La bambola, per una bambina, è un’amica fedele che l’accompagna durante la crescita. La pettina, la veste, la tratta come una vera e propria figlia o come amica del cuore dalla quale non si separa mai. Non dovremmo allora sorprenderci se, anche le bambine di duemila anni fa, consideravano le bambole come il gioco più prezioso e caro. È nelle tombe infatti che si trovano la maggior parte di queste bambole e diventano compagne fedeli anche nell’ultimo viaggio dalla vita alla morte.
Era consentito portarle con sé nella tomba o conservarle, solo se si era ancora nubili; le future spose, alla vigilia delle nozze, dovevano separarsi dai loro giochi e, dovendo iniziare un nuovo percorso che le avrebbe fatte diventare spose e madri, le offrivano agli dei. Le donne romane inizialmente le offrivano ai Lari, gli dei protettori della famiglia, sull’altare nel quale ardeva il fuoco sacro. Poi, fu concesso offrire i propri giochi alla dea che si preferiva, così come avevano fatto da sempre le fanciulle greche. Verso la fine della repubblica quindi, si cominciò a seguire l’uso greco, con la differenza che in Grecia, oltre a portare i giochi alla divinità scelta, era uso murare un’epigrafe incisa con la preghiera che la fanciulla offriva alla dea. A Roma la cerimonia era la stessa ma non si usava dedicare epigrafi. Abbiamo precedentemente parlato della vestale Cossinia (https://mediterraneoantico.it/articoli/archeologia-classica/la-bambola-della-vestale-cossinia/) che non morì adolescente, ma che, rimasta nubile, fu sepolta con la sua bambola e adesso vi raccontiamo di Crepereia, figlia di Crepereio, morta giovane alla vigilia delle sue nozze, e della sua cara bambola.
La bambola di Crepereia era bellissima, di lusso, così come molte bambole fabbricate durante il periodo imperiale. La proprietaria era una fanciulla vissuta intorno alla metà del II secolo d.C. e la sua tomba fu una sensazionale scoperta. Era il 1889 e si stavano effettuando i lavori di costruzione del Palazzo di Giustizia a Roma quando, scavando, emerse dal terreno impregnato dell’acqua del Tevere la tomba di Crepereia Tryphaena.
La sepoltura consisteva in un sarcofago di marmo, semplice ed elegante, con la superficie ornata di strigilature ondulate che rappresentavano le acque del fiume infernale che le anime dovevano attraversare per raggiungere l’oltretomba. L’apparenza quindi non faceva presagire nulla di particolarmente eccezionale, ma rientrava nell’ordinario. Quando si sollevò il coperchio, la scoperta divenne una leggenda archeologica. Quello che gli operai videro fu un corpo immerso nell’acqua che riempiva il sarcofago, alla cui testa vi erano ancora attaccati capelli nero corvino. La notizia si sparse immediatamente; non aveva assolutamente nulla di ordinario ma rappresentava un ritrovamento assolutamente eccezionale da suscitare storie fantastiche sulla misteriosa morte della fanciulla e del suo ritorno dal passato. Soltanto in un secondo momento ci si accorse che quelli ritrovati non erano capelli ma alghe, tuttavia, il ritrovamento della giovane e della sua bambola divennero e ancora oggi sono una figura romantica dell’archeologia.
La pupa di Crepereia ha un colore scuro che, inizialmente, fece ipotizzare ad una realizzazione in legno di quercia o in ebano. Successive analisi di laboratorio, verificarono che si trattava di avorio indurito e scurito dalla lunga permanenza in acqua. Ai suoi tempi è possibile che la bambola avesse un delizioso incarnato eburneo con i capelli riccamente acconciati in una pettinatura che era di moda ai tempi di Marco Aurelio e Faustina Minore, forse anche colorati secondo quel colore biondo che tanto amavano le donne romane. Sicuramente era dotata anche di un ricco guardaroba che purtroppo non ci è pervenuto ma, osservando il suo corpo nudo e liscio, capiamo perfettamente il lavoro di fino dell’artigiano che aveva realizzato una bambola perfettamente snodabile. Ci sono arrivati però i suoi gioielli; miniaturistici ma tutti realizzati in oro!
Quando la bambola fu messa nella tomba, aveva ancora al pollice della mano destra un anellino con una minuscola chiave che, forse, apriva il piccolo scrigno dove erano custoditi gli altri gioielli. Sappiamo, dai fori presenti ai lobi ,che questa doveva portare degli orecchini con perline, cadute dentro al sarcofago e anellini di pasta vitrea e oro. Probabilmente doveva avere anche dei braccialetti tenuti assieme da un piccolo cerchietto in oro che funzionava da fermaglio. Il cofanetto nel quale dovevano essere riposti i ricchi e piccoli gioielli era in legno ricoperto da lastrine di avorio, alcune tinte in verde che, al tempo, doveva essere ricoperto di stoffa o pelle. Oltre ai preziosi, il cofanetto conteneva il necessario per la sua toilette: due pettinini in avorio con una spina centrale e denti da entrambe le parti e due piccoli specchi in argento.
Tra i gioielli di Tryphaena fu ritrovato, al dito della giovanetta, un anello con incisa la parola “Filetus” che fece immaginare a Giovanni Pascoli il nome del suo promesso sposo mancato perché sappiamo che la giovane morì prematuramente. Per l’occasione, il poeta compose una poesia in latino che donò in occasione delle nozze della figlia dell’onorevole Benzoni, suo amico e protettore nonché allora ministro della pubblica istruzione:
Crepereia Tryphaena
Taciturne le cornacchie nei boschi neri
intorno erano fuggite, lo stormo di corvi,
memori della città Quadrata, ritornavano
alle rocce del Palatino,
quando il suolo etrusco nel decimo giorno
di maggio al sole ti restituì, Crepereia:
al dito dopo innumerevoli secoli indossavi
la gemma del fidanzamento.
Vergine sotto l’acqua di cristallo
ti celavi, e a fior d’acqua la chioma
ondeggiava di capelvenere. O forse avevi dato
i tuoi capelli da spargere alla buia notte?
Ma per quali lacrime antiche s’inumidiscono ora,
mentre ti vedo, gli occhi esausti?
Qual affanno mi stringe il cuore, qual dolore?
Il dolore è lo stesso, ma in un altro cuore.
Vidi coi miei occhi, ricordo, la corona di mirto
e l’oro fulgente dei capelli annodati
e le mani giunte e nella destra
le tenui spighe di farro.
Riconosco l’ametista che dopo tanti anni
torna a mostrare le ali del grifone impetuoso
e la cerva, riconosco la bambola, invano
a Venere promessa.
Domani, nelle tenebre sacre ai Lemuri,
di notte, quando taceranno gli uccelli variopinti
e i cani, a piedi nudi nell’ora buia
del sonno verrò
e porterò le fave nere, le getterò dietro le spalle
nell’ombra notturna e per nove volte dirò:
“Con queste fave, o Mani di Trifena, riscatto
me e i miei.”
E mentre tengo la faccia rivolta e tu mi segui
e tocchi, ombra lieve, i doni con mano esangue,
non farò tinnire la voce argentina, anch’io voglio
morire
e mi volterò a guardarti.
Ecco, sei qui: pallida come un giorno sul tuo letto
d’avorio ed io, ahimè, piangevo.
Stavi così, sparsa le chiome lucenti
sul collo reclinato.
Grave soffio di tibie di lontano ora
mi romba nelle orecchie dimentiche e piango.
Quanta angoscia in questa nenia funebre, quanta eco
di mestizia in questo lagno di prefiche!
Va il corteo funebre lungo la riva solatia,
va il triste mormorio dell’etrusco Tevere
tra le siepi di biancospino
fiorite di corimbi.
Te nel fiore di giovinezza, non Vespero infuocato
tolse ritrosa alle braccia materne,
né i fanciulli, levando alte le fiaccole,
ti cantarono in coro « O Hymenaeo ».
Versate ciotole di latte al suolo, secondo il rito,
posai in pace la tua anima nel muto sepolcro
e pronunciai disperato le ultime parole:
“Addio, Trifena, addio”.
Vespero già soffia l’oro della sua luce diffusa
sulle colonne di marmo pario della mole Adriana.
Attraversano il Pincio in volo i corvi
in esule schiera:
quando a poco a poco mi sento rapire e dileguare
immemore nel vuoto di un cuore ormai silente
e già la voce di tua madre invano mi richiama
Forse come dono ad una sposa era un tantino jettatorio