I supplizi contemplati dal diritto penale arcaico romano si sono sempre contraddistinti per l’alto grado di severità, finalizzato a contenere le spinte eversive e a fornire modelli di punizione ai cittadini che volessero scardinare le fondamenta del mos maiorum. Un esempio è la pena stabilita per il reato di perduellio (tradimento), i cui più noti esempi, reperiti attraverso le fonti, sono tre.

Il primo è quello riferito alla famosa contesa tra gli Orazi e i Curiazi, sotto il regno del terzo re di Roma, Tullo Ostilio. I primi rappresentavano la ancor giovane città di Roma, i secondi quella di Alba Longa.

La contesa era finalizzata ad ottenere la supremazia nello scontro tra le popolazioni laziali e la potenza etrusca, allora in piena espansione. L’ idea del duello non era stato, però, del romano Tullo Ostilio, ma del re albano Mezio Fufezio, che aveva escogitato questo espediente per mettere fine alla lotta per il dominio sul Lazio.

Il duello dei tre fratelli romani contro i tre fratelli albani stava volgendo al peggio, poiché i Curiazi avevano ucciso due Orazi. Fu soltanto con la scaltrezza che l’Orazio superstite ottenne la vittoria: fece finta di fuggire e in tal modo separò tra loro i Curiazi, che furono costretti ad affrontarlo singolarmente in duello. Fu così che Orazio riuscì ad uccidere i tre campioni scelti da Alba Longa.

Oriazi e Curiazi

Tornato da trionfatore nella sua città, Orazio fu visto dalla sorella Orazia mentre recava le spoglie dei Curiazi. Tra le spoglie, lei intravide il mantello del suo fidanzato, un Curiazio, mantello che lei stessa gli aveva tessuto. Cominciò a piangere e a disperarsi, provocando l’ira del fratello, in collera perché, anziché felicitarsi con lui per lo scampato pericolo, sua sorella piangeva la morte del fidanzato, un nemico di Roma. Il seguito lo lasciamo alle parole dello storico Tito Livio, che descrive l’ira di Orazio e l’uccisione con la spada della sorella disperata. Queste le parole con cui il guerriero romano accompagna il gesto terribile.

“Abi hinc cum immaturo amore ad sponsum, ” inquit, “oblita fratrum mortuorum vivique, oblita patriae. Sic eat quaecumque Romana lugebit hostem”.

 “Vattene da qui con il tuo immaturo amore dal tuo fidanzato, – disse -, tu che ti sei dimenticata dei fratelli morti e di quello vivo, e tu che ti sei dimenticata della patria. Così muoia qualsiasi romana che piangerà il nemico”.

 Ma il gesto di Orazio non fu senza conseguenze. Portato davanti al re Tullo Ostilio, dovette difendersi dall’ accusa di perduellio, ma il re non volle prendere una decisione: troppa era la gratitudine per un eroe nazionale, per un uomo che aveva salvato Roma. Si appellò alla legge e nominò i duumviri, perché giudicassero Orazio. L’ imputato avrebbe potuto appellarsi contro il loro giudizio, ma, se esso fosse stato confermato, la condanna che gli sarebbe stata comminata sarebbe stata quella dell’ arbor infelix. In età regia e repubblicana il perduellio, ossia il tradimento, era punito con una pena terribile: il condannato era legato ad un albero e lì sottoposto alla fustigazione sia dentro che fuori dal pomerium.

Così afferma Livio in Ab urbe condita, I, 26, descrivendo la lex horrendi carminis:

“caput obnubito, infelici arbori reste suspendito, verberato vel intra pomerium vel extra pomerium

“gli sia coperto il capo, sia sospeso da terra all’ albero infelice e sia frustato dentro il pomerio e fuori da esso”

 La condanna a morte fu emanata dai duumviri, ma Orazio venne salvato dalla provocatio ad populum, cioè dalla verifica popolare. Si alzò a parlare il padre, che difese il figlio: questi, disse, lo aveva solo anticipato nella condanna della figlia, che era stata “iure caesa” (“legittimamente uccisa”). Il padre di Orazio esortò anzi provocatoriamente i littori ad appendere il figlio all’albero infelice e a frustarlo dentro il pomerium, dove giacevano le spoglie e le armi dei Curiazi, e fuori, dove erano abbandonati i corpi degli albani. Il popolo in lacrime prosciolse dall’accusa di perduellio Orazio, anche se il padre dovette pagare un’ ammenda per l’omicidio.

Ma altri storici, come Dionigi di Alicarnasso e Valerio Massimo, affermano che l’accusa mossa ad Orazio non fosse quella di perduellio, ma di parricidium. Esisteva una legge risalente al secondo re di Roma, Numa Pompilio, che recitava: “Chiunque uccida volontariamente una persona di stato libero, “paricidas esto” (trad. sia considerato parricida).

Il problema è, semmai, perché Livio ci racconti che Orazio fu accusato di perduellio. Se tradimento c’è stato, esso, infatti, era stato compiuto da Orazia, che aveva tradito la patria, piangendo il fidanzato nemico. Tuttavia esisteva una legge romana sulla base della quale solo il pater familias o il re nell’esercizio del suo imperium avrebbe potuto uccidere un figlio colpevole di un crimine ai danni della res publica. E Orazio aveva scavalcato entrambi, macchiandosi in entrambi i casi di perduellio.

Un altro episodio, questa volta avvenuto nel 384 a.C., di cui ci parlano le fonti e riferito anch’ esso al reato di perduellio, è quello che ha come protagonista Marco Manlio Capitolino.

Costui aveva difeso eroicamente Roma durante l’occupazione gallica (da qui il  soprannome di Capitolino, anche se, secondo lo storico Mommsen, fu un’invenzione successiva per giustificarlo). Amareggiato per non essere stato eletto tra i tribuni consolari nel 385, e ritenendo di non essere abbastanza riverito da tutti, cominciò ad appoggiare la plebe nelle sue rivendicazioni. Fece liberare, ad esempio, un centurione che stava per essere condannato per debiti appellandosi al popolo (anche qui ritorna lo strumento della provocatio). Ecco ancora la voce di Tito Livio che ce lo racconta:

«Allora non è proprio servito a nulla per me aver salvato la rocca e il Campidoglio con questa destra, se adesso devo vedere un mio concittadino e commilitone messo in catene e ridotto in schiavitù come se fosse prigioniero dei Galli vincitori!». Poi pagò davanti a tutti la somma dovuta al creditore, restituì la libertà al commilitone riscattato, il quale implorava gli dèi e gli uomini affinché ringraziassero Marco Manlio, suo liberatore e padre della plebe romana.»

Incorse, però, in un errore assai grave quando cercò di aizzare la plebe contro il patriziato, nel tentativo di restaurare la monarchia. Fu condannato per perduellio. Ma qui le fonti si dividono: mentre Livio ci dice che Marco Manlio Capitolino venne precipitato dalla rupe Tarpea (e saxo), Aulio Gellio (citando Nepote) parla di fustigazione a morte. Dopo la sua morte, i suoi beni vennero confiscati e la casa distrutta. La gens Manlia, cui apparteneva, stabilì che nessun discendente potesse più prendere il praenomen Marcus.

Un altro elemento da analizzare è il significato dell’ espressione arbor infelix. “Albero infelice” era l’albero selvatico e non seminato (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XVI, 45, 108), che non dava frutti o che li dava, ma non commestibili, come le bacche.

Dice Festo nel suo “De verborum significatione”, l. VI: «Felices arbores Cato dixit quae fructum ferunt, infelices quae non ferunt» (Trad. Catone disse che sono felici gli alberi che portano frutti, infelici quelli che non li portano).

Macrobio, scrittore romano del V secolo, va pure oltre, specificando che infelice è l’albero protetto dagli dei inferi, come agrifoglio, fico nero, oleastro, pungitopo (Saturnalia, III,20, 2). Altri sono, invece, felici e di questi Macrobio ci fornisce un elenco dettagliato.

Sciendum quod ficus alba ex felicibus sit arboribus, contra nigra ex infelicibus. Docent nos utrumque pontifices. Ait enim Veranius de verbis pontificalibus: “Felices arbores putantur esse quercus, aesculus, ilex, suberies, fagus, corylus, sorbus, ficus alba, pirus malus, vitis, prunus, cornus, lotus”.

“Si sappia che il fico bianco è tra gli alberi felici, mentre invece il nero tra gli infelici. Ce lo hanno insegnato entrambi i pontefici. Disse infatti Veranio sulle parole dei pontefici: “Sono ritenuti alberi felici: la quercia, l’ippocastano, l’aquifoglio, le querce da sughero, il faggio, il nocciolo, il sorbo, il fico chiaro, il melo, la vite, il pruno, il corniolo, il loto”.

Ad essi si aggiungono gli alberi che diventano infelices perché vi si è impiccato qualcuno o perché si trovano, magari, in un terreno dove qualcuno è morto violentemente. Tuttavia la legge era chiara: l’arbor infelix doveva essere tale di natura, non diventarlo per circostanze esterne. E il condannato doveva esservi appeso col capo coperto, come una vittima sacrificale, poiché offerto in sacrificio agli dei inferi.

Alcuni antropologi, anche moderni, ritengono che la pena capitale relativa all’ arbor infelix fosse l’impiccagione, ma tanti sono i riferimenti testuali che non portano a tale conclusione: essere “sospesi” all’ albero non vuol dire essere impiccati ad esso, ma essere sollevati da terra, col capo rivolto in giù. Lo indicano testimonianze poetiche e prosastiche, come la poesia “Cupido cruciatus” di Ausonio, in cui il dio dell’ Amore viene legato e sospeso all’ arbor infelix per volontà di alcune sue vittime (Saffo, Fedra, Arianna) e poi viene da esse liberato perché avevano compreso di essere state vittime del Fato e non di Amore. Così Ausonio:

Huius in excelso suspensum stipite Amorem
devinctum post terga manus substrictaque plantis
vincula maerentem nullo moderamine poenae
affìciunt. Reus est sine crimine, iudice nullo
accusatur Amor.

Cicerone ci ha parlato nella II Verrina di un tale Ninfodoro a cui il questore Gaio Verre aveva richiesto una decima addirittura superiore al totale del raccolto. Non potendola quello pagare, Apronio, il capo dei decumani, si impadronì di terre, schiavi e attrezzi agricoli di Ninfodoro e, quando il proprietario terriero gliene chiese la restituzione, lo fece sospendere a lungo ad un oleastro (arbor infelix). Ninfodoro, dunque, non venne impiccato.

Lo stesso Cicerone, nell’ orazione “Pro Rabirio reo perduellionis” cita la formula relativa alla sospensione all’ albero infelice (“caput obnubito, arbori infelici suspendito”), la fa risalire all’ età regia e la definisce degna della crudeltà di Tarquinio il Superbo, cui, dunque, attribuisce la pena.

Cicerone

Il passo ciceroniano, però, appare alquanto controverso: nell’ orazione, infatti, l’ Arpinate ci informa che l’ imputato di cui ha assunto la difesa, Gaio Rabirio, senatore di Roma, è stato accusato da Tito Labieno, il futuro luogotenente di Cesare nella spedizione gallica, di aver ucciso 37 anni prima il tribuno della plebe Lucio Apuleio Saturnino durante i torbidi avvenuti nel 100 a.C.. Rabirio, condannato a morte, si era appellato al popolo ed era stato salvato da Metello Celere, che sciolse con un pretesto il comizio. Quanto all’ accusatore del vecchio Rabirio, sappiamo che una delle vittime dei disordini del 100 a.C. fu lo zio di Labieno.

In campo Marzio, nel frattempo, era stata eretta una croce, simulacro dell’ albero infelice, per legarvi e fustigarvi Rabirio, quando fosse stato condannato.

I duumviri prescelti erano chiaramente dalla parte dell’ accusatore: Giulio Cesare e suo cugino, Lucio Cesare. Insomma, sembrava che non ci fossero possibilità di salvezza per il senatore, che, tra l’altro, si era detto non estraneo alla morte di Saturnino.

Il processo fu articolato in tre fasi: il giudizio duumvirale, riesumato per quella circostanza, la provocatio ad populum e il giudizio di secondo grado davanti ai comizi popolari. Si tratta delle stesse tre fasi che è possibile individuare nella narrazione liviana relativa ad Orazio e ciò porterebbe a concludere che la provocatio fosse parte integrante del processo per perduellio. In realtà, Labieno ad un certo punto accusa palesemente Cicerone di aver sovvertito la struttura del procedimento, aggiungendo la provocatio che non era prevista. La condanna a morte, infatti, era già stata emessa dai duumviri e, per questo, era inappellabile.

Tito Labieno

Il processo di perduellio, infatti, a leggere le parole di Labieno, non contempla per l’ imputato la possibilità di difendersi e di discolparsi. Lo conferma anche Cicerone, affermando che il processo per perduellio è “indicta causa”, cioè non gode delle garanzie del procedimento ordinario. E dichiara, con uno straordinario colpo da maestro del Foro, che l’ aggiunta della provocatio ai comitia  è stata da lui fermamente voluta per costringere i suoi avversari a rispettare la libertà del popolo romano, che aveva cancellato la barbarie di età monarchica, istituendo la res publica. Insomma, l’Arpinate, non rispettando il processo sommario di età monarchica, aveva solo sottolineato la superiorità morale e culturale dell’ età repubblicana su quella regia.

Non si comprende il senso dell’ accusa di Labieno se non si riflette su quanto afferma Livio.

Nel passo relativo alla condanna di Orazio, lo storico patavino afferma che il guerriero romano poté appellarsi al popolo “auctore Tullo, clemente legis interprete”.  Il passaggio fa riflettere su un intervento da parte del re atto a salvare Orazio e non previsto dalla legge, tanto che si parla di “clemenza” del re. Perché sottolineare la clemenza del re se di fatto la provocatio faceva parte del procedimento? Appare evidente che il processo non contemplava un ruolo del popolo e che la possibile spiegazione di quella che appare una incongruità procedurale sia da ricercare nelle fonti liviane, tra cui spiccano gli annalisti. Questi ultimi, verosimilmente, avevano cercato di far risalire il procedimento già all’ epoca monarchica nella sua forma attuale (quella repubblicana), per dare maggiore forza alla procedura. Tullo Ostilio diventa così un “clemente interprete della legge”, che “modella” a sua discrezione.

In un passo di straordinaria forza retorica, poi, il grande oratore afferma che il supplizio dell’ “albero infelice” è peggiore di qualsiasi morte pubblica, di qualsiasi esilio o confisca dei beni, perché priva il condannato anche della minima parvenza di libertà. Il suo capo, infatti, viene velato e viene legato alla “croce” da un carnefice; auspica che la velatura del capo, il carnefice e “nomen ipsum crucis” (trad. lo stesso nome di croce) rimangano lontani dai corpi, dai pensieri e dalle orecchie dei cittadini romani. Proprio il riferimento alla “croce” spinse il grammatico Nonio, in una sua glossa, a commentare e a chiarire l’espressione ciceroniana, soffermandosi a spiegarne il significato: suspensum dicitur alte ligatum (si dice “sospeso” colui che è legato in alto), ma non facendo alcuna allusione all’ idea di crocifissione. Va, però, specificato che la crocifissione non era pena prevista per l’ uomo libero e ciò fornisce ulteriori dubbi all’interpretazione dell’ orazione, peraltro arrivataci mutila.

In testimonianze successive, di età imperiale, si può evincere che il ricordo della pena si è cancellato, tanto che persino un imperatore crudele come Nerone dovette chiedere spiegazioni al senato che lo aveva condannato ad un supplicium more maiorum. Svetonio nella sua De vita Caesarum ci descrive con precisione la pena: la vittima, dopo essere stata denudata, veniva legata ad un albero biforcuto con la testa inserita precisamente nella biforcazione e lì frustata a morte. Svetonio non utilizza l’espressione lex horrendi carminis, ma dalla sua descrizione sembra che la pena possa ricollegarsi alla vecchia legge di età regia, secondo Cicerone di origine tarquinia, secondo Livio di origine ostilia. Dai significativi rituali e misteriosi associati all’ arbor infelix sembra di arguire, tuttavia, che l’origine sia etrusca, il che confermerebbe il riferimento ciceroniano: è possibile dedurlo dal fatto che Macrobio specifichi che la divisione tra alberi felici e alberi infelici è etrusca e ci indichi Tarquinio Prisco come autore di un’opera, “Ostentarium”, relativa alle proprietà degli alberi. La studiosa Eva Cantarella osserva peraltro che l’assenza dall’ elenco di Macrobio, mutuato da quello di Tarquinio, di specie come il ciliegio coltivato, il melograno, la mela cotogna o l’olivo, che furono introdotti nell’agricoltura romana in piena età repubblicana, appaia assai significativa.

Oleastro

Questo conferma l’origine regia e in special modo etrusca della pena dell’ arbor infelix, cui rimanda anche la velatura del capo, tipico gesto di consacrazione della vittima agli dei. Ricordiamo, infatti, che chi stava per morire si copriva il capo con un velo o con un lembo della tunica (un esempio famoso è quello di Cesare sul punto di morire).

Resta da analizzare brevemente la seconda parte della lex horrendi carminis e cioè quella in cui la legge recita: “venga legato con una corda all’albero infelice, venga fustigato sia dentro il pomerio che fuori dal pomerio”. Appare evidente che la fustigazione non è una pena accessoria, ma che sia il perno della pena stessa. Dopo essere stato legato con una corda all’ albero infelice, infatti, il condannato veniva fustigato a sangue fino alla morte.

Quanto alla definizione del pomerio, si ricorda che esso era una linea sacra, verosimilmente di ascendenza etrusca e tracciata all’ atto della fondazione della città, che separava la zona religiosa destinata all’ abitato dalla parte esterna, il cosiddetto ager publicus. Il pomerium venne tracciato per la prima volta da Romolo e solo in seguito allargato sotto l’imperatore Claudio, fino a comprendere l’ Aventino, prima escluso da esso perché Remo vi aveva scorto dei prodigi infausti (Aulo Gellio).

Appare di tutta evidenza che anche questo elemento alluda ad una radice tarquinia della pena e, comunque, sicuramente successiva all’ allargamento delle mura da parte di Servio Tullio, sesto re di Roma. Un altro riferimento al settimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, che conferma l’idea ciceroniana.

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Annamaria Zizza

Mi sono abilitata in Italiano e Latino e in Storia dell’Arte, sono passata di ruolo per l’insegnamento dell’Italiano e del latino nei Licei nell’anno 2000/2001.

Sono attualmente in servizio dal 2007/2008 al Liceo Classico “Gulli e Pennisi” di Acireale CT, dove ricopro il ruolo di docente a tempo indeterminato nel triennio del corso C.

Ho frequentato con esito positivo i seguenti corsi di aggiornamento/formazione:

– Didattica della lingua italiana;

– Tecnologie informatiche applicato al PNI e al Brocca;

– Valutazione scolastica;

– Valutazione e programmazione scolastica;

– Sicurezza nelle scuole;

– Didattica della letteratura italiana;

– Didattica della letteratura latina;

– rogramma di sviluppo delle tecnologie didattiche;

– Didattica breve nell’insegnamento del latino;

– Comunicazione

– Per una didattica della lettura e della narrazione;

– Autori, collane, libri, progetti editoriali: valorizzare la scuola attraverso la lettura;

– La dislessia

Ho tenuto in qualità di esperto due corsi PON sulle abilità di base per l’Italiano e uno sui connotati profetici nella Comedìa dantesca; ho svolto il ruolo di tutor in altri corsi PON ministeriali.

Sono stata per tre anni funzione strumentale nell’area “Supporto ai docenti”, direttrice di laboratorio multimediale, catalogatrice Dewey nella biblioteca scolastica, bibliotecaria, RSU, coordinatrice e segretaria di Consiglio di classe con frequenza annuale. Ho elaborato e tenuto il percorso di ricerca-azione “Sopravvivere alla vita: istruzioni per l’uso” nell’ambito della DLC.

Ho partecipato a svariate iniziative culturali come relatrice: dalla tavola rotonda organizzata dal Comune di Acireale sul saggio della prof.ssa Ferraloro inerente il romanzo di Tomasi di Lampedusa “Il gattopardo”, a conferenze di argomento letterario presso scuole, al progetto “Dante nelle chiese di Acireale”, organizzato dal vescovado (con relativa Lectura Dantis), al festival Naxoslegge con un’altra lectura Dantis e a presentazioni di libri.

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