La ricca programmazione di mostre temporanee del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria continua a stupirci!
Tanti sono gli oggetti noti e non, molti esposti per la prima volta, che vengono scelti per raccontare storie nuove e affascinanti, avvicinando il grande pubblico al suggestivo mondo dell’antichità.
Tre le mostre che attualmente il Museo offre ai suoi visitatori, senza alcun biglietto aggiuntivo. La prima, dedicata a Tanino de Santis. Una vita per la Magna Grecia, presenta circa 300 oggetti della collezione de Santis, recentemente acquisita dal Museo e interamente restaurata.
Ad accogliere i visitatori, in Piazza Paolo Orsi, ci sono l’esposizione La Fiamma che unisce. Le Fiaccole Olimpiche da Berlino 1936 a Rio De Janeiro 2016 curata dal direttore del MArRC Carmelo Malacrino e dal presidente del CONI Calabria Maurizio Condipodero, e Fiat Lux. L’illuminazione tra antichità e medioevo, curata dal direttore Malacrino.
Quante volte ci sarà capitato di pensare come nell’antichità venisse fatta luce nelle ore più buie, quando dopo il calar del sole l’illuminazione era necessaria per il normale svolgimento delle varie attività.
Le fonti letterarie e archeologiche testimoniano tre diversi modi per creare luce: con una fiaccola (in latino facula), realizzata con un bastone di legno alla cui estremità era avvolta paglia o stoppa imbevuta di combustibile; con una candela, modellata con sego (grasso di bovini, equini o ovini) e cera d’api intorno allo stoppino; con la lucerna (lychnos in greco, lucerna in latino), che era costituita da tre parti, quali il corpo, il beccuccio e l’ansa, di diverse forme, più o meno decorate.
Quella delle lucerne è una lunga storia. Sono state usate per la prima volta nel II millennio a.C., nel mondo minoico e miceneo, per poi ricomparire nel VII secolo a.C., grazie soprattutto alla grande quantità di olio necessario per il loro funzionamento. Nel mondo etrusco e italico invece la produzione di lucerne si affermò solo nel III secolo a.C.; fino ad allora l’abbondanza di legname aveva portato l’uomo a preferire l’uso delle fiaccole.
Il percorso espositivo mostra come nel mondo greco le lucerne, inizialmente modellate a mano e solo dal VI secolo a.C. realizzate con l’ausilio del tornio, fossero di due tipi: le lucerne aperte, anche dette a coppa, e le lucerne a corpo chiuso. Le prime erano prive di decorazioni. Solo la vasca, che conteneva l’olio o il sego, presto iniziò ad essere rivestita con una vernice impermeabilizzante. Con il passare del tempo la tipologia subì una modifica: la vasca venne coperta con un disco, che presentava un piccolo foro (detto infundibulum) per versarvi l’olio.
Passando da una vetrina all’altra si scoprono altre curiosità. In base al numero dei beccucci, le lucerne potevano essere monolychne (se possedevano solo un beccuccio), o polilychne (se possedevano da due a più beccucci). Poi c’erano le lucerne ad anello, con beccucci disposti tutt’intorno. Il materiale più usato era l’argilla, che si prestava facilmente alla modellazione. Tuttavia per creare le lucerne più preziose furono usati anche altri materiali, come il marmo, l’oro ed il bronzo. L’accensione poi avveniva tramite gli stoppini (allychnia), che venivano realizzati con il tasso barbasso, una pianta erbacea ricoperta di peluria appartenente alla famiglia delle Scrofulariaceae.
In età romana, tra la tarda Repubblica e la prima età imperiale, si diffuse una nuova tipologia di lucerna, detta “a disco” piatto, che permise ai ceramisti di utilizzare un vasto repertorio decorativo che spaziava dall’ambito religioso all’ambito erotico. Cambiò anche la tecnica di realizzazione grazie all’introduzione delle matrici. Il disco superiore decorato e la base inferiore venivano realizzate separatamente ed accorpate in un secondo momento. Nella base inferiore, a partire dal I secolo a.C., iniziò a venire impresso il bollo figulino ovvero il marchio di fabbrica che etichettava l’oggetto. Mentre i Greci per lo stoppino usarono il tasso barbasso, i Romani preferirono usare stoppa e filamenti di ricino e papiro.
Il catalogo della mostra, edito dal MArRC insieme a Kore s.r.l., offre vari spunti di approfondimento. Ad esempio, scopriamo che, oltre alle lucerne, in epoca romana si faceva uso anche di piccoli oggetti, molto simili per funzione alle nostre tavolette accendifuoco, i sulphurata. Si trattava di piccoli pezzi di legno o sughero che venivano intrisi di zolfo, estratto e raffinato in Sicilia nella zona dell’Agrigentino da schiavi e condannati. Questi erano facilmente riconoscibili per via del pallore del viso, causato dal contatto con lo zolfo ed i suoi derivati. Dei sulphurata faceva largo uso la mater familias, la quale aveva il compito di mantenere acceso il fuoco sacro dell’abitazione, di ravvivarlo e di portarlo di stanza in stanza.
L’esposizione, poi, illustra la storia dell’illuminazione nel passaggio al medioevo. La cultura materiale dell’Italia meridionale e della Sicilia si stratificò nel susseguirsi delle diverse popolazioni (Bizantini, Arabi, Normanni e Svevi), che portarono con loro usanze e tradizioni. La produzione delle lucerne ne fu influenzata e le differenti forme e decorazioni ne sono l’esempio. Tipiche produzioni bizantine furono le lucerne di tipo “siciliano” e “a ciabatta” dalla forma ovoidale; in età islamica tarda vennero introdotte le lucerne a becco allungato; tra il finire del XI e gli inizi del XII secolo a.C. si diffusero le lucerne a vasca aperta con tre lobi.
Ne possiamo dedurre che il sistema di illuminazione rimase comunque invariato: continuarono ad essere usate tanto le lucerne quanto le torce, di gran lunga predilette dalla popolazione.
Ma parliamo ora delle decorazioni delle lucerne, che rappresentano uno degli aspetti più interessanti dell’esposizione. Inizialmente le lucerne furono acrome, ma già nel V secolo a.C. iniziarono ad essere dipinte con semplici linee e fasce. Solo in età ellenistica le decorazioni acquisirono rilevanza, con un repertorio che prediligeva soggetti legati al mondo animale e vegetale. In età romana i ceramisti diedero sfogo alla loro inventiva, usando differenti temi decorativi: da quelli religiosi, che spaziavano dalle divinità agli oggetti legati culto ed alle immagini dei rituali, a quelli pubblici, che variavano tra momenti di lotta fra gladiatori, corse di carri, scene di quotidianità e immagini erotiche. Dal II e III secolo d.C. l’attenzione alla decorazione andò scemando e i repertori furono sempre più semplici e ricorrenti.
Fu con l’avvento del cristianesimo e la realizzazione delle cosiddette lucerne “africane” che vi fu il passaggio ad un nuovo repertorio decorativo, ricco di significati. Comparirono oltre alla croce ed al monogramma formato dalle lettere greche X e P (Chrismon) inziali di Christos, anche simboli come la palma, la vite, la conchiglia, i rami di ulivo, la fenice, il gallo, la colomba, l’aquila, il pavone, il leone. Anche il pesce costituì un tema iconografico, visto il cui nome in greco era ichtys, acronimo di Iesous Christos Theou Yios Soter (Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore). Scopriamo, così, che durante i primi riti religiosi, che si svolgevano di notte in luoghi nascosti, veniva usata una lucerna, in quanto metafora delle luce salvifica portatrice di fede. Anche l’ebraismo usò un proprio repertorio ricco di simboli, come la famosa menorah, il candelabro a sette bracci.
Tante sono le lucerne che vi troverete di fronte giunti nello spazio di Piazza Paolo Orsi al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Oltre 70 reperti esposti, la maggior parte delle quali provenienti da Reggio Calabria, da sempre crocevia di commerci e culture, le cui maestranze locali hanno rielaborato e fatto proprie le innovazioni giunte da terre lontane.
Non resta altro che andare al MArRC ed immergersi in epoche lontane, immaginando di essere fra i vicoli buoi al ritorno da un luculliano banchetto o di prendere parte ai riti misterici, sempre accompagnati dalle vostre lucerne!