“L’importante non è vincere, ma partecipare!” E’ con queste parole, con questa visione purista ispirata dai sacri giochi ellenici, che nel 1896 il barone francese Pierre De Coubertain inaugurava ad Atene i Giochi Olimpici dell’era moderna, parole ricche di significato, grandi principi e valore sportivo. Ma primeggiare sugli altri è stato sin dall’antichità un impulso che l’uomo d’ogni tempo non ha mai saputo contrastare. Ed è così che questa brama di successo, la determinazione a conquistare ad ogni costo il gradino più alto del podio, già nei tempi antichi ha portato all’esasperazione ciò che da sempre avrebbe dovuto essere espressione di gioia, soddisfazione e soprattutto divertimento. Ci sono atleti, allenatori e dirigenti disposti a tutto pur di vincere. Atleti che si autodistruggono, si ammalano, restano vittime di infortuni spesso irreversibili perché il loro corpo non ha retto allo stress a cui è stato sottoposto, o muoiono in circostanze sospette. Medici compiacenti che contribuiscono con le loro conoscenze al miglioramento della prestazione agonistica, allenatori che chiedono sempre di più ai propri atleti e dirigenti corrotti, pronti a infrangere qualsiasi regola, pur di vedere i propri colori primeggiare sugli altri. Per fortuna non sempre è così, non sempre è tutto così esasperato, ma questo è il lato oscuro che offusca il mondo dello sport. Dello sport dei giorni d’oggi? Sì, ma non solo. Sembra incredibile, ma ora stiamo parlando dello sport di 3000 anni fa.
Abbiamo testimonianza delle prime forme di sport dilettantistico da tempi davvero molto remoti, quando le attività sportive erano già tessuto integrante della società e rappresentavano un momento di gioco e divertente confronto sia nei momenti di vita quotidiana che in occasione di manifestazioni legate alla sfera religiosa. Con il passare del tempo lo spirito della vittoria ha fatto sì che questo aspetto dilettantistico assumesse sempre più caratteri professionistici, diventando una realtà sociale forte e spesso predominante. Nell’antica Grecia, ma più o meno in tutte le civiltà, i vincitori dei vari concorsi erano considerati dei veri e propri eroi, godevano di fama, erano acclamati e beneficiavano di particolari attenzioni e favoritismi. Non erano ancora stati stabiliti premi in denaro o beni materiali, ma il godere di questa gloria indusse gli antichi atleti a trovare il modo di migliorare le proprie prestazioni. È così che, si narra, per aumentare la loro aggressività e prestazione fisica gli atleti iniziarono ad assumere una sostanza simile all’ambrosia. Nasce quindi una prima forma di “doping”, termine che noi oggi, purtroppo, conosciamo molto bene e usiamo quando vengono assunte dagli atleti particolari sostanze o medicinali con l’intento di incrementare il rendimento fisico. Quella del doping è una piaga che ha afflitto sin dall’antichità i popoli che facevano dell’agone sportivo un evento di grande importanza. Non c’erano siringhe, anabolizzanti o steroidi, ma non dobbiamo neppure immaginare i pentoloni fumanti con le pozioni magiche che Panoramix preparava per le esilaranti avventure di Asterix e Obelix. Sì, è vero che a quei tempi religione, magia e medicina erano ancora saldamente unite tra loro – secondo quanto ci racconta Esiodo nella sua “Teogonia” a concedere agli atleti la vittoria era Ecate, la dea della magia e degli incantesimi, e non era quindi ritenuto sconveniente o scorretto assumere sostanze in grado di alterare le prestazioni fisiche degli atleti se questi potevano affermare di aver seguito un consiglio ricevuto in sogno da una divinità – ma dietro a questo mondo “dopante” c’era una schiera di esperti ben consapevoli degli effetti prodotti da determinate sostanze.
Ho appena accennato che se fosse stato un dio a “suggerire” l’assunzione di sostanze performanti non si sarebbe infranta nessuna regola, già, perché altrimenti le scorrettezze erano severamente punite con l’immediata squalifica dai vari concorsi. Il primo della storia a darcene notizia è proprio Omero, quando ancora non si svolgevano i Giochi Olimpici, ma le gare di atletica rappresentavano già un forte collante nella società. Omero ci racconta dei giochi che furono organizzati da Achille durante i funerali del suo amato Patroclo: nella corsa con i carri Antiloco era arrivato secondo, dopo aver superato Menelao in una strettoia grazie ad una manovra con cui spinse i cavalli contro il re di Sparta; quest’ultimo fu costretto a cedere il passo, ma questo “giochino” costò ad Antiloco il secondo premio.
Con il passare del tempo si ricorse sempre più ad espedienti che potevano assicurare la vittoria, perché, come detto, vincere aveva un valore sportivo e sociale. Lontanissimi dalle idee puriste di Coubertain, per gli antichi greci l’importante non era partecipare, ma vincere. A tutti i costi! A tal proposito Pindaro ci racconta che gli sconfitti tornavano a casa passando “per obliqui sentieri nascosti”. Superfluo dire, quindi, che era indispensabile trovare degli escamotage per primeggiare.
Per arginare questo problema, con le Olimpiadi nacque anche il giuramento olimpico, in vigore già dalla prima edizione del 776 a.C., a cui dovevano sottostare atleti e allenatori. Era esplicitamente vietato l’uso di qualsiasi sostanza che poteva modificare le prestazioni atletiche in gara, pena l’immediata espulsione e nei casi più eclatanti, come la detenzione di semi di sesamo con i quali preparare unguenti (pratica che sembra fosse all’ordine del giorno benché vietata), venivano inflitte anche punizioni corporali. Nonostante questo, vincere era così importante che valeva la pena rischiare e si iniziarono a sperimentare pratiche sempre più efficaci con l’intento di favorire gli atleti in gara. Già dalla prima edizione gli atleti assumevano infusi a base di erbe e durante i Giochi Olimpici del 668 a.C. si faceva uso di infusi a base di funghi allucinogeni, ritenuti eccitanti.
I primi partecipanti alle competizioni olimpiche erano i rappresentanti dell’aristocrazia delle varie città, ma da quando all’ambita corona d’alloro, o ulivo, fu affiancato un premio in danaro (Plutarco racconta che questa usanza nacque con Solone che stabilì un premio di 500 dracme per ciascuna vittoria) le cose subirono un drastico cambiamento. I vantaggi legati alla vittoria aumentarono notevolmente e al premio in danaro si aggiunsero l’esenzione dalle imposte e pasti forniti a vita. La vittoria, inoltre, non dava lustro solo all’atleta, ma anche alla città di provenienza, e fu così, dunque, che anche le polis iniziarono ad ingaggiare atleti, allenatori e “preparatori” che dovevano esclusivamente dedicarsi alle competizioni sportive. Nasce il professionismo. E con esso le scorrettezze, nonché la “tifoseria da stadio”, aumentano a dismisura. Nel V secolo, Astilo di Crotone partecipò a tre Olimpiadi consecutive e conseguì ben tre vittorie: nella prima competizione gareggiò per la sua città, nelle altre due per Siracusa. I suoi concittadini disdegnarono talmente questo cambio di fazione che la sua casa venne trasformata in una prigione. Nel 388 a.C. compare la corruzione: Eupolo di Tessaglia comprò tre avversari alla boxe. Callippo, durante la 112^ Olimpiade, fece lo stesso, mentre Pausania racconta una mezza dozzina di casi analoghi…
Man mano le pratiche per assicurarsi l’alloro si raffinarono sempre più, finché non emerse nel IV-V secolo a.C. la figura dello specialista di diete sportive. Lui rendeva performanti i suoi atleti non solo miscelando erbe e utilizzando stimolanti e allucinogeni, ma faceva seguire una particolare alimentazione. Se Ippocrate suggeriva di bruciare funghi secchi sul fianco sinistro, immaginando di aumentare la reattività, Galeno (discepolo di Ippocrate) faceva assumere erbe ergogene, funghi e testicoli di toro (forse la prima testimonianza di uso di ormoni di origine animale, antenati degli ormoni testosteroidei). Chi se lo poteva permettere economicamente si rivolgeva a un dietologo, il quale consigliava un’alimentazione differenziata mirata che si avvicinava parecchio come idea alla nostra realtà.
C’era chi un mese prima di ogni competizione veniva sottoposto ad una rigorosissima dieta a base di latticini, chi capì che lo smisurato consumo di carne, soprattutto di maiale, faceva sviluppare notevolmente la massa muscolare. La carne diventa quindi l’alimento base di “diete forzate” che trasformano i campioni in mangioni obesi più che in agili atleti. I nostri “eroi” dovevo ingerire per 3-4 volte al giorno grandi quantità di carne di bue, agnello, capra, maiale e cacciagione, una varietà di cibo che nelle tavole delle persone comuni era un lusso trovare in occasione delle grandi feste. Dopo queste immense abbuffate gli atleti avevano bisogno di purificarsi e per questo scopo, terminate le competizioni, erano obbligati
a recarsi al tempio. Sappiamo che, ad esempio, Milone da Crotone, vincitore di 6 olimpiadi consecutive tra il 540 e il 512 a.C., per aumentare la sua resistenza allo sforzo fisico si allenava portando in spalla la carcassa di un vitellino; finito l’allenamento se lo mangiava. Sembra che assumesse fino a 10 kg di carne al giorno accompagnata rigorosamente da massicce dosi di vino e idromele. E la cura funzionava, funzionava eccome, gli atleti sottoposti a queste diete forzate vincevano. Solo che poi, con il tempo, si ammalavano e alcuni di essi morivano prematuramente. Ippocrate fu il primo a notare questo effetto collaterale e ricostruisce quella che era la dieta di Biante, uno dei campioni più acclamati di allora. La sua dieta consisteva in massicce quantità di formaggi, carne di maiale poco cotta, meloni, frutta e uova accompagnate da dosi enormi di vino e latte. Galeno (ricordiamo essere suo discepolo) continuò a studiare questa associazione dieta/morte definendo gli atleti “maiali all’ingrasso” e “uomini di poco cervello destinati a morire presto”, infatti giunse alla conclusione che “l’atleta per diventare forte non può vivere al lungo”.
I campioni di allora, come quelli di oggi, erano manipolati dagli allenatori e dai medici, uomini ingordi di fama e danaro che costruivano le proprie fortune sui trionfi dei loro atleti. Gli atleti, dal canto loro, ignari delle conseguenze, subivano contenti queste particolari attenzioni che potevano essere viste anche come una sorta di rito iniziatico: c’era la gloria in palio! Ma c’era pure chi provava a ribellarsi (quelli più accorti e attenti alla fine dei suoi avversari), ma venivano immediatamente riportati “sulla retta via” con legnate e frustate che venivano inflitte loro dai propri allenatori. Ci sono giunte anche di queste esortazioni: “Vuoi vincere le Olimpiadi? Prima esamina le premesse e le conseguenze, e poi passa all’azione. Devi disciplinare la tua vita, sottoporti a dieta, astenerti dai dolci, importi gli allenamenti, alle ore prestabilite, al caldo, al freddo; non devi bere acqua fredda, non devi bere vino senza una regola, in una parola devi esserti consegnato all’allenatore come a un medico; e poi, in gara, dovrai affondare nella sabbia, qualche volta ti slogherai un polso, ti storcerai una caviglia, ingoierai tanta polvere, qualche volta sarai fustigato e poi, con tutto ciò, sarai anche sconfitto. Riflettici, e poi dedicati all’atletica, se ne hai ancora l’intenzione. Altrimenti ti comporterai come i ragazzini, che ora giocano ai lottatori, ora ai gladiatori, ora suonano la tromba, poi fanno gli attori tragici; così anche tu adesso fai l’atleta, poi il gladiatore, poi il retore, poi il filosofo, ma con tutta l’anima non sei nulla: come una scimmia imiti tutto quello che vedi e sei attratto da cose sempre diverse. Perché alle cose arrivi senza rifletterci, a caso, assecondando un vano desiderio.” (Arriano, Manuale di Epitteto, 120 d.C.)
Come avrete capito, il “doping” in Grecia era una cosa seria, voluta, cercata, programmata e affidata a uomini che sapevano il fatto loro e che avevano grandi conoscenze. Erano coinvolte le menti più brillanti della polis, una gara, anche la loro, quella di spostare il limite sempre più avanti. Pensate che tra essi appare anche Pitagora, una tra le menti più appassionate coinvolte nella ricerca di quegli “aiuti” tanto ambiti.
Se ci spostiamo nell’antica Roma, Galeno (130-200 d.C.) ci elenca tutte le sostanze che assumevano gli atleti romani per ottenere prestazioni extra.
In epoca romana siamo di fronte ad un’evoluzione del problema… animali e uomini erano considerati alla stessa stregua durante gli spettacoli, e il divertimento (degli spettatori) era al primo posto. Plinio il Vecchio ci racconta di come i cavalli da corsa venissero “dopati” per rendere più avvincenti le competizioni e di come anche i gladiatori usassero sostanze per aumentare la loro aggressività. Quest’ultimi erano anche soliti bere nei tre giorni antecedenti la gara un bollito di asperella, o, come rito propiziatorio, bere un intruglio a base di sabbia intrisa di sudore e sangue degli avversari vinti, una mistura raccolta a terra dopo il combattimento.
In tutto questo scenario allucinante c’è pure chi un vantaggio se l’è procurato, invece, involontariamente. Pausania racconta che nella 15^ Olimpiade, nel 720 a.C., durante la gara di corsa a Orsippo di Megara si aprì la tunica, così, più libero nei movimenti, riuscì ad avere la meglio sui suoi avversari e vinse la competizione. Nell’edizione successiva dei giochi tutti i concorrenti si presentarono nudi.
Con l’avvento del cristianesimo i giochi antichi vennero aboliti e banditi dall’imperatore Teodosio in quanto considerati pagani, con l’era cristiana si perde il senso della competizione a favore della riscoperta del misticismo. Durante il Rinascimento erano diffusi i giochi di corte e i tornei, unici momenti in cui si respirava un po’ l’aria della competizione sportiva, ma erano per lo più attività legate alle sagre e ai riti propiziatori legati ai raccolti. Lo sport per molti secoli perse dunque il suo valore e il suo fascino e con esso si persero anche le tracce del “doping”. Per ritrovarle bisogna guardare ai primi anni nel Novecento…
Si, sembra che abbiamo raccontato fatti di cronaca sportiva della nostra epoca, invece i protagonisti sono atleti di tremila anni fa.
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