Assiri e Babilonesi ci viene raccontata e svelata grazie all’esposizione, per la prima volta al pubblico, di quasi 200 preziose opere della Collezione Ligabue. Si tratta soprattutto di tavolette cuneiformi e di numerosi sigilli cilindrici o a stampo, ma anche sculture, placchette, armi, bassorilievi, vasi e intarsi provenienti da quell’antico mondo.
A questi oggetti si affiancano importanti prestiti del Museo archeologico di Venezia e del Museo archeologico di Torino: dal primo, bellissimi frammenti di bassorilievi rinvenuti dallo scopritore della mitica Ninive, Austen Henry Layard, che nell’ultimo periodo della sua vita si era ritirato proprio a Venezia, a Palazzo Cappello Layard (donò i suoi oggetti alla città nel 1875); dal secondo un frammento di bassorilievo assiro fortemente iconico raffigurante il re Sargon II, scoperto nel 1842 da Paul Emile Botta – console di Francia a Mosul – e da lui donato al re Carlo Alberto.
Una collezione di altri tempi, come ama sottolineare F. Mario Fales, quella messa insieme da Giancarlo Ligabue, imprenditore ma anche archeologo, paleontologo e grande esploratore scomparso nel gennaio 2015. Collezione straordinaria non solo per entità, qualità e per l’importanza storica di questi e altri materiali, ma in quanto testimonianza di un collezionismo slow, rispettoso dei luoghi che pure Giancarlo studiava e delle istituzioni, della ricerca e del sapere; un collezionismo appassionato, diretto a preservare la memoria e non a defraudare le culture con altri fini.
CUNEIFORME: LA SCRITTURA DIFFUSA PER 3500 ANNI E INDECIFRABILE PER 17 SECOLI, SEGNO DELLA GRANDE CULTURA DELLA MESOPOTAMIA ANTICA
Dai primi pittogrammi del cosiddetto proto-cuneiforme, rinvenuti a Uruk – annotazioni a sostegno di un sistema amministrativo e contabile già strutturato – all’introduzione della fonetizzazione (dai “segni-parola” ai “segni-sillaba”) la scrittura cuneiforme, con le sue evoluzioni, si sviluppò e si diffuse con estrema rapidità anche in aree lontane: dalla città di Mari sul medio Eufrate a Ebla nella Siria occidentale, a Tell Beydar e Tell Brak nella steppa siro-mesopotamica settentrionale.
Abili scribi verranno formati per redigere documenti grazie a segni ormai classificati e vere e proprie scuole saranno istituite nei diversi centri, per insegnare a nuovi funzionari a leggere e scrivere.
Centinaia di migliaia di tavolette di argilla – la materia prima della terra mesopotamica – hanno dato vita ad autentici archivi e biblioteche, in un mondo che aveva compreso il valore e il potere della scrittura: tavolette con funzioni contabili-amministrative, tavolette giuridiche, storiografiche, religiose e celebrative, o addirittura letterarie, racchiudono le storie, i lavori, i pensieri e i ritratti di uomini e re vissuti tremila anni prima di Cristo; miti e leggende di dei ed eroi.
Il loro ritrovamento, e soprattutto la comprensione di quegli affascinanti segni ci hanno aperto gli occhi sul passato.
Ma non è stata una conquista facile.
Poco prima del 100 d.C. il babilonese – il dialetto accadico più longevo – sparisce definitivamente soppiantato dall’aramaico e dal greco e con esso se ne va la conoscenza del cuneiforme.
Bisognerà attendere diciassette secoli, fino alla metà dell’Ottocento, per riconquistare la coscienza di quanto scritto sulle tavolette della Mesopotamia antica.
Fino ad allora – fino alle decifrazioni di Grotefend (1775 – 1853) e all’impresa di Rawlinson (1810 – 1895), che sospeso a 70 metri dal suolo copiò l’iscrizione trilingue di Dario I sulla parete rocciosa di Bisutun – furono soprattutto la Bibbia, debitrice di tanti racconti e suggestioni dell’antica Mesopotamia, e gli storici greci, latini e bizantini a tramandare in una luce più o meno leggendaria i nomi di luoghi come “il Giardino dell’Eden” o le maestose città di Ninive e Babele e quelli di personaggi come Nabucodonosor II, che distrusse Gerusalemme, o la regina Semiramide.
In mostra – alla quale hanno contribuito per i testi del catalogo edito da Giunti anche Roswitha Del Fabbro, Stefano de Martino, Paolo Matthiae, Piergiorgio Odifreddi e David I. Owen, con il coordinamento editoriale di Adriano Favaro – le preziose tavolette raccontano di commerci di legname o di animali (pecore, capre, montoni o buoi), di coltivazioni di datteri e di orzo per la birra, di traffici carovanieri tra Assur e l’Anatolia, di acquisti di terreni e di case con i relativi contratti e le cause giuridiche; celebrano Gudea signore possente, principe di Lagash, promotore di grandi imprese urbanistiche e architettoniche; prescrivono le cure per una partoriente afflitta da coliche, con incluso l’incantesimo da recitare al momento del parto, o testimoniano l’adozione di un bimbo ittita da parte di una coppia o, ancora, le missive tra prefetti di diverse città-stato.
Accanto alle tavolette, placchette e intarsi, in osso, in conchiglia, in oro o in avorio, bassorilievi e piccole figure, raffinati oggetti artistici e d’uso comune, ma soprattutto – straordinari per le figurazioni e le narrazioni, per il pregio artistico delle incisioni realizzate da abili sfragisti (bur-gul) e i diversi materiali usati – tanti, importanti sigilli.
SIGILLI: UN UNICUM DI INESTIMABILE VALORE STORICO-ARTISTICO
E I RACCONTI DI UOMINI, DIVINTA’ E SOVRANI
Creati per registrare diritti di proprietà e apposti fin dal periodo Neolitico sulle cerule – sorta di ceralacca a garanzia della chiusura di merci e stoccaggi – i sigilli, con l’avvento della scrittura, vengono apposti sulle tavolette o sulle buste di argilla (utilizzate fino al I millennio) per autenticare il documento, garantendo la proprietà di un individuo, il suo coinvolgimento in una transazione, la legalità della stessa. Come spiegato dall’archeologa Roswitha Del Fabbro nel catalogo, essi prima indicavano l’amministrazione, come oggi il timbro di un Comune, e col tempo vennero a rappresentare il singolo individuo, riportandone il nome, giungendo magari a presentare l’iscrizione di una preghiera.
Ma il valore intrinseco dei sigilli cilindrici, già sostitutivi di quelli a stampo intorno alla metà del IV millennio, è dato dal fatto che essi erano generalmente realizzati in pietre semipreziose provenienti da luoghi molto lontani: i lapislazzuli – importati dal lontano Badakhshan, nell’odierno Afghanistan nord orientale, celebre per le miniere descritte anche da Marco Polo – l’ematite, la cornalina, il calcedonio; ma anche agata, serpentino, diaspro rosso o verde, avorio, cristallo di rocca. Per questo i sigilli furono spesso riutilizzati, diffondendosi anche come amuleti con valore apotropaico, ornamenti, oggetti votivi: veri status symbol talvolta indossati dai proprietari con una catenina o montati su spilloni.
Nei sigilli cilindrici, in pochi centimetri, accanto alle iscrizioni venivano realizzati motivi iconografici sempre più raffinati, differenziati per periodi e aree geografiche. Già l’idea di adattare un disegno a una superficie curva, in modo da ripeterlo ad libitum, era rivoluzionaria. Sfilate di prigionieri davanti al re, scene di lotta tra eroi e animali, processioni verso il tempio, raffigurazioni di guerra e di vita quotidiana, donne-artigiane accovacciate, grandi banchetti, racconti mitologici: l’evoluzione stilistica, la raffinatezza delle incisioni diventano nel tempo sempre più evidenti.
In epoca accadica gli intagliatori di sigilli prestano attenzione alla resa naturalistica del corpo umano e di quello animale, curano la narrazione, la simmetria, l’equilibrio, la drammatizzazione. Si individuano e si susseguono nel tempo stili e tecniche anche con l’introduzione del trapano e della ruota tagliente, a scapito della manualità.
I sigilli rappresentano insomma un unicum artistico, prima delle gemme greche e romane.
IN UNA BIBLIOTECA ANTICA DI VENEZIA, REPERTI E APPARTI MULTIMEDIALI PER UN TUFFO NELLA STORIA DELL’ORIENTE
La glittica per altro – una delle produzioni più caratteristiche delle culture del Vicino Oriente antico – presenta una serie di immagini e raffigurazioni che non troviamo in altre forme artistiche, costituendo anche una fonte d’informazione unica, di stili e costumi.
Esposti negli ambienti particolarmente suggestivi dell’antica biblioteca dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ad Arti – perfetto scenario di questa mostra – troveremo, della Collezione Ligabue, sigilli inestimabili per valore storico e artistico, raffiguranti uomini, eroi e animali, ma anche divinità come il dio solare Samash, quello della tempesta Adad, il dio delle acque dolci Ea, oppure Enlil che assegnava la regalità, massima autorità del pantheon mesopotamico, definito dio del cielo e degli inferi e soppiantato con l’affermarsi della dinastia babilonese da Marduk; ma anche la complessa Inanna (in sumerico) Isthar (in semitico), “costantemente a cavallo della barriera tra donna e uomo, adulto e bambino, tra bene e male, tra vergine e prostituta”: dea della fertilità, dell’amore e della guerra ad un tempo.
Quindi scene mitologiche – il mito di Etana, tredicesimo re della prima dinastia di Kish alla ricerca della “pianta della nascita”, trasportato in cielo da un’aquila – o singolari, come la raffigurazione (in un sigillo del periodo protodinastico III, in lapislazzuli) di personaggi seduti che bevono la birra da un giara, con lunghe cannucce.
Attraverso una didattica attenta, apparati multimediali innovativi e interattivi di notevole suggestione e riproduzioni tattili, il pubblico potrà godere della bellezza di questi oggetti e leggere e comprendere le storie ivi narrate, riscoprendo i simboli e i miti di una civiltà sulla quale si è fondata la cultura occidentale e di cui siamo debitori e che pure oggi appare così lontana e inaccessibile.