Un lupo mannaro a…Taranto

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Poche sono le invenzioni del mondo moderno non presenti sotto forma di archetipi già nel mondo antico, dalla civiltà mesopotamica in poi.

Una di queste è la figura del licantropo o lupo mannaro (in latino “versipellis”). Ce ne danno testimonianza due autori della letteratura latina del I secolo d.C.: Petronio nel suo romanzo “Satyricon”, e Plinio il Vecchio nella sua opera monumentale “Naturalis historia”.

Il primo, figura di intellettuale raffinato, operò verosimilmente nella Roma neroniana, ed è identificabile, secondo molti, con il “Petronius arbiter” descritto con abbondanza di dettagli da Tacito nei suoi “Annales” e che pagò le sue scelte libertarie e anticonformiste con il suicidio, sia pure, da vero artista qual era, “riscritto” secondo modalità anti-stoiche. All’interno del romanzo “Satyricon”, a lui attribuibile, la “cena Trimalchionis” occupa un posto importante: non solo come descrizione di una cena che è agli antipodi del simposio, ma anche come occasione per inserti narrativi (racconti a incastro) e, in non ultima analisi, come realizzazione di uno spaccato del coevo contesto storico-culturale, osservato con l’occhio distaccato e superiore di un intellettuale avvezzo a non esprimere giudizi morali forse perché verosimilmente amorale.

Così anche l’inserto narrativo sul licantropo assume le caratteristiche della satira, genere a cui è improntata del resto tutta l’opera, che risulta prosimetrica secondo il modello della satira menippea inventata da Menippo di Gadara nel III secolo a.C., in seguito introdotta a Roma nel I secolo da Varrone Reatino e sviluppata ulteriormente in quel capolavoro che è l’ “Apokolokyntosis” di Seneca. L’abbandono agli istinti animali, pertanto, non è soltanto espressione di libertà narrativa ma anche, verosimilmente, rappresentazione della ferinità che imperava alla corte neroniana, luogo che Petronio conosceva assai bene e che Seneca descrive nelle sue “cothurnatae”.

E’ il liberto Nicerote ad essere sollecitato da Trimalcione, il padrone di casa, a raccontare una storia. Ed è quello che farà, dopo aver premesso che la storia si svolge a Taranto, luogo dove aveva una relazione con Melissa, la moglie di un oste. E qui non possiamo esimerci da due rimandi: il primo ad una considerazione dettata dal realismo e cioè che all’epoca le osterie erano sinonimi di bordello e le ostesse di meretrici; il secondo ad un’evidente allusione alla “Tarentilla”, commedia del poeta arcaico Gneo Nevio, incentrata su una figura di ragazza civettuola e seduttiva, ed inevitabilmente ambientata a Taranto, porto di mare affollato, come ogni porto di mare che si rispetti, da un’ umanità varia ed eventuale.

Come al gioco della palla, si porge dandosi a vicenda e si concede a tutti: a uno fa cenni, a un altro ammicca; fa l’amore con uno, tiene stretto un altro; ha la mano occupata con uno, un altro la stuzzica con il piede; a uno fa ammirare l’anello, a un altro parla col movimento delle labbra; mentre canta a uno, a un altro traccia lettere col dito. (“Tarentilla”, fr. 63)

Gneo Nevio

 

Ma il Sud nell’ immaginario collettivo antico non è solo luogo dell’ eros, ma anche della magia e della possessione demoniaca, talora disgiunti, talora legati, come si evince dalle tante leggende che vi fioriscono.

Ma ecco il racconto petroniano (62, 1-14):

[62,1] Il caso volle che il mio padrone fosse andato a Capua per smerciarvi il meglio delle sue cianfrusaglie. [2] Colgo al volo l’occasione e convinco un nostro ospite ad accompagnarmi fino al quinto miglio. Si trattava di un soldato, forte come un demonio. [3] Leviamo le chiappe verso il canto del gallo; c’era una luna che sembrava mezzogiorno. [4] Arriviamo in mezzo a un cimitero: il mio uomo si mette a farla tra le tombe, io mi siedo canticchiando e mi metto a contare le lapidi. [5] Poi mi volto verso il mio compare e vedo che quello è lì che si sveste e depone tutti gli abiti sul ciglio della strada. Mi sentivo il cuore in gola; stavo immobile come fossi morto. [6] Quello allora si mise a pisciare tutto intorno ai vestiti e di colpo si trasformò in lupo. Non pensate che stia scherzando; non mentirei per tutto l’oro del mondo.

L’inizio del racconto s’incentra su due occasioni favorevoli che consentono l’escursione notturna di Nicerote, ma non cela un tratto di inquietudine. Causa di quest’ escursione è la morte del marito di Melissa e la contemporanea partenza del suo padrone – Nicerote all’epoca del racconto era ancora schiavo – per Capua, finalizzata a “smerciare il meglio delle sue cianfrusaglie”.

Appare evidente che Nicerote ha paura di viaggiare da solo. Il viaggio era occasione per incontri, spesso pericolosi per la vita. Scopriremo nel prosieguo del racconto che ha portato con sé una spada, un gladius, evidentemente per proteggersi da eventuali aggressioni.  E non a caso i protagonisti del “Satyricon”, la coppia omosessuale costituita da Encolpio e Gitone, attraversa i bassifondi del Sud Italia in una sorta di viaggio che ha tutte le caratteristiche della descensus ad inferos. E’ per questo che il protagonista si accompagna ad un soldato forte e robusto, scelto da lui sebbene sconosciuto: porta, infatti, un’uniforme, fatto che di per sé dovrebbe essere garanzia di raccomandabilità.

E’ notte fonda, quel momento della notte che precede il canto del gallo, la luna piena splende in cielo e i due arrivano in un cimitero, luogo inevitabilmente deputato al macabro e all’orrido. L’amico di Nicerote approfitta del riparo offerto dalle lapidi per urinare, mentre Nicerote guarda altrove, forse verso le lapidi (stelas), dunque in basso, o forse verso le stelle (stellas), che conterà in entrambi i casi, cercando di ammazzare il tempo canticchiando (cantabundus). Poi il soldato si spoglia e continua ad urinare sui vestiti che ha deposto sul ciglio della strada, trasformandosi in lupo sotto gli occhi inorriditi e increduli del suo compagno di viaggio. Le vesti intrise di urina costituiscono una sorta di cerchio magico che non potrà essere oltrepassato, pena l’impossibilità a ritornare allo stato umano.

Significativi appaiono già alcuni elementi, che ricorrono non a caso anche nel racconto pliniano contenuto nella “Naturalis historia”: la nudità dell’uomo-lupo, la vicinanza dell’acqua (nella narrazione petroniana si tratta di urina, in quella pliniana è uno stagno), il carattere reversibile della trasformazione.

Ecco il racconto pliniano (N.H., VIII, 81):

Evante, non ignorato fra gli autori della Grecia, scrive che gli Arcadi tramandano che dalla stirpe di un certo Anto uno scelto a sorte dalla famiglia è condotto ad un certo stagno della sua regione e appeso l’abito a una quercia lo oltrepassa a nuoto, va nei luoghi deserti e  si trasforma in lupo e si unisce con altri di tal genere per nove anni. In questo periodo, se si sarà astenuto dal mangiare carni umane, torna al medesimo stagno e, dopo che avrà nuotato, riprende l’aspetto avuto rispetto al primitivo con l’età aggiunta di nove anni. Si aggiunge anche questo, che riprende lo stesso abito.

Plinio il Vecchio

Il nome “versipellis” deriva da “verso” (rivolto) e “pellis” (pelle) per cui il lupo mannaro o licantropo è colui che “sa voltare pelle”, che nasconde sotto pelle il pelo animalesco, manifestando all’ esterno connotati solo apparentemente umani. Un timore presente nel mondo antico- ma non soltanto antico, in realtà- riferito a chi ostenta normalità mentre in realtà è un demone trasvestito, in attesa dell’occasione per spogliarsi dei panni umani (ecco spiegato perché il soldato si spogli) e trasformarsi in animale. Nel mondo antico la licantropia poteva essere conseguenza di un atto volontario o involontario: nel primo caso la trasformazione in animale era possibile con pratiche magiche (un esempio famoso è “L’asino d’oro” di Apuleio), nel secondo era effetto di una punizione divina, comminata per atti odiosi ed empi. Un esempio di quest’ ultimo è il famoso mito di Licaone, che, secondo il racconto ovidiano (“Metamorfosi”, I, 163-241), fu punito da Zeus per la sua empietà con la trasformazione in un lupo condannato a cibarsi di carne umana.

 Anche la scelta dell’acqua rimanda alla metamorfosi, così come la deposizione degli abiti sul ciglio della strada, una posizione liminale che sembra avere a che fare con la trasformazione incipiente. Inoltre il licantropo, nella narrazione petroniana, assume la veste di un soldato, figura che dovrebbe incutere fiducia in chi vi si accompagna e proteggerlo dalle insidie- specie se notturne- e che indossa una divisa, una uniforme che rimanda anch’essa all’idea di travestimento e quindi di stato metamorfico. Togliersi le vesti, dunque, potrebbe essere interpretato come l’atto di colui che si spoglia degli “abiti” razionali per abbandonarsi al ferino e all’animalesco che è dentro di lui (cioè di noi), pronto a balzarne fuori. Anche urinare in un luogo pubblico e per di più in un cimitero, luogo che dovrebbe incutere rispetto e deferenza, ci consegna l’immagine di un essere selvaggio, dagli impulsi irrazionali e incontrollabili.

Tuttavia nel mondo latino non era affatto infrequente soddisfare i propri bisogni al riparo delle lapidi funerarie, tanto che lo stesso Trimalcione afferma (Sat., 71,8)

In più, col testamento mi regolerò in modo che nessuno mi possa offendere da morto. Così darò disposizioni che a guardia del sepolcro ci sia sempre uno dei miei liberti, per evitare che la gente vada a cacarci sopra.

D’altra parte le tombe si affacciavano molto spesso sulle strade e l’accessibilità era espressione di un desiderio evidente da parte del defunto: quella di rendere visibile la propria tomba agli eventuali passanti, affinché questi ultimi si soffermassero a leggere il nome del defunto e la sua epigrafe evocandone il ricordo. Un modo per sentirsi non definitivamente morti, questo, e che ha ispirato innumerevoli artisti nel corso della storia.

Ma continuiamo il racconto petroniano:

[7] Ma, come stavo dicendo, una volta diventato lupo, incominciò a ululare e sparì nella boscaglia. [8] Io sulle prime non capivo più dove fossi; poi mi avvicinai ai suoi abiti per prenderli; ma quelli erano diventati di pietra. Chi non poté morire di paura se non io stesso? [9] Tuttavia strinsi la mano alla spada, e, abracadabra, andai infilzando le ombre, finché non raggiunsi la tenuta della mia amica. [10] Entrai che parevo uno spettro, a momenti schiattavo, il sudore mi colava tra le chiappe e avevo gli occhi di un morto; ce ne volle per riprendermi. [11] La mia Melissa dapprima si meravigliò perché ero ancora in giro a quell’ora, e fece: “Se arrivavi un po’ prima, almeno ci davi una mano; un lupo si è introdotto nella fattoria e da vero macellaio ci ha sgozzato tutte le bestie.

Però non l’ha fatta franca, anche se è riuscito a fuggire, ché un nostro servo gli ha trapassato il collo con la lancia”. [12] A sentir questo, non potei più a chiuder occhio e sul far del giorno, via di corsa alla casa del nostro Gaio, come un oste rapinato; e una volta che giunsi in quel posto, dove gli abiti erano diventati pietra, non altro trovai altro che sangue. [13] Come poi tornai a casa trovai il mio soldato stravaccato sul letto come un bue, mentre il medico gli curava il collo. Compresi che era un lupo mannaro e da allora in poi non sarei più riuscito a dividere il pane con lui, nemmeno se mi avessero ammazzato. [14] Gli altri al riguardo la pensino come vogliono. Quanto a me, se mento, possano i vostri numi tutelari stramaledirmi».

Nicerote, cercando di superare la paura, si avvicina alle vesti del soldato e constata con terrore che sono diventate di pietra. E come evitare altrimenti che le vesti sarebbero potute essere rubate da qualcuno, non consentendo la ri-trasformazione del lupo in uomo?

Con la spada lancia fendenti a destra e a manca per difendersi dalle ombre (secondo i Romani le ombre dei defunti vivevano in prossimità del loro sepolcro). Raggiunge la tenuta di Melissa, ormai quasi spettro anche lui, e viene informata da lei che un lupo si è introdotto nella fattoria e ha sgozzato tutte le bestie, rimanendo tuttavia ferito dalla lancia di un servo. Nicerote fugge ancora e al posto delle vesti di pietra scopre del sangue. Al ritorno a casa, trova l’amico a letto, ferito al collo.

Petronio utilizza in maniera significativa in questo secondo segmento narrativo le figure di traslazione, come metafore e similitudini: così Nicerote entrava che “pareva uno spettro”, aveva “gli occhi di un morto”, corre trafelato “come un oste rapinato”, trova gli abiti “diventati pietra”.

Una allusione maliziosa dell’autore alla possibilità niente affatto remota che l’uomo ‘normale’ sia portatore anche lui di metamorfosi?

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Annamaria Zizza

Mi sono abilitata in Italiano e Latino e in Storia dell’Arte, sono passata di ruolo per l’insegnamento dell’Italiano e del latino nei Licei nell’anno 2000/2001.

Sono attualmente in servizio dal 2007/2008 al Liceo Classico “Gulli e Pennisi” di Acireale CT, dove ricopro il ruolo di docente a tempo indeterminato nel triennio del corso C.

Ho frequentato con esito positivo i seguenti corsi di aggiornamento/formazione:

– Didattica della lingua italiana;

– Tecnologie informatiche applicato al PNI e al Brocca;

– Valutazione scolastica;

– Valutazione e programmazione scolastica;

– Sicurezza nelle scuole;

– Didattica della letteratura italiana;

– Didattica della letteratura latina;

– rogramma di sviluppo delle tecnologie didattiche;

– Didattica breve nell’insegnamento del latino;

– Comunicazione

– Per una didattica della lettura e della narrazione;

– Autori, collane, libri, progetti editoriali: valorizzare la scuola attraverso la lettura;

– La dislessia

Ho tenuto in qualità di esperto due corsi PON sulle abilità di base per l’Italiano e uno sui connotati profetici nella Comedìa dantesca; ho svolto il ruolo di tutor in altri corsi PON ministeriali.

Sono stata per tre anni funzione strumentale nell’area “Supporto ai docenti”, direttrice di laboratorio multimediale, catalogatrice Dewey nella biblioteca scolastica, bibliotecaria, RSU, coordinatrice e segretaria di Consiglio di classe con frequenza annuale. Ho elaborato e tenuto il percorso di ricerca-azione “Sopravvivere alla vita: istruzioni per l’uso” nell’ambito della DLC.

Ho partecipato a svariate iniziative culturali come relatrice: dalla tavola rotonda organizzata dal Comune di Acireale sul saggio della prof.ssa Ferraloro inerente il romanzo di Tomasi di Lampedusa “Il gattopardo”, a conferenze di argomento letterario presso scuole, al progetto “Dante nelle chiese di Acireale”, organizzato dal vescovado (con relativa Lectura Dantis), al festival Naxoslegge con un’altra lectura Dantis e a presentazioni di libri.

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