“Ma che cosa è l’efficacia d’un ferro, mosso da qualsiasi mano, in confronto alla cieca forza espansiva, colla quale un pacco di polvere, tocco da una scintilla, avventa una palla da cannone? Non fu dunque più necessario trovar braccia muscolose e indurite dalla scherma; bastò il coraggio di stare al posto, e l’abitudine d’eseguire con ordine e agilità una facile operazione mecanica, che non richiede sforzo. E i colpi essendo irresistibili e fatali, la vittoria è di chi può gettarne sul nemico un numero maggiore; la vittoria è della massa del fuoco.”

                                          Andrea Zambelli. La Guerra. Volumi 2, Milano, Bravetta, 1839.

Georges Tasnière, facciata del Collegio dei Nobili di Torino (sede del Museo Egizio di Torino). Incisione da C. M. Audiberti, Regiae Villae poetice descriptae, Torino 1711. © Archivio Storico della Città di Torino

 

Tra i tanti compiti che la società delega alle strutture museali ce n’è uno di cui talvolta sfugge l’importanza: la sicurezza fisica dei reperti che ha in custodia.

Una parola bellissima, che uso spesso quando descrivo una foto che ho scattato in un museo, precisando che tale reperto è per l’appunto “custodito” presso…Dà l’idea di quell’attenzione che è cura e protezione, vigilanza e responsabilità che custodi e curatori – ciascuno nei propri ruoli – quotidianamente dedicano alle collezioni che gli sono state affidate. Quando il museo è chiuso al pubblico le sue pesanti porte continuano nel lavoro di protezione, insieme ai moderni sistemi di allarme e, nel caso del Museo Egizio di Torino, ad una guardiania armata che staziona nella struttura “7gg/24h”.

Ma c’è una condizione di profonda instabilità sociale che rende vano ogni tentativo di proteggere il nostro Patrimonio Culturale, direi la nostra stessa vita: la guerra. Ed è forse necessario cercarne le ragioni prima di raccontarne gli effetti.

Le mutate regole di ingaggio caratteristiche dei conflitti più recent

i hanno modificato le strategie militari. Non ci si limita più allo scontro armato in un luogo predeterminato, solitamente distante dalle città, al termine del quale il vincitore entra in possesso dei territori difesi da chi è stato vinto. Le città e i civili non sono più effetti collaterali limitati e casuali, ma veri e propri bersagli facenti parte di una strategia del terrore che mira ad indebolire il nemico non più sul piano fisico, ma distruggendo il tessuto sociale dei territori che gli appartengono.

Guernica. Questo celebre dipinto fu realizzato da Picasso all’indomani del terribile bombardamento della cittadina spagnola, avvenuto il 26 aprile 1937, portato a termine dalla Luftwaffe tedesca e dall’Aviazione Legionaria Fascista Italiana. Il capolavoro è poi diventato il simbolo della denuncia universale contro gli orrori della guerra. Misura 3,49 mt x 7,76 mt ed è custodito presso Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid.

È pur vero che la guerra, come il resto delle attività umane, ha avuto una sua precisa evoluzione.

Sostenuta dalla tecnologia, di cui è stata non di rado musa ispiratrice, la guerra ha attraversato tutte le stagioni dell’uomo: dalla preistoria, con una mano chiusa a pugno e poi armata da un sasso per renderne più efficaci gli effetti, fino ai giorni nostri, con un neutrone libero che colpisce un nucleo atomico innescando una reazione a catena che sprigiona un’energia devastante.

Tuttavia l’accelerazione non è stata progressiva e alcuni dati, sconvolgenti, lo dimostrano chiaramente.

Dal I sec. a.C. fino al XX secolo della nostra era si calcolano circa 37 milioni di deceduti a causa di attività belliche, mentre dal 1900 al 1995, in poco meno di un secolo, si calcolano quasi 110 milioni di deceduti a causa di conflitti.

(Fonte: William Eckhardt, War-related Deaths Since 3000 BC, Bulletin of peace proposals, December 1991 – Ruth Leger Sivard, World Military and Social Expenditures ,1996, Washington. World Priorities, 1996).

Certo, la demografia ha registrato un notevole incremento della popolazione mondiale negli ultimi due millenni e solo nel continente europeo siamo passati dai 28 milioni di abitanti del I secolo, ai 727 del 1995, anno in cui termina la ricerca che ho utilizzato come fonte.   Ma nel secolo compreso tra il 1500 e il 1600, ad esempio, morirono 3,2 persone ogni 1000 abitanti, mentre tra il 1900 e il 1995 furono 44,4 ogni 1000 coloro che persero la vita a causa delle guerre.

Durante la Prima Guerra Mondiale morirono circa 6,5 milioni di civili e circa 9 milioni di militari, mentre durante la Seconda Guerra Mondiale morirono circa 22,5 milioni di militari e ben 48,5 milioni di civili. Per la prima volta nella storia dell’uomo furono maggiori le perdite tra i civili inermi che non tra i militari armati, nell’ordine di più del doppio.

(Fonte: Joseph V. O’Brien, Department of History – John Jay College of Criminal Justice, New York, NY, USA).

il 14 dicembre 1782 ad Annonay, Francia, i fratelli Montgolfier fanno volare per la prima volta una “mongolfiera” senza equipaggio a bordo. La spinta fu così forte che ne persero il controllo salendo fino a non essere più visibile.

A segnare un sostanziale punto di svolta nella nuova concezione della guerra è un sogno che finalmente l’uomo riesce a realizzare: volare! Chissà quanti uomini nel corso dei millenni hanno osservato ed invidiato il volo agli uccelli. Il loro punto di vista, la velocità e il poter essere altrove in un…battito d’ali. E il sogno si concretizza in una data precisa, il 21 novembre 1783, quando per la prima volta un sistema complesso, realizzato in Francia da due fratelli, consente a tre persone di vincere la forza di gravità e di fluttuare nell’aria per un lungo tempo.

Mancano ancora le ali con le possibilità acrobatiche ed affascinanti che offrono al volo, ma la mongolfiera trova subito applicazione in ambito bellico come punto di osservazione privilegiato per scrutare il nemico e poterne anticipare le mosse.

Di questa nuova unità militare, gli Aerostieri, fa parte anche il capitano Pierre-François Bouchard, l’ufficiale che durante la Campagna d’Egitto di Napoleone scoprirà la Stele di Rosetta.

I Ministeri della Guerra si dotano di questi nuovi dispositivi e nel 1884 l’Italia può vantare la sua Sezione Aerostatica del 30° Genio di stanza a Roma, e anche se le mongolfiere hanno un controllo direzionale totalmente passivo e il pilota è costretto ad affidarsi alle correnti in quota per avere una rotta approssimativa, l’uomo finalmente riesce a volare!

A mettere le ali al sogno, e un motore che lo spinge, sono i fratelli Wright, che nel 1903 fanno decollare il primo aeroplano della storia con un pilota a bordo capace di mantenerlo in assetto di volo per un breve tratto. Ma ormai la via del cielo è tracciata e le tappe vengono bruciate una dopo l’altra. Già nel 1910 alla Sezione Aerostieri si aggiunge la 1° Flottiglia Aeroplani, ma già nel 1923 – pochi anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e ad appena quarant’anni dal primo incerto volo – la distruzione indiscriminata di obiettivi non militari e la morte di centinaia di migliaia di civili dovute ai bombardamenti aerei, crea i presupposti per una specifica conferenza.

I fratelli Wright alle prese con il loro primo aeroplano.

All’Aia, dall’11 dicembre 1922 al 19 febbraio 1923, si riuniscono i rappresentati degli Stati che hanno preso parte alla Grande Guerra e al termine redigono l’Hague Rules of Air Warfare: 62 articoli in cui viene esecrata la guerra basata sul terrore, specificando all’articolo XXII che “… è proibito il bombardamento aereo che abbia per finalità di terrorizzare la popolazione civile, di distruggere o danneggiare la proprietà privata che non abbia carattere militare o di offendere dei non-combattenti”. Nessuno Stato ratifica però il documento che rimane quindi lettera morta, al pari della Risoluzione “Protection of Civilian Populations against Bombing from the Air in Case of War” proposta dalla Società delle Nazioni, fondata nel 1919 durante la Conferenza di Pace di Parigi, ma già in fase di declino.

Questo triste preambolo fatto di storia della guerra, cifre e statistiche era necessario per mostrare come l’evoluzione dei conflitti, specialmente in tempi recenti e grazie all’aiuto di nuove tecnologie, abbia posto nuovi quesiti alla società e per quale motivo, durante la Seconda Guerra Mondiale, ci si è trovati quasi del tutto impreparati a proteggere il nostro Patrimonio Artistico e Culturale, nonostante l’esperienza già vissuta durante la Grande Guerra e i tentativi fatti per porre un limite alle distruzioni indiscriminate di obiettivi non militari.

Il vertiginoso aumento delle vittime civili sottende l’uso di armi dal grande potere distruttivo il cui effetto non si ferma con il crollo del palazzo colpito, ma continua nel terrore di nuove esplosioni che genera insicurezza e distrugge sistematicamente il tessuto sociale del cittadino, ogni volta più solo.

Le guerre campali e le guerre di trincea lasciano via via il posto ad una strategia diversa. Si tende ora ad allontanare fisicamente tra loro gli uomini che combattono utilizzando le nuove tecnologie per seminare terrore, morte e distruzione in modo indiscriminato. Come già scritto: “Non fu dunque più necessario trovar braccia muscolose e indurite dalla scherma; bastò il coraggio di stare al posto, e l’abitudine d’eseguire con ordine e agilità una facile operazione mecanica, che non richiede sforzo”.

E tra le vittime di questa nuova guerra c’è anche il Patrimonio Storico e Culturale.

Torino.

“Ore 1:30 del 12 Giugno 1940 entrambe le città (nda, Genova e Torino), quando arrivarono i bombardieri erano completamente illuminate, come in tempo di pace”.

                                   Dal diario di un membro dell’equipaggio di un bombardiere inglese.

Uno dei bombardamenti effettuati su Torino durante la Seconda Guerra Mondiale.

Ventiquattro ore dopo la dichiarazione di guerra annunciata in Piazza Venezia da Benito Mussolini, decollano dall’Inghilterra i cacciabombardieri bimotore Whitley della RAF per raggiungere Torino (e Genova che fu bombardata nella stessa notte). È facile per i piloti orientarsi seguendo il corso del Po’ e raggiungere il capoluogo piemontese nella notte tra l’11 e il 12 giugno, precisamente all’1.30, dove sganciano bombe da 500 libbre e spezzoni incendiari, causando 17 vittime e 40 feriti.

Da quel giorno e fino al termine della guerra la città torinese subirà ancora più di cento bombardamenti, durante i quali il 40% del tessuto urbano andrà perduto e circa duemila persone perderanno la vita.

E il Museo Egizio?

Quando l’Italia entra in guerra, il 10 giugno 1940, il Museo Egizio vanta già una storia lunga ben più di un secolo ed ha già affrontato la Grande Guerra. Fondato nel 1824 e aperto al pubblico nel 1832, il Museo arriva alla metà del Novecento già ricco di decine di migliaia di reperti arrivati a Torino attraverso l’acquisizione di collezioni, come la celebre “Drovettiana”, e grazie agli scavi condotti in Egitto da Schiaparelli e Farina tra il 1903 e il 1937.

L’intero corredo di Kha e Merit è già esposto in un apposito spazio che ripropone la stessa planimetria della tomba originaria, così come i sarcofagi, le splendide statue della Galleria dei Re e molto altro ancora. Al di là delle varie ristrutturazioni e dei progetti scientifici che si sono succeduti nel tempo, la collezione che ammiriamo oggi al Museo Egizio non differisce di molto da quella che si poteva ammirare nelle sale del Palazzo del Collegio dei Nobili nel 1940, ad eccezione del Tempio di Ellesija che occuperà il suo posto in Museo a partire dal 1970.

Museo Egizio, Galleria dei RE, sala II, allestimento anni ’50 del Novecento, CC BY-SA

Ad affrontare le complesse vicende della guerra è Giulio Farina a cui viene affidata la direzione del Museo di Antichità a partire dal 1933, anche se la sua presenza a Torino risale al 1928 nel ruolo di coadiutore di Pietro Barocelli, che subentra ad Ernesto Schiaparelli ereditandone tutti i numerosi incarichi. Sono, questi, anni di grandi cambiamenti.

Il ruolo di direttore della Missione Archeologica Italiana, ideata e guidata da Schiaparelli e di cui Farina faceva parte, viene ricoperto ora da Carlo Anti, archeologo in linea con il regime fascista, che scava a Tebtynis. Farina, grazie al suo ruolo di direttore del Museo Egizio, porta a termine tre fruttuosissime campagne di scavo a Gebelein, da cui proviene la preziosa tela dipinta risalente al IV millennio a.C., e continua il lavoro di studio e ricerca della collezione torinese avviato dallo Schiaparelli negli anni precedenti.

Nel 1939 il Museo Egizio viene scorporato dalla Soprintendenza del Piemonte e si configura come Soprintendenza Speciale e Autonoma, rimanendo tale fino alla nascita della Fondazione delle Antichità Egizie nel 2004, che ancora oggi si occupa della gestione dell’intera collezione del Museo.

Giulio Farina muore a Trofarello nel 1947 dopo una lunga malattia, ed al pensiero dovuto all’uomo si somma il rammarico di aver perduto per intero l’attività di documentazione delle sue ricerche, distrutta assieme alla sua casa durante i bombardamenti su Torino.

Giulio Farina. La foto lo ritrae durante una campagna di scavo a Gebelein del 1930. Credits: Archivio fotografico del Museo Egizio.

Fin dal primo raid aereo effettuato nel giugno del 1940 dai cacciabombardieri bimotore Whitley della RAF, Farina deve affrontare il problema della sicurezza dei reperti, che le pur robuste pareti del Palazzo del Collegio dei Nobili non possono garantire contro le bombe da 500 libbre che vengono sganciate sulla città.

La parte della collezione che viene immediatamente presa in esame è quella del corredo di Kha e Merit, ospitato in una piccola stanza che riproduce le forme e le misure della camera funeraria dove fu rinvenuto intatto. La soluzione proposta viene però respinta del Reale Corpo del Genio Civile, che ritiene giustamente inutile costruire una blindatura in pesante cemento armato al primo piano di un vecchio edificio, consigliando di spostare i preziosi reperti in un luogo più sicuro.

Farina accoglie il suggerimento e dopo aver chiuso il Museo al pubblico a tempo indeterminato organizza il trasferimento del corredo funerario negli scantinati del palazzo, dove fa approntare anche un rifugio antiaereo per il personale, dotato di quanto necessario per un lungo periodo di permanenza. Sul tetto del Palazzo dei Nobili viene posizionato il segno convenzionale, comunicato preventivamente ai governi britannico e francese, che segnala ai piloti dei bombardieri la presenza di “edifici consacrati ai culti, alle arti, alle scienze e alla beneficenza, nonché i monumenti storici, gli ospedali civili e altri centri di raccolta di malati e feriti…”, ovvero un rettangolo giallo che ospita due triangoli rettangoli contrapposti sulla sua diagonale, uno di colore nero e l’altro di colore bianco.

La situazione in città diventa sempre più insicura e il Museo prova a prendere tutte le contromisure necessarie per proteggere ciò che custodisce. I grandi finestroni dei piani superiori vengono schermati con robuste assi di abete e le aperture a piano terra sigillate con mattoni in laterizio. In data 13 marzo 1941 Giulio Farina firma la richiesta per ottenere “…15 maschere antigas modello T.35 complete di tutti gli accessori” da distribuire ai dipendenti del Museo.

Modello di maschera antigas T-35, simile a quelle che arrivarono al Museo Egizio nel 1941. Foto dal web.

Ma il cielo di Torino si riempie sempre più spesso del suono acuto e carico di urgenza delle sirene antiaeree e crollano muri, cedono solai, si aprono voragini. L’odore acre degli incendi si mescola alla polvere e alla disperazione di chi non ha più certezze e sa che deve abbandonare la propria casa per un altrove che spesso è ignoto e senza un ritorno certo.

Grazie ad una mappa realizzata dai Vigili del Fuoco di Torino nel 1946 e custodita presso l’Archivio Storico della Città di Torino, sappiamo che una bomba dirompente esplode tra Piazza San Carlo e via Roma, a pochi passi dal Museo Egizio e dall’Accademia delle Scienze. Possiamo solo immaginare l’intensità del boato, la forza dell’onda d’urto che avrà fatto tremare l’intero Palazzo, facendo forse cadere a terra qualche oggetto e mandando in frantumi i vetri delle finestre. La stessa mappa segnala anche alcuni incendi provocati da spezzoni incendiari che hanno colpito il lato del palazzo che corre lungo via Maria Vittoria.

La mappa realizzata dai Vigili del Fuoco di Torino nel 1946. Cerchiato di rosso il palazzo del Collegio dei Nobili, sede del Museo Egizio, mentre la freccia nera indica il pallino blu utilizzato dai vigili per indicare i luoghi dove esplosero le bombe. I punti rossi indicano invece i luoghi colpiti dagli spezzoni incendiari. Credits: Archivio Storico della Città di Torino.

Ormai la raggiunta consapevolezza che in qualsiasi momento l’intera collezione egizia possa scomparire per sempre, è fonte di grande preoccupazione. Il lavoro di uomini caparbi e coraggiosi che hanno raccolto e accolto le vestigia di una tra le più grandi civiltà del passato e il lavoro degli uomini antichi che quella civiltà l’hanno plasmata, rischia di essere vanificato nel fuoco e nella devastazione di “…una facile operazione mecanica, che non richiede sforzo”.

Giulio Farina capisce che i reperti di cui è responsabile dovranno ben presto seguire la sorte di molti dei suoi concittadini, “sfollando” dalla propria abitazione per raggiungere un luogo più sicuro.

I due telegrammi che Farina e Bottai si scambiarono riguardo la sicurezza dei reperti custoditi nel Museo Egizio. Credits: Archivio del Museo Egizio di Torino.

Invia un telegramma al ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, contenente un messaggio molto breve, la cui tagliente schiettezza scevra del superfluo congela in un respiro la drammaticità dei fatti: “Prima di causare rovina museo egizio venite voi e se ho torto mi mandate via”.  

La risposta del ministro arriva a stretto giro di posta e dispone che “…si provveda subito rimozione et trasporto materiale museo egizio scopo protezione antiarea” (l’errore è nel testo originale del telegramma inviato dal ministero).

Una settimana dopo si sfiora l’epilogo e viene spedito un altro telegramma al ministero dove lo si informa che “…uno spezzone incendiario è caduto nel nostro museo, ha perforato la volta della sala di Gebelein ed ha colpito la vetrina d’angolo a sinistra di chi entra provocando incendio”.  Il pronto intervento del personale “che non abbandonò mai il Museo, distribuito in turni opportuni di guardia, poté con i mezzi già approntati arrestare rapidamente il principio di incendio” (tratto da “Il Museo Egizio durante gli anni di guerra 1940-45”, un articolo di Ernesto Scamuzzi pubblicato sulla rivista Aegyptus, Anno 26, No. 1/2, gennaio-dicembre 1946, pp. 186-190 ).

Alla pressante urgenza data dal precipitare degli eventi si aggiunge la malattia di Giulio Farina che lo costringe al riposo, sostituito nella gestione delle operazioni di sgombero da Carlo Carducci, Soprintendente delle Antichità del Piemonte.

Alcune delle casse approntate per trasportare i reperti presso il Castello di Agliè. Si vedono anche i lavori in corso d’opera per la protezione delle statue della Galleria dei Re. Credits: Archivio Fotografico del Museo egizio di Torino.

Viene individuato il Castello di Agliè, ad una quarantina di chilometri da Torino, perché ritenuto lontano dall’interesse dei bombardieri, così un numero imprecisato di casse contenenti i preziosi e delicati reperti trovano spazio su camion messi a disposizione dalla Wehrmacht e da tre ditte locali: Coggiola, Gondrand e Gozzano.

A completare lo “sfollamento” dei reperti arriva, dal Museo Egizio di Firenze, Ernesto Scamuzzi che sostituisce Farina alla direzione del Museo e vi rimane fino al 1964. A partire da quella data la gestione della struttura torinese, dedicata interamente all’antico Egitto, viene affidata ad un funzionario di lungo corso, già presente vent’anni prima al riallestimento postbellico del Museo: il professor Silvio Curto.

Dal racconto dello stesso Scamuzzi sappiamo che i reperti rimasti al Museo riempiono altre 150 casse spedite velocemente lungo la strada per Agliè, dove alcune sale ritenute idonee le accolgono in tutta sicurezza. Le casse contenenti i reperti più preziosi vengono in qualche modo mimetizzate, occultate in sale fuori mano e probabilmente integrate tra le cose già presenti, in modo da non essere facilmente identificabili.

L’opera di camouflage è così efficace che neppure una colonna di soldati tedeschi che soggiorna ad Agliè per quasi tutto il 1945, si accorge di nulla.

I danni causati dallo spezzone incendiario che raggiunse la Sala di Gebelein l’8 dicembre 1942. Credits: Archivio del Museo Egizio.

A presidiare il Museo ormai vuoto sono rimasti i colossi dei sovrani d’Egitto e di alcune divinità. Il motivo è da ricercare nell’eccessivo peso di quei reperti, che avrebbe imposto un tempo troppo lungo per uno spostamento in sicurezza. Ma mi piace pensare che ancora una volta, a distanza di millenni, la casa degli egizi sia stata posta sotto la protezione del “buon pastore”, il “servo”, il “toro possente e vittorioso”, di “colui che ha combattuto per la sua frontiera e ha respinto i devastatori”, “che ha permesso di crescere i nostri figli e seppellire i nostri morti” … ovvero, sotto la protezione del braccio possente del Re d’Egitto!

Per ogni buon conto anche i potenti re e le divinità egizie vengono protetti con robuste strutture, sia in legno che in muratura, riempiendo le intercapedini che si sono formate con finissima sabbia perfettamente asciutta.

Oltre allo spezzone incendiario di cui si è già detto, il Museo subisce alcuni danni conseguenti al bombardamento del 12 luglio 1943, che distrugge parzialmente buona parte dei locali che ospitano l’Osservatorio astronomico al civico 3 di via Maria Vittoria, la cui sede oggi è a Pino Torinese.

Le casse dei reperti ormai al sicuro nelle sale del Castello di Agliè. Credits: Archivio Fotografico del Museo Egizio.

Come racconta il direttore del Museo Ernesto Scamuzzi,

le esplosioni mandano in frantumi i dieci lucernai affacciati sulle tre sale che ospitano il materiale ritrovato da Schiaparelli durante gli scavi di Asyut e Gebelein. La struttura precipita sulle vetrine danneggiandole gravemente, ma ormai il lavoro di “sfollamento” dei reperti verso il Castello di Agliè, che aveva preso il via nei primissimi mesi del 1943, è stato portato a termine e le vetrine non sono che contenitori vuoti. Gli effetti collaterali di quelle deflagrazioni procurano danni facilmente rimediabili e l’intera struttura arriva alla fine della guerra praticamente integra. Già nel 1946 i reperti sono tutti rientrati nella loro casa ed il Museo può riaprire le sue porte, prima istituzione culturale torinese che ritorna ai suoi cittadini, grazie anche al lavoro di Silvio Curto.

La distruzione del patrimonio è stata al centro di un’importante riflessione che ha coinvolto i curatori del Museo Egizio trovando poi concretezza in una mostra dal titolo evocativo: “Anche le statue muoiono. Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo”, inaugurata nel 2018 e dislocata in tre diverse sedi: il Museo stesso, i Musei Reali di Torino e la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.

La riflessione ha voluto indagare approfonditamente sul significato stesso di patrimonio culturale (archeologico), nel tentativo di emanciparsi dalla definizione più diffusa che lo relega a mero ricordo del passato, fatto di reperti da conservare in un museo o di vestigia da preservare in un’area archeologica.

Ma il patrimonio, oltre al suo valore culturale, può coincidere con l’identità stessa di un popolo o essere un importante simbolo religioso, e allora la sua distruzione non è più l’effetto di un bombardamento che vuole devastare il tessuto sociale di un territorio, ma un atto di mirata e violenta sopraffazione che mira a distruggere la memoria identitaria di quel popolo.

La storia recente ci ha mostrato come il Medio Oriente e le sponde meridionali del Mediterraneo siano state teatro di queste distruzioni a seguito di azioni militari caratterizzate dalla forte impronta fanatico-religiosa, alimentate da una folle ideologia di rinascenza che non accetta null’altro che non sé stessa.

Ma anche le spoliazioni avvenute in antico, operate indiscriminatamente da chi aveva i mezzi per poterlo fare, hanno determinato una notevole perdita del patrimonio culturale di quei territori, decontestualizzando reperti che non possono più raccontare per intero la propria storia e quella della civiltà che li ha prodotti. Non si può tuttavia negare che l’attività antiquaria ottocentesca abbia posto le fondamenta per la nascita dell’archeologia, necessaria per rapportarsi con le grandi collezioni museali europee, che proprio grazie a quelle spoliazioni si sono formate.

Fragment II, 2016. Quest’opera dell’artista Ali Cherri (Beirut, 1976). Un tavolo dalla superficie retroilluminata accoglie dei reperti originali provenienti da varie culture, che nel corso di un anno ha regolarmente acquistato presso le case d’asta di tutto il mondo. Il rapace, tassidermizzato, le cui ali spiegate incombono sui reperti, simboleggia l’istinto predatore dell’occidente. L’opera era esposta presso il Museo durante la mostra “Anche le statue muoiono. Conflitto e Patrimonio tra antico e contemporaneo”. Credits: Museo Egizio.

Il patrimonio culturale vive dunque in un equilibrio delicato che merita di essere al centro di ampie riflessioni, come quelle che hanno portato alla Convenzione di Faro di cui non ci è possibile ora andare oltre la semplice citazione.

Oggi i musei fanno ricerca e, come avviene per il Museo Egizio, tornano nei luoghi di quelle spoliazioni per ritrovare i contesti e ricostruire quelle storie mancanti, per ricollegare i reperti che custodiscono all’identità di quella civiltà che li ha realizzati.

Ed è per questo motivo che quando un museo è costretto a chiudere le sue porte, ogni volta si perde un pezzetto della nostra identità.

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Paolo Bondielli

Storico, studioso della Civiltà Egizia e del Vicino Oriente Antico da molti anni. Durante le sue ricerche ha realizzato una notevole biblioteca personale, che ha messo a disposizione di appassionati, studiosi e studenti. E’ autore e coautore di saggi storici e per Ananke ha pubblicato “Tutankhamon. Immagini e Testi dall’Ultima Dimora”; “La Stele di Rosetta e il Decreto di Menfi”; “Ramesse II e gli Hittiti. La Battaglia di Qadesh, il Trattato di pace e i matrimoni interdinastici”.

E’ socio fondatore e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Associazione Egittologia.net. Ha ideato e dirige in qualità di Direttore Editoriale, il magazine online “MA – MediterraneoAntico”, che raccoglie articoli sull’antico Egitto e sull’archeologia del Mediterraneo. Ha ideato e dirige un progetto che prevede la pubblicazione integrale di alcuni templi dell’antico Egitto. Attualmente, dopo aver effettuato rilevazioni in loco, sta lavorando a una pubblicazione relativa Tempio di Dendera.

E’ membro effettivo del “Min Project”, lo scavo della Missione Archeologica Canario-Toscana presso la Valle dei Nobili a Sheik abd el-Gurna, West Bank, Luxor. Compie regolarmente viaggi in Egitto, sia per svolgere ricerche personali, sia per accompagnare gruppi di persone interessate a tour archeologici, che prevedono la visita di siti di grande interesse storico, ma generalmente trascurati dai grandi tour operator. Svolge regolarmente attività di divulgazione presso circoli culturali e scuole di ogni ordine e grado, proponendo conferenze arricchite da un corposo materiale fotografico, frutto di un’intensa attività di fotografo che si è svolta in Egitto e presso i maggiori musei d’Europa.

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