Estratto da MediterraneoAntico Magazine, Anno 2015, Numero 2
L’archeologia subacquea è una delle discipline afferenti al fantastico mondo dell’archeologia. Ma non di una sola sotto-disciplina possiamo “vantarci”, perché all’interno dell’archeologia subacquea possiamo trovare differenti settori di studio. Proviamo a conoscerne due, o meglio proviamo ad avvicinarci a due argomenti che appartengono a settori differenti: i porti (strutture sommerse) e i relitti.
L’Italia è un paese che presenta, tra la penisola e le isole, circa 8000 km di coste. Su queste, esattamente come oggi, la presenza dell’uomo in passato e in particolare in epoca romana, era ben attestata. Porti, ville marittime, peschiere… strutture che potremmo definire monumenti costieri. Il numero di questi monumenti ritrovati è bassissimo; la sopravvivenza di queste strutture, ove presenti, è a rischio, a causa sia di elementi naturali sia degli interventi antropici come gli interramenti (avvenuti anche in passato, ed erano una pratica più che abituale per distruggere i porti di località conquistate), sia per l’odierna crescente richiesta di nuovi porti turistici. Dove esistenti, queste strutture sono state scarsamente studiate. Come spesso accade in Italia, non c’è stato uno studio sistematico per la mancanza di fondi e il volontariato e le segnalazioni, a volte grossolane, hanno portato spesso alla confusione e ad indicazioni sommarie sotto la voce generica di “rovine archeologiche”.
Ma come costruivano i Romani in ambiente sommerso?
Abbiamo una fonte diretta fornita da Vitruvio che, in un passo della sua opera De architectura (V, XII), ci illustra le modalità costruttive di opere portuali. Per completezza, dobbiamo anche constatare le descrizioni fornite da altri due autori, anche se più generiche, che sono quella di Flavio Giuseppe per la costruzione di Sebastos, il porto di Caesarea Marittima, e quella di Procopio di Cesarea. Vitruvio descrive le tre metodologie fondamentali per costruire in acqua. Logicamente le maestranze si scontravano con problemi di natura diverse a seconda dei luoghi in cui si trovavano ad operare; si adattavano un po’ al contesto, logicamente.
Il primo metodo prevedeva la costruzione in cassaforma ”inondata”:
”Deinde tunc in eo loco, qui definitus erit, arcae stipitibus robusteis et catenis inclusae in aquam demittendue destinandueque firmiter; deinde inter ea extrastilis inferior pars sub aqua exaequanda et purganda, et coementis ex mortario materia mixta, quemadmodum supra scriptum est, ibi congerendum, denique compleatur strurtura spatium, quod fuerit inter arcas.”
Trad.: Quindi, in quel punto stabilito, si debbono affondare e bloccare con sicurezza delle casseforme tenute insieme da montanti di quercia e tiranti trasversali; poi, nel vano interno, [lavorando] dalle traversine si deve livellare e pulire il fondale e gettare la malta, preparata come è spiegato sopra, mischiata al pezzame di pietra, fino a che lo spazio tra le paratie non sia riempito di calcestruzzo.
Il secondo metodo prevedeva la costruzione in cassaforma ”stagnata”:
”In quibus autem locis puivis non nascitur, his rationibus erit faciendum, uti arcae duplices relatis tabulis et catenis conligatae in eo loco, qui finitus erit, constituantur, et inter destinas creta in eronibus ex uiva palustri factis calcetur. Cum ita bene calcatum et quam densissime fuerit, tunc cocleis, rotis, tympanis coniocatis locus, qui ea septione finitus fuerit, exinaniatur sicceturque, et ibi inter settiones fundamenta fodiantur.”
Trad.: In quei luoghi invece, in cui non si trova la pozzolana, si dovrà seguire questo procedimento: nel punto che si sarà delimitato si impiantino delle paratie a doppia parete, tenute insieme da tavole riportate e traverse, e tra i montanti [interni alle paratie] si incalchi dell’argilla [confezionata] in panieri fatti d’alga di palude. Quando l’argilla sarà compressa al massimo, allora con pompe a vite, ruote e tamburi acquari [lì] installati si svuoti e asciughi lo spazio circoscritto con questo recinto stagno, e tra le paratie si scavino le fondazioni.
Il terzo, invece, prevedeva la costruzione a blocchi prefabbricati:
”Sin autem propter fluctus aut impetus aperti pelagi destinae arcas non potuerint continere, tunc ab ipsa terra sive crepidine puivinus quam firmissime struatur, isque puivinus exaequata strnatur planitia minus quam dimidiae partis, reliquum, quod est proxime litus, proclinatum latus habeat. Deinde ab ipsam aquam et latera puivino circiter sesquipedales margines strnantur aequilibres ex planitia, quae est su pra scritta; tunc proclinatio ea impleatur harena et exaequetur cum margine et planitia puivini. Deinde insuper eam exaequationem pila, quam magna constituta faerit, ibi strnatur; eaque cum erit extrurta, relinquatur ne minus duos menses, ut siccescat. Tunc autem succidatur margo, qune sustinet harenam; ita harena fluctibus subruta efficiet in mare pilue praecipitationem. Hac ratione, quotienscumque opus fuerit, in aquam poterit esse progressus.”
Trad. Qualora invece, per via delle onde e della forza del mare aperto, le palificate non avessero potuto trattenere le casseforme, allora dalla terraferma o dalla banchina si costruisca quanto più solidamente possibile un basamento; questo basamento si costruisca in modo che abbia una superficie, per meno della metà in piano, e il resto, la parte verso la spiaggia, inclinata. Quindi, sul fronte a mare e sui lati si costruiscano al basamento degli argini, allo stesso livello della superficie in piano descritta sopra, larghi circa un piede e mezzo; poi l’inclinazione sia riportata con della sabbia alla quota dell’argine e del piano del basamento. Quindi sopra questo piano si costruisca un blocco, grande quanto si sarà stabilito; quando sarà pronto, lo si lasci a tirare per almeno due mesi. Allora si demolisca l’argine che contiene la sabbia; in questo modo la sabbia, dilavata dalle onde, provocherà la caduta in mare del blocco. Con questo sistema, ogni volta che servirà si potrà ottenere un avanzamento in mare.
Di interesse, forse maggiore, sono in relitti. I motivi sono vari: fascinazione, senso dell’avventura, il ritrovamento di un “forziere”. Basta con la fantasia, veniamo ai dati concreti. Uno dei momenti essenziali, seppur drammatici, perché una nave inizi la sua trasformazione in relitto, è il naufragio, ovvero, secondo la definizione più comune, l’affondamento di un’imbarcazione per tempesta o altro accidente, con conseguente rovina totale o parziale della stessa. In ambito archeologico, conoscere le cause del naufragio è utile per arrivare alla ricomposizione delle scafo e, a seconda del trauma subito, riconoscere eventuali aree di attività di recupero. Tra le cause più comuni di naufragio si possono citare: il rovesciamento, l’incagliamento su scogli o secche, lo spiaggiamento, lo speronamento, l’incendio, il cedimento strutturale e l’auto-affondamento. Tutte queste cause portano a una perdita del materiale trasportato; il carico, però, può essere perso anche volontariamente, ossia per via di un getto a mare degli oggetti, in primis le ancore, al fine di alleggerire lo scafo. Non tutti i materiali però si depositano sul fondo; a causa della loro diversa galleggiabilità, alcuni di essi vengono trasportati dalla corrente verso la costa, mentre altri si avviano a sprofondare immediatamente nel blu.
La posizione più tipica in cui i relitti vengono ritrovati è quella di navigazione, con lo scafo leggermente inclinato su un fianco, mentre il carico si trova raramente nella stessa posizione dello stivaggio. Una volta stabilitasi sul fondale, l’imbarcazione continua la sua fase di trasformazione in relitto; infatti, a causa della nuova natura dell’ambiente che la circonda, entrano in gioco processi fisici e biologici. Fino a una profondità di circa quaranta metri, il moto ondoso pare essere l’agente principale della distruzione delle strutture della nave, seguito dall’imbibimento del legno e per ultimo, ma per questo non meno dannoso, dal lavoro della “taredo navalis”, ovvero un tarlo del legno che può operare fino a duecento metri circa. Da qui si può intuire che i ritrovamenti di un relitto antico riguardano, spesso, solo le parti inerenti al carico, perché poco fasciame si salva. Nonostante ciò, la forma che appare agli occhi degli archeologi, in fase di prospezione, è quella dell’imbarcazione o quasi. Il motivo di ciò è da ricondurre al fatto che il relitto viene inglobato dall’ambiente circostante e, non di rado, può venire sigillato da uno spesso strato di concrezione; questa situazione, come precedentemente anticipato, è quella che fa assumere al giacimento da indagare la tipica sagoma ellissoidale, che può emergere dal fondale per 2/3 metri. Il fondale più idoneo alla conservazione di un relitto è senz’altro quello sabbioso.
Questo a causa di un veloce processo di sprofondamento della sabbia che comporta una protezione del relitto stesso e del suo contenuto. Il fondale roccioso, invece, frequente sotto costa e presente fino a una profondità di 30/40 metri circa, non offre alcuna protezione o possibilità di copertura del relitto. Anzi, molto spesso, in presenza di pareti degradanti, la nave affondata ha la tendenza ad appoggiarvisi e a scivolare verso il fondo, perdendo grandi quantità di carico e danneggiando la struttura. L’attività biologica, inoltre, particolarmente intensa su questo tipo di fondale, colonizza il materiale estraneo rendendolo spesso irrimediabilmente un tutt’uno con esso.