Da tempo l’archeologia classica, assieme ad altre discipline, (si) è sottoposta a una decostruzione critica delle sue categorie concettuali. Operazioni di drastico privilegiamento dell’antichità classica, come quelle compiute da Adolf Furtwängler e Ernst Fiechter con l’Amyklaion di Sparta nel 1907, da Pirro Marconi a Himera nel 1929 con il tempio della Vittoria o da Pellegrino Claudio Sestieri proprio a Paestum nel 1952 con il tempio di Athena, quando costruzioni di età posteriore vennero smantellate per liberare la vista di un tempio greco o consentirne lo scavo, implicano costrutti decisionali che oramai sono stati a loro volta “smantellati” dalla ragione critica. Eppure per l’archeologia classica e per tutti quelli che (come chi scrive) lavorano in un sito archeologico di epoca greco-romana o hanno interesse per il mondo antico, il rinvenimento di un nuovo tempio rimane ancora il paradigma dell’emozione archeologica. Ne è una dimostrazione il fervore con cui sono stati accolti i risultati dello scavo archeologico, in corso, del “tempietto” dorico riemerso dai terreni di proprietà non demaniale che occupano il settore occidentale della città antica di Paestum.
L’edificio si era annunciato nel giugno 2019, sotto la direzione di Gabriel Zuchtriegel, quando nel corso di alcuni lavori di risistemazione erano stati ritrovati elementi architettonici (capitelli, parti del fregio, pannelli con rosette) attribuibili a un edificio di ordine dorico databile, per ragioni stilistico-formali, al periodo tardo-arcaico.
Molto suggestiva l’area del ritrovamento: proprio a ridosso della cortina interna del tratto occidentale della celebre cinta muraria di Paestum, in un punto in cui la città di fondazione achea si apre al suo elemento originario, il mare. Da lì, volgendosi verso est, lo sguardo incontra, lievemente a nord, la fronte occidentale del tempio di Athena per poi arrestarsi contro la retrostante fascia montuosa che da quel lato chiude la piana in cui attorno al 600 a.C. venne fondata la città.
Le geoprospezioni eseguite nel novembre di quell’anno avevano confermato, senza scalfire nemmeno il terreno, la presenza di una struttura interrata di pianta rettangolare. Anche la sua disposizione lungo l’asse est-ovest costituiva una possibile indicazione in tal senso, vista la predilezione dei templi greci per un orientamento verso la regione orientale del cielo. Lo scavo stratigrafico cominciato nell’agosto del 2022 con la direzione di Tiziana D’Angelo ha dimostrato la validità delle prime ipotesi, con un crescendo di scoperte che ha ricomposto parti essenziali del mosaico dell’identità del tempio e del suo spazio sacro, il temenos.
È così emerso l’inconfondibile rettangolo di un piccolo tempio periptero (cioè con la cella circondata da un “giro” di colonne), la forma per antonomasia con cui i greci adibivano le case per gli dèi, fronteggiato a ca. 9 metri di distanza dall’altare sacrificale. A corredo, una grande quantità di elementi: centinaia di frammenti architettonici, tra cui parti delle gronde a testa di leone allineate sui lati lunghi dei templi greci, e tantissimi materiali fittili votivi;
tra questi, numerose piccole sculture con un erote cavalcante un delfino, simili a quelle già ritrovate da Sestieri negli scavi dei primi anni ’50 e da lui attribuite alla stipe votiva di un ipotetico tempio di Afrodite situato, a detta dell’archeologo, <<a nord>> del tempio di Athena. Tutto lascia pensare che la costruzione del tempietto sia avvenuta all’inizio del V sec. a.C., quando il tempio di Hera (la c.d. Basilica) e il tempio di Athena svettavano già alle due estremità dell’agorà e il basamento in pietra grigia, costruito nel santuario meridionale per un tempio mai realizzato, attendeva l’edificazione della struttura 6×14 che sarebbe stata conosciuta come tempio di Nettuno.
Lo spazio sacro con il tempio di ordine dorico e i suoi fedeli leoni policromi, l’altare per i sacrifici al dio e le fosse votive ricolme dei segni della eusébeia, il sentimento di riverenza verso la divinità: ci pensiamo poco o per niente, perché sembra talmente scontato da non meritare riflessioni, ma l’archeologia con questa nuova scoperta non fa che confermare una grande verità storica: i greci vennero nella piana del Sele e, ritagliandosi uno spazio nel mondo etrusco-italico, vi impressero lo stile inconfondibile della loro cultura. Poi, inoltratosi nella fase romana della città, il tempietto terminò la sua storia, a quanto pare attorno al I sec. a.C.
Invece la disposizione del colonnato del tempietto è priva di un precedente noto nella serie empirica dei templi greci peripteri: 4 colonne sulla fronte, 7 sul lato lungo. 4×7: una soluzione anomala per il pensiero architettonico dei greci, applicata solo in alcuni edifici sacri non peripteri di epoca ellenistica (p.e. il tempio di Afrodite ad Epidauro, di ordine ionico), e che per questo aspetto sembra accostare il tempietto di Paestum agli edifici templari peripteri 4×6 o 4×8 tipici della tradizione etrusco-italica o “campana”, scaturita dal contatto tra la cultura architettonica greca diffusasi in Campania con la fondazione delle colonie e quella degli italici. Questi templi ibridi sono “greci” per la forma periptera; ne è un esempio anche il c.d. tempio dorico nel foro triangolare di Pompei (ricostruito come 7 o 6×11, ma forse derivato da un antecedente 4×6). Sono però in genere caratterizzati da rettangoli poco allungati, ben al di sotto del rapporto 1:2 tra larghezza e lunghezza prediletto dall’architettura dei greci. Dall’immagine dall’alto del tempietto 4×7 di Paestum è facile evincere che anche il suo rettangolo è scarsamente allungato, con un rapporto proporzionale di circa 1:1.5 o forse meno, analogo, o addirittura inferiore, a quello realizzato da diversi esemplari della famiglia dei templi etrusco-italici. Il dimensionamento del tempietto fornirà forse indizi per indagare il retroterra culturale della sua costruzione.
In verità, a volerci scherzare sopra, un tempio “greco” periptero in “stile classico” 4×7 esiste: il monumento (“Penshaw monument”) eretto nel 1845 in cima alla collina di Penshaw nei pressi di Sunderland (UK) in onore del lord britannico John George Lambton deceduto qualche anno prima. Il modello per questo edificio tardo-neoclassico fu il tempio di Efesto (6×13) nell’agora di Atene, ma nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto essere proprio il tempio di Nettuno (6×14). Da un tempio greco 6×13 i moderni hanno derivato, riproducendone in scala ridotta il colonnato “dispari” del fianco, un edificio periptero 4×7. È possibile che, all’inverso, il tempietto dorico 4×7 (distante ca. 9 m dal suo altare), costruito in un’area periferica della città, fu l’antecedente metrologico di una grande struttura 6×14 dorica da innalzare nel cuore della polis, quella del tempio di Nettuno (distante tre volte di più, ca. 27 m, dal suo altare), utilizzando un basamento preesistente? Ma in che rapporto starebbe questa ipotesi con il fatto che la cultura architettonica attiva a Poseidonia aveva già esplorato i grandi rettangoli, producendo strutture templari rispettivamente 9×18 (la c.d. Basilica) e 6×13 (il tempio di Athena), realizzate però nello stile “dorico-acheo” ricco di elementi decorativi? Si trattò di una cultura esauritasi con l’abbandono del disegno arcaico (forse 8×19) per cui era stato costruito il basamento in pietra grigia su cui poi sarebbe stato innalzato l’elevato del tempio di Nettuno?
Il disvelamento del tempietto dorico di Poseidonia produce interrogativi la risposta ai quali spetta solamente agli esperti. Forse le indagini metrologiche e le esplorazioni archeologiche chiariranno se questo piccolo edificio sacro 4×7 eretto lungo il limite occidentale della colonia achea è inseribile nel quadro dello sviluppo della sua capacità architettonica; oppure se il progetto costituisce una ramificazione dell’“albero genealogico” dei templi di Poseidonia, forse dovuta alla peculiarità della committenza e del contesto sociale. E, ovviamente, i materiali votivi potrebbero fornire argomenti per stabilire l’identità del dio titolare del culto.
Tutto questo appartiene alla logica dell’accrescimento della conoscenza scientifica del passato. Tanto più tale conoscenza si accresce quanto più permette di accorciare la distanza tra noi e il passato. Tuttavia può accadere che questo punto di vista non prenda il sopravvento quando nuovi “reperti” del mondo antico vengono scoperti. Ciò che allora emerge è il silenzio, incolmabile, del mondo cui l’opera disvelata era appartenuta e non potrà essere restituita. Così la distanza si dilata grazie all’archeologia. E proprio per questo entriamo in contatto col passato.
BIBLIOGRAFIA
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