Alla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico 2022 si parla di ricerca e territorio. Un binomio che oggi non può più essere scisso poiché l’archeologia inevitabilmente interessa il territorio al quale appartiene. Se fino a qualche tempo fa territorio e ricerca archeologica vivevano due realtà quasi separate, oggi ciò non è più pensabile: l’archeologia modifica il paesaggio nel quale fa ricerca e, allo stesso tempo, questo diventa il luogo che restituisce alla comunità il suo passato.

Questo il tema dell’incontro Oltre i grandi attrattori: esperienze di marketing territoriale dalla ricerca archeologica universitaria campana tenutosi venerdì 28 ottobre nella Sala Velia. Moderato da Giuseppina Renda, l’intervento espone le diverse esperienze degli atenei di Salerno, Caserta e Napoli sul territorio campano, con riferimento in modo particolare a realtà che non siano i “grandi attrattori” come Cuma, Pompei, Ercolano, Paestum ed Elea/Velia. Il centro del tema resta la ricerca archeologica, una ricerca che dev’essere fatta con coscienza e serietà dagli atenei campani che lavorano sul territorio; ciò che invece deve modificarsi è la comunicazione con il territorio e con le sue comunità. Un’archeologia partecipata, così la definisce Luca Cerchiai, che crei formazione e conoscenza tramite figure esperte che si pongono come intermediarie sul territorio in modo da realizzare, tramite progetti, sviluppo sociale ed economico. E dello stesso avviso è anche Carlo Rescigno, che insiste sulla necessità di un dialogo con le nuove tecnologie. Riflettere dunque su un nuovo modo di intendere la documentazione archeologica, la sua registrazione, l’interpretazione dei dati e, soprattutto, la loro trasmissione ai non addetti ai lavori tramite uno spazio condiviso. Il dialogo dev’essere, però, in concerto con gli enti territoriali, quali soprintendenze, parchi archeologici e musei, in modo da creare un’osmosi tra ricerca e territorio.

Che gli obiettivi di ricerca archeologica condotta dalle università non devono cambiare e anzi devono restare il fulcro del nuovo modo di comunicare il passato è tema centrale anche nell’intervento di Matteo D’Acunto. Una comunicazione che non deve assolutamente essere banalizzata né dequalificata ma che necessita di un diverso linguaggio affinché si rinsaldino i rapporti tra mondo universitario e mondo lavorativo, laddove anche il turismo richiede una formazione solida e concreta, la cui divulgazione non può più essere demandata a terzi. Il territorio, ancora una volta attraverso i suoi enti, dev’essere parte integrante di questo nuovo linguaggio comunicativo, rendendo accessibili anche i magazzini di scavo nei parchi archeologici e nei musei che troppo spesso restano in posizione subalterna rispetto a ciò che è esposto, e che invece permetterebbero una più ampia comprensione del paesaggio archeologico che è parte del territorio. Di questa esperienza è portavoce Marco Giglio attraverso le vicende delle Terme di Via Terracina e di quelle di Agnano, il cui dialogo è stato reso più difficile dal fatto che pertengono sia al Comune di Napoli sia alle S.p.A. Scavati entrambi nell’Ottocento, i siti hanno vissuto circostanze alterne di abbandono, recupero e inutilizzo fino a quando si sono rese necessarie nuove indagini per documentare, restaurare e preservare le aree archeologiche. Un’operazione che ha necessitato di un gruppo non omogeneo di studenti dei corsi di laurea di archeologia e restauro che hanno dovuto creare un linguaggio comune per cooperare. La tutela del patrimonio archeologico è possibile solo attraverso la conoscenza e una concreta fruizione delle aree da parte del pubblico.

Altra esperienza è quella di Roscigno Vecchio e l’area archeologica di Monte Pruno, nel Cilento, dove, a partire dagli anni ’80, è stato fatto un importante lavoro di salvaguardia e valorizzazione per contrastare gli scavi clandestini. La chiave di lettura, secondo Bianca Ferrara, è l’adattamento delle conoscenze acquisite nell’università al futuro dei beni culturali. E Roscigno ne è esempio, dove la tutela portata avanti dalla Soprintendenza e dalla ricerca universitaria ha restituito alla comunità un territorio che oggi fa dialogare archeologia e prodotti del territorio. Giuseppina Renda sottolinea che a volte, purtroppo, il dialogo con le comunità locali non è semplice, ed è necessario fare comprendere l’importanza della potenzialità archeologica: sono infatti le peculiarità di un luogo a rendere quel luogo invitante a livello turistico.

In questo senso si è mosso il progetto Ancient Appia Landscapes in quella che Alfonso Santoriello definisce archeologia di comunità: gli archeologi devono essere riconoscibili presso la comunità nel cui posto operano affinché si possano co-progettare nuove soluzioni per risollevare il territorio, creando o rinforzando quell’economia locale che rischia di restare sommersa. Ne è un esempio il “Ponterotto. Aglianico dell’Appia”, vino creato selezionando vitigni autoctoni, realizzato a partire dal 2018 nell’ambito del progetto Ancient Appia Landscapes in co-branding con la start-up MP Trade – Genti delle Alture di Apice (BN). È necessario dunque creare una serie di iniziative che coinvolgano anche gli imprenditori locali, nuovi linguaggi affinché la comunità venga sensibilizzata rispetto al paesaggio in cui vive, in concomitanza con la ricerca universitaria, le rievocazioni storiche e lo storytelling attraverso i social.

Federico Marazzi sottolinea come la definizione di archeologo nell’ambito dei valori territoriali è una conquista recente, in risposta ad un cambiamento complesso, di tipo sociale ed economico, nel quale questa figura professionale si inserisce. Ed allora, la parola “archeologo” non definisce la figura solo nella sua più nota accezione, ma rispecchia una serie di attività che vanno dalle guide turistiche ai comunicatori del patrimonio culturale e beni archeologici, al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. In questo senso le università hanno il compito di formare figure molteplici di archeologi con diverse opportunità di sbocchi lavorativi. Ancora, è necessario un dialogo tra chi si occupa di valorizzazione e conservazione di patrimonio culturale e chi si occupa di infrastrutture in termini di accesso al territorio poiché senza di esse non ci può essere fruizione da parte del pubblico. Questo contribuisce all’aumento delle già presenti barriere per quanto riguarda il patrimonio archeologico diffuso minimo che, come spiega Nadia Murolo, troppo spesso è vissuto dalle comunità come un peso, uno spazio non sentito, al quale non si partecipa. Manca, infatti, l’idea che il territorio sia uno spazio comune da condividere tra gli enti territoriali e quelli relativi al patrimonio culturale. A conclusione dell’intervento, Luigi Malnati rimarca che oggi la figura dell’archeologo professionista è “assente” dal mercato poiché il committente, che sia pubblico o privato, ha la necessità di terminare il lavoro in tempi brevi e non vuole investire economicamente. A ciò si aggiunge la non presenza sui lavori dei cantieri delle soprintendenze in corso d’opera, la cui partecipazione è fondamentale sia per supervisionare i lavori sia per evitare che l’archeologo si trovi in difficoltà a causa delle pressione impostegli dal committente, in un’operazione che richiede competenze archeologiche e conoscitive del territorio per agire nel migliore dei modi.

 

Si rende allora necessario un dialogo su più fronti che utilizzi un linguaggio comprensibile a tutti affinché il patrimonio archeologico, che come ricorda Santoriello in Campania rappresenta i 3/5 del totale, venga tutelato, valorizzato e diventi parte integrante della comunità al quale appartiene.

 

Ha moderato:

Giuseppina Renda, Associato di Topografia Antica, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”

Sono intervenuti:

Luca Cerchiai, Ordinario di Etruscologia e Archeologia Italica, Direttore di Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale, Università degli Studi di Salerno;

Matteo D’Acunto, Associato di Archeologia Classica, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”;

Bianca Ferrara, Associato di Archeologia Classica, Università degli Studi di Napoli “Federico II”;

Marco Giglio, Ricercatore in Metodologia della ricerca archeologica, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”;

Federico Marazzi, Ordinario di Archeologia Cristiana e Medievale, Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa”, Direttore Scuola di Specializzazione interateneo “Suor Orsola Benincasa” – Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”;

Giuseppina Renda, Associato di Topografia Antica, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”;

Carlo Rescigno, Ordinario di Archeologia Classica, Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” e Scuola Superiore Meridionale;

Alfonso Santoriello, Associato di Metodologia della ricerca archeologica, Università degli Studi di Salerno;

e:

Nadia Murolo, Direzione Generale per le Politiche Culturali e il Turismo della Regione Campania;

Luigi Malnati, già Direttore Generale delle Antichità del MiBACT.

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Chiara Lombardi

Laureata in Archeologia Orientale presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” con una tesi magistrale in Archeologia Egiziana dal titolo “Iside nei testi funerari e nelle tombe del Nuovo Regno: iconografia e ruolo della dea tra la XVIII e la XIX dinastia” (2013), ha conseguito un master di primo livello in “Egittologia. Metodologie di ricerca e nuove tecnologie” presso la medesima Università (2010-2011). Durante il master ha sostenuto uno stage presso il Museo Egizio de Il Cairo per studiare i vasi canopi nel Nuovo Regno (2010). Ha partecipato a diversi scavi archeologici, tra i quali Pompei (scavi UniOr – Casa del Granduca Michele, progetto Pompeii Regio VI, 2010-2011) e Cuma (scavi UniOr – progetto Kyme III, 2007-2017). Inoltre, ha preso parte al progetto Research Ethiopic language project: “Per un nuovo lessico dei testi etiopici”, finanziato dall’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente e dal progetto PRIN 2005 “Catene di trasmissione linguistica e culturale nell’Oriente Cristiano e filologia critico testuale. Le problematiche dei testi etiopici: testi aksumiti, testi sull’età aksumita, testi agiografici di traduzione” (2006-2007). Ha collaborato ad un progetto educativo rivolto ai bambini della scuola primaria per far conoscere, attraverso sperimentazioni laboratoriali, gli usi e i costumi dell’antico Egitto e dell’antica Roma (2014-2015). È stata assistente di ricerca presso la Princeton University (New Jersey) per “The Princeton Ethiopian, Eritrean, and Egyptian Miracles of Mary digital humanities project (PEMM)” (2020-2021). Ricercatrice indipendente, attualmente è anche assistente di ricerca per il Professor Emeritus Malcolm D. Donalson (PhD ad honorem, Mellen University). Organizza e partecipa regolarmente a diverse attività di divulgazione, oltre a continuare a fare formazione. Collabora con la Dott.ssa Nunzia Laura Saldalamacchia al progetto Nymphè. Archeologia e gioielli, e con la rivista MediterraneoAntico, occupandosi in modo particolare di mitologia. Appassionatasi alla figura della dea Iside dopo uno studio su Benevento (Iside Grande di Magia e le Janare del Sannio. Ipotesi di una discendenza, Libreria Archeologica Archeologia Attiva, 2010), ha condotto diversi studi sulla dea, tra cui Il Grande inno ad Osiride nella stele di Amenmose (Louvre C 286) (Master di I livello in “Egittologia. Metodologie di ricerca e nuove tecnologie”, 2010); I culti egizi nel Golfo di Napoli (Gruppo Archeologico Napoletano, 2016); Dal Nilo al Tevere. Tre millenni di storia isiaca (Gruppo Archeologico Napoletano, 2018 – Biblioteca Comunale “Biagio Mercadante”, Sapri 2019); Morire nell’antico Egitto. “Che tu possa vivere per sempre come Ra vive per sempre” (MediterraneoAntico 2020); Il concepimento postumo di Horus. Un’ analisi (MediterraneoAntico 2021); Osiride e Antinoo. Una morte per annegamento (MediterraneoAntico 2021); Culti egiziani nel contesto della Campania antica (Djed Medu 2021); Nephthys, una dea sottostimata (MediterraneoAntico 2021). Sua è una pubblicazione una monografia sulla dea Iside (A history of the Goddess Isis, The Edwin Mellen Press, ISBN 1-4955-0890-0978-1-4955-0890-5) che delinea la sua figura dalle più antiche attestazioni nell’Antico Regno fino alla sua più recente menzione nel VII d.C. Lo studio approfondisce i diversi legami di Iside in quanto dea dell’Occidente e madre di Horus con alcune delle divinità femminili nonché nei cicli osiriaco e solare; la sua iconografia e le motivazioni che hanno portato ad una sempre crescente rappresentazione della dea sulle raffigurazioni parietali delle tombe. Un’intera sezione è dedicata all’onomastica di Iside provando a delineare insieme al significato del suo nome anche il compito originario nel mondo funerario e le conseguenti modifiche. L’appendice si sofferma su testi e oggetti funerari della XVIII dinastia dove è presente la dea.

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