Visita all’Heraion di Argo

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Verso l’Heraion.

1.Avvicinamento all’Heraion. © Marco Vasile

Quando, risalendo da Argo verso nord-est in direzione dell’Heraion, i cartelli stradali ne cominciano ad evocare il nome, le nostre sensazioni sono ancora confuse. Ma poi quando, improvvisamente, scorgiamo in lontananza le antiche terrazze artificiali del santuario ai piedi del massiccio dell’Eubea, accade uno schiarimento e l’emozione raggiunge il culmine. Per un istante la forza poetica di Omero restituisce la parola alla “signora dagli occhi di giovenca” (βοῶπις πότνια): “Vi sono tre città a me carissime: Argo e Sparta e la spaziosa Micene” (Iliade, IV, 51). Saremo all’altezza di ciò che ci attende?

L’Heraion di Argo, il più antico e celebre santuario peloponnesiaco dedicato al culto di Hera, è costruito in una posizione dominante sulla piana argolica. La raccoglie interamente sotto di sé, dischiudendone la visione completa. Il sito gravita nella sfera di influenza di Micene, Argo e Tirinto. Strabone, parlando dell’Heraion (Geografia, VIII.6.10) nella fase più antica, lo definisce κοινόν ἱερόν (“santuario comune”) di Micene ed Argo.

2. Planimetria dell’Heraion (da C. Waldstein, “Argive Heraeum, vol. 1, 1902, plate V).

Il santuario si dispiega su due grandi terrazze artificiali, ricavate sul versante meridionale del monte Eubea. Su quella superiore, sorretta da un imponente muro “ciclopico” visibile già in lontananza, fu edificato il primo tempio periptero, distrutto nell’incendio del 423 a.C. (secondo la datazione desumibile da Tucidide) causato da una fatale disattenzione di Criside, l’anziana sacerdotessa di Hera; sulla terrazza sottostante, venne realizzato il tempio di età classica, visitato dal periegeta Pausania e reso celebre dalla statua crisoelefantina di Hera, opera dello scultore argivo Policleto. Come nel caso di altri santuari dedicati ad Hera (ad esempio l’Heraion di Poseidonia alla foce del fiume Sele), l’Heraion di Argo era situato in prossimità di corsi d’acqua: due torrenti – l’Asterione a sud-est e l’Eleuterio a nord-ovest – assicuravano risorse idriche al santuario per le necessità pratiche e i riti di purificazione cui accenna Pausania.

Dei centri micenei, quello più vicino all’Heraion è Micene, situata alle spalle dei rilievi dell’Eubea. Argo è più lontana, in direzione sud-ovest; a sud-est, in prossimità della baia di Nauplia, l’antico porto di Argo, riposano le possenti mura micenee dell’antica Tirinto. Quale fu il rapporto che legò la genesi dell’Heraion all’azione politica dei tre principali centri dell’Argolide? Quale funzione giocò il fenomeno politico della formazione delle città-stato? E come si configurò il ruolo della potente Argo?

Nube di interrogativi sull’Heraion.

Le fonti scritte non consentono di fare chiarezza sull’origine del santuario. Nella sua ricostruzione storiografica si sono confrontati, tra gli altri, lo schema “conflittuale” (il santuario come dispositivo di definizione dell’identità territoriale di una comunità politica, eventualmente in competizione con altre) e quello “pacifico” (il santuario come luogo di incontro più o meno spontaneo tra le popolazioni di una medesima area). La documentazione archeologica – in particolare gli oggetti votivi in bronzo e in ceramica trovati in grande quantità sulle terrazze del santuario – da un lato attesta la presenza di atti di devozione sin dall’inizio della fase geometrica (primi decenni del IX sec. a.C.), se non addirittura dal protogeometrico; dall’altro lato rende non più sostenibile la tesi “tradizionale” della fondazione del santuario da parte di Argo nell’ambito del proprio processo di definizione politico-territoriale. Il diretto dominio politico di Argo sull’Heraion è storicamente sicuro solo a partire dalla prima metà del V sec. a.C., quando gli Argivi assoggettarono in rapida successione Micene e Tirinto, private così, di fatto, della possibilità di esercitare qualunque tipo di influenza sul principale santuario dell’Argolide.

Il quadro esplicativo è complicato dal dato della esistenza di un insediamento elladico, di età micenea, sui pendii al di sopra dell’Heraion. Lì gli scavi eseguiti dall’archeologo americano Carl Blegen negli anni venti del secolo scorso hanno riportato alla luce numerose tombe micenee a camera, che presentano tracce inequivocabili di un fenomeno di riutilizzo in età geometrica (noto come “tomb cult”), interpretato come venerazione eroica ovvero come culto degli antenati. Anche alcuni tratti murari sulla terrazza del tempio classico sono di età preistorica, in blocchi molto più piccoli di quelli “ciclopici” del  terrazzamento superiore.

Blegen designò l’area dell’insediamento con l’antico topononimo ‘Prosymna’, dandogli così un riferimento geografico differente da quello presente in Pausania (e in Strabone). Secondo il periegeta il toponimo deriva dal nome di una delle tre figlie del dio fiume Asterione ed indica la regione sottostante all’Heraion. Blegen scoprì, su un’ulteriore terrazza a circa settecento metri a nord-ovest dell’Heraion, tracce di un culto dedicato ad Hera, databili a partire dall’VIII sec. a.C. e secondo lui da interpretare come resti di un “santuario secondario [rispetto all’Heraion]”.

La circostanza della coincidenza topografica tra i siti dei santuari ellenici e quelli degli antichi centri di potere micenei (Micene, Tirinto, Atene) è stata da tempo appurata. Anche se non esistono evidenze che la collina sulla quale sorge l’Heraion abbia in precedenza ospitato un palazzo miceneo, è lecito domandarsi se sulle rupi del monte Eubea un culto religioso riservato al signore miceneo e ai suoi affiliati venne, dopo la distruzione del palazzo, reso pubblico. Oppure la costruzione del santuario fu una conseguenza dell’interesse delle élites argive di età geometrica per le sovrastanti tombe micenee di “Prosymna”?

L’insediamento elladico di “Prosymna”, il riutilizzo delle tombe micenee in età geometrica, il “santuario secondario” di Hera: in che relazione stanno questi dati archeologici con la genesi storica dell’Heraion di Argo? O forse, in modo indipendente dall’iniziativa di élites politiche, l’Heraion scaturì dalla concatenazione di atti di devozione religiosa più o meno spontanei che, ripetuti nel tempo nel medesimo luogo, si costituirono in una vera e propria “tradizione” gestita autonomamente da istituzioni sacre dotate della forza economica per avviare programmi architettonici?

Una nube di congetture scientifiche si addensa inevitabilmente attorno alla determinazione dell’origine del santuario, che rimane perciò drasticamente indecisa. Al di sopra delle incertezze storiografiche, si staglia l’epiteto omerico di ‘boôpis’ per Hera. Il suo significato indica potentemente nella direzione di una abissale continuità del culto della dea; nella medesima direzione sospinge il toponimo designante il luogo del santuario: ‘Εὔβοια’, letteralmente ‘colei [che è] dai bei buoi’. L’origine del culto di Hera argiva potrebbe disperdersi nella cultura agricola della piana dell’Argolide, divenendo inafferrabile perché non interrogabile dal metodo empirico. Così l’Heraion di Argo viene assegnato alla più radicale delle possibilità storiche: quella secondo cui un’“origine” non è mai accaduta. Se l’origine della devozione verso la “signora boôpide” è inafferrabile perché “mai accaduta”, se tale origine non può essere fatta parlare nel linguaggio della scienza moderna, allora a poter accadere è una inversione delle posizioni. Non siamo più noi a trovarci nella posizione per interrogare oggettivamente il passato che sta “dietro” l’Heraion sottoponendolo al nostro dominio conoscitivo. La dea boôpide si sottrae alle indagini e il suo passato, silenziosamente, ci interroga da lontano.

Pausania (II sec. d.C.) e Martin Heidegger (1962).

<<Alla distanza di quindici stadi da Micene, sulla sinistra, sorge l’Heraion […]. Il santuario si trova nella parte più bassa dell’Eubea: infatti chiamano Eubea questo monte>> (II.17.1). Pausania, il viaggiatore del II sec. d.C., raggiunse l’Heraion da nord, provenendo da Micene, attraverso l’antica strada micenea ancora percorsa fino agli inizi del novecento, della quale rimangono visibili alcuni ponti. In prossimità di uno di questi, negli anni ’50 del secolo scorso, venne scoperto il cosiddetto ‘Agamemnoneion’, un piccolo santuario databile all’VIII sec. a.C. e, per lo meno in età tardo-classica, dedicato al culto eroico di Agamennone. Tutto, qui, sembra parlare del grandioso passato miceneo, dunque pre-ellenico, dell’Argolide, immortalato da Omero.

“Ci attendeva la visita di Micene. Avvertivo un senso di rifiuto verso il mondo preellenico, sebbene sia stato proprio il confronto con tale mondo a rendere possibile il sorgere dell’elemento greco in ciò che gli è proprio. Ma io non desideravo altro che incontrare quest’ultimo. Inoltre ero attratto verso Argo e Nemea […]”. Ripensiamo alle dure parole del filosofo tedesco Martin Heidegger, scritte in occasione del suo primo “soggiorno” in Grecia, nella primavera del 1962; non si trattò di un viaggio qualsiasi: con lui, giunsero idealmente per la prima volta in Grecia i grandi intellettuali che provocarono il ritorno trionfale degli antichi Greci nella cultura europea: Winckelmann, Goethe, Hölderlin, Nietzsche – tutti mai stati in Grecia, anche se il primo e il terzo, a Paestum e in Sicilia, potettero confrontarsi materialmente con la grecità. E’ possibile un incontro con l’“elemento greco” tagliando via il mondo che de facto ne contenne le condizioni di possibilità? Avevamo trascorso il giorno prima interamente a Micene. Heidegger scrive nel 1962, a dieci anni di distanza dalla decifrazione del “lineare B”, il sistema di scrittura con cui i Micenei avevano trascritto la loro lingua proto-greca. Non condividiamo il “senso di rifiuto” di Heidegger per il mondo miceneo, ma al contempo non ne possiamo condannare su due piedi il concetto filosofico sotteso. Per Heidegger mondo preellenico ed elemento greco non stanno semplicemente allineati in una serie cronologica, perché è solamente con il secondo che accade l’inizio del pensiero occidentale a partire dal quale le scienze storiografiche occidentali hanno potuto costruire quella serie cronologica. Ne risulta perciò un capovolgimento logico: “l’inizio non può essere descritto e osservato storiograficamente”, aveva già detto il filosofo tedesco.

Molto semplici, le parole che descrivono l’incontro del pensatore con l’Heraion, in un giorno di primavera: “Ai piedi di un promontorio della terra degli Argivi si stende, ugualmente abbandonato, il sacro recinto di un tempio di Hera: a ornamento delle sue rovine crescono aiuole di fiori profumati. Ogni anno ritorna fedele il saluto dei fiori ad un mondo scomparso. Di fronte sorge l’acropoli di Argo”. Solamente parole che si esprimano in forma non congetturale possono dire, oggi, l’esperienza della intatta essenza dell’Heraion di Argo.

Sulla terrazza del primo tempio.

3. Verso le terrazze. A sinistra, il muro della terrazza inferiore. In alto, il muro “ciclopico”.

Entrando nell’area del santuario siamo sovrastati dall’immenso silenzio con cui la natura custodisce la sacralità dell’Heraion. E’ la fine dell’estate e rari arbusti, e qualche ulivo, verdeggiano in un paesaggio brullo. Degli edifici monumentali del santuario non rimangono che “rovine”. Ci incamminiamo lungo il percorso in salita che costeggia ad est i bordi delle due terrazze.

Alla nostra sinistra, i resti di una scalinata monumentale di età classica, che doveva fungere da grandioso accesso alla terrazza del tempio. Scorgiamo, ai bordi del pendio che collega ad est le due terrazze, il fusto di una colonna arcaica ancora in piedi, con 16 scanalature: si rivelerà l’unico ancora integro nel santuario, appartenente ad una struttura chiamata in letteratura “edificio nord-est”.

4. Terrazza inferiore. In fondo, la colonna dell’“edificio nord-est” e, dietro, il muro “ciclopico”. © Marco Vasile

Qui, all’interno del temenos, giungevano da Argo le solenni processioni in onore della dea: proprio qui magnifici buoi bianchi trainavano il carro della sacerdotessa di Hera e cento buoi venivano pietosamente condotti verso l’ecatombe davanti ad un corteo di giovani in armi, durante le grandi feste ‘Heree’, celebrate ogni cinque anni; presso lo stadio si era già svolta la competizione per l’assegnazione dello scudo ornato della corona di mirto.

L’attenzione è catturata, in alto, dall’imponente muro di contenimento della terrazza superiore, che guidò infallibilmente i primi esploratori nella identificazione del sito dell’Heraion. La tecnica di costruzione del muro, composto da enormi blocchi non lavorati in conglomerato con pietre più piccole inserite negli interstizi, ricorda l’opera ciclopica delle fortificazioni murarie micenee.

5. L’angolo sud-est del muro “ciclopico”. © Marco Vasile

Questa somiglianza ingannò l’archeologo Charles Waldstein – direttore degli scavi all’Heraion condotti dal 1892 al 1895 dalla Scuola Americana di Studi Classici – , che attribuì risolutamente la costruzione del terrazzamento superiore alla Tirinto di età micenea, datandola al 1900 a.C. Waldstein esagerò anche nella datazione dei muri non ciclopici visibili sulla terrazza mediana, da lui chiamati “old walls”, attribuendoli ad una presunta fase “pre-micenea”. Oggi si ritiene che i muri in opera “ciclopica” siano stati realizzati al più in epoca tardo-geometrica (700 a.C. ca); gli “old walls” sono invece datati al periodo tardo-elladico, occupato dalla civiltà micenea.

Raggiungiamo la terrazza superiore, dove si ergeva il tempio periptero più antico, distrutto nell’incendio del 423 a.C. Davanti a noi si dischiude la piana argolica, con le sue ordinate coltivazioni. Essa è chiusa dai monti su tre lati e delimitata dalla costa verso sud, dove si intravede chiaramente l’alta barriera del promontorio sul quale, nel Golfo argolico, sorge Nauplia. La chiusura raccoglie la piana interamente entro lo spazio del suo dischiudimento. Argo, la città chiamata da Omero “nutrice di cavalli” e “ricca di grano”, è ben visibile verso sud-ovest, adagiata ai piedi della catena montuosa dell’Artemisio assieme alla Larissa, la sua roccaforte; verso nord, nascosta dai rilievi montuosi, Micene, in età antica collegata al santuario dalla strada percorsa da Pausania; Tirinto è a sud, poco distante dalla linea di costa della baia di Nauplia.

6. Vista dalla terrazza superiore sulla piana argolica. In basso, i resti del tempio di età classica.

Da qui ci si assicura un dominio completo sulla sintassi spaziale dell’intero santuario. Sulla terrazza immediatamente sottostante, ai piedi del muro ciclopico, sono facilmente riconoscibili le rovine architettoniche del tempio di età classica, che dall’alto appare come un rettangolo dai lati spessi (le fondazioni) e vuoto all’interno, dove si individuano i resti dei muri della cella e altri blocchi superstiti; altre strutture disseminano i loro frammenti alle spalle del tempio classico, tra le quali spiccano due stoai certamente più antiche.

7. La cappella di Agia Kyriaki. © Marco Vasile

“Al di sopra [ὑπέρ] di questo tempio si trovano le fondamenta del primo tempio e quel poco d’altro che l’incendio non ha distrutto” (II.17.7). Lo ὑπέρ di Pausania si riferisce precisamente a ciò che stiamo esperendo, guadagnando in questo modo un riferimento concreto. Così le parole degli antichi possono incontrare ciò che è rimasto, riempendosi del nostro vissuto. Scorgiamo in lontananza, sulla cima a nord-est del santuario, la cappella ortodossa di Agia Kyriaki. Lì vicino, in occasione di lavori di manutenzione, fu rinvenuto un frammento di un piede di una antica statua marmorea, secondo quanto riferito dal pastore che lo consegnò a Blegen durante gli scavi di “Prosymna”.

Il primo tempio e il capitello ‘C’.

8. Bordo meridionale della terrazza superiore. © Marco Vasile

La terrazza superiore è parzialmente pavimentata da blocchi poligonali di colore bluastro, che lungo il bordo meridionale lasciano intravedere i grandi blocchi in conglomerato che compongono il culmine del muro ciclopico.

Del tempio più antico, distrutto da un incendio, non è sopravvissuto che un segmento, lungo circa 19 metri, del lato meridionale dello stilobate, “of a reddish limestone” (“di calcare rossiccio”), come lo descrive Edward Tilton, l’architetto cui Waldstein affidò la restituzione delle architetture dell’Heraion. Lo riconosciamo subito tra i ciuffi di erba ingialliti dal sole. La presenza di tre depressioni circolari allineate sul tratto superstite, segno evidente della presenza di colonnati, dimostra che si trattava di una struttura templare periptera. L’aggiunta di altre evidenze ha consentito a Tilton di calcolarne la planimetria. Si tratterebbe di un esastilo con 14 colonne sui fianchi ed orientamento verso est, lungo circa 47 m. e dotato di una cella con pronao ed opistodomo.

9. Resti dello stilobate del primo tempio. © Marco Vasile

Una piccola piattaforma in pietre irregolari, collocata a nord dei resti dello stilobate, è stata interpretata come la base della statua di Hera.

La determinazione dei materiali di cui erano composte le strutture del tempio arcaico è tuttora problematica. Con estrema probabilità i muri della cella erano composti di mattoni in argilla essiccata, visto anche che tale materiale è stato ritrovato dagli scavatori nello strato che copriva la terrazza superiore. E’ incerto invece se il materiale delle colonne fosse pietra o legno.

10. Rocchio di colonna con fori per il sollevamento. © Marco Vasile

Quest’ultima ipotesi – anche se avvalorata dalla presenza di notevoli quantità di carbone nello strato di terra rimosso dagli scavatori e dalla congiunzione tra il diametro delle colonne e l’ampiezza dell’interasse (dal quale risulta una trabeazione che, se litica, non sarebbe sostenibile da colonne così esigue) – non gode di consenso unanime tra gli studiosi.

Aggirandoci alle spalle dello stilobate, ci colpisce, in un mucchio di detriti litici, un frammento di rocchio di colonna dotato di fori per il sollevamento. Era stato scoperto dagli scavatori sulla terrazza inferiore, ma già l’archeologo francese Pierre Amandry, in seguito ad un sopralluogo alla fine degli anni ’40, afferma di averlo trovato sulla terrazza superiore.

11. Il capitello ‘C’. © Marco Vasile

Sulla sottostante terrazza del tempio classico, all’estremità est delle rovine di un lungo edificio interpretato come stoà, ci imbatteremo in un capitello dorico (designato con la lettera ‘C’ da Tilton) dall’echino fortemente espanso, che quasi tutti gli studiosi hanno classificato tra i più antichi esistenti (circa 600 a.C.).

Questi frammenti litici appartenevano al primo tempio? Una risposta positiva non sarebbe comunque in grado di escludere l’ipotesi di una successiva (ed eventualmente progressiva) sostituzione, con supporti in pietra, di colonnati originariamente lignei – come ipotizzato da Dörpfeld per l’Heraion di Olympia. Vitruvio riporta la tradizione secondo cui l’ordine dorico comparve per la prima volta nel “Iunonis templum” di Argo, edificato da Doro, il leggendario sovrano del Peloponneso. Oggi la tesi tradizionale di una localizzazione dell’origine dell’ordine dorico nel Peloponneso nord-orientale non appare più confermata da decisive evidenze empiriche. Ma rimane certo che il primo tempio dell’Heraion fu tra i più antichi edifici peripteri realizzati in Grecia.

La questione, più o meno inestricabile, della “pietrificazione” delle strutture templari dei Greci avvolge come una nube il primo tempio di Hera. Anche la sua datazione è circondata da incertezze. Le ipotesi archeologiche coprono una oscillazione cronologica di circa un secolo e mezzo, contenuta tra l’inizio del VII sec. a.C. e la metà del VI sec. a.C. Questa oscillazione, finora irrisolta, è strettamente legata al problema del rapporto della costruzione della terrazza superiore con l’edificazione del primo tempio. L’ipotesi più semplice è ovviamente che la prima fu direttamente funzionale alla seconda. Tuttavia, le indicazioni cronologiche desumibili dai dati non sembrano facilmente forzabili entro questa interpretazione. Appare infatti più probabile una precedenza temporale della costruzione del terrazzamento superiore, sul quale solo in un secondo momento sarebbe stata edificata la prima struttura monumentale. Ma allora ne consegue uno iato temporale tra i due eventi, che provoca il problema della finalità della costruzione del terrazzamento. La struttura monumentale ebbe un precursore templare, in vista della costruzione del quale venne realizzato l’imponente terrazzamento? Questo precursore è da riconoscersi, come vorrebbero alcuni studiosi, in un modellino architettonico votivo ritrovato dagli scavatori sulle terrazze dell’Heraion?

L’altare del tempio non ha lasciato alcuna traccia. Questa lacuna pone un drammatico interrogativo per la coerenza della ricostruzione scientifica della configurazione architettonica dell’Heraion. L’ipotesi che esso sorgesse sulla terrazza inferiore fornirebbe una spiegazione in termini funzionali-cultuali della finalità dello sforzo di monumentalizzazione che, molto prima della edificazione del tempio classico, era già in atto sulla terrazza inferiore. L’archeologia non è stata finora in grado di verificare empiricamente tale ipotesi.

12. Ricostruzione dell’Heraion (da C. Waldstein, “Argive Heraeum, cit., plate IX).

Quando, gettando lo sguardo sulla pavimentazione detta terrazza superiore, scorgiamo, in uno dei suoi blocchi poligonali, il reticolo di fratture recenti attraversate da fili d’erba, l’Heraion sprofonda per noi nella scura nube della certezza del completamento della sua distruzione fino al totale annientamento. Ma poi, voltandoci nuovamente verso la piana argolica, una forza distensiva ancorerà la presenza dell’Heraion a ciò che esso stesso rende presente. La chiusura dei monti visibile dall’Heraion raccoglie, delimitandola, la totalità dello spazio della piana argolica, che viene così interamente dischiusa. Il dischiudimento è rimasto essenzialmente immutato.

Il tempio di età classica.

La terrazza sottostante è occupata dai resti di numerosi edifici. Il tempio classico è preceduto da una “fascia” di strutture architettoniche, tutte di età anteriore, che corre parallelamente al suo fianco nord. Tra queste strutture, ci colpisce la “stoà nord”: un lungo edificio colonnato, reso ancora visibile dall’allineamento delle basi rettangolari delle colonne e dai due gradini del basamento, la cui pietra grigia risalta tra i ciuffi d’erba. Al di là dei problemi interpretativi, la stoà evoca l’immagine delle folle di pellegrini in attesa dell’ingresso in pompa magna delle processioni nel temenos.

13. Frammento di capitello presso l’angolo sud-est del secondo tempio. © Marco Vasile

Nella costruzione del tempio classico – avvenuta durante la guerra del Peloponneso, nel corso della quale Argo riuscì sostanzialmente a conservare la propria neutralità –  dovette certamente rispecchiarsi il compimento della supremazia degli Argivi sull’Heraion. Il suo rettangolo è intatto, per cui – fatta eccezione per alcune incertezze che affliggono la restituzione delle architetture interne – è stato possibile calcolarne il numero delle colonne esterne (6×12) e le dimensioni. Dal rapporto 1:2 e dagli interassi uniformi delle colonne, si deduce l’ambizione di Eupolemo, l’architetto argivo di cui solamente Pausania ha tramandato il nome, alla realizzazione di un periptero dalle proporzioni “ideali”. In prossimità dell’angolo sud-est è poggiato, rovesciato, un frammento di capitello sul quale resiste la forma impressa dai Greci alla pietra, con i quattro anuli incisi alla base dell’echino; all’interno del rettangolo del tempio, troneggia un altro frammento di capitello con il foro quadrangolare per l’alloggiamento del perno di fissaggio. A breve distanza dal fianco sud, gli scavatori hanno religiosamente allineato i blocchi dello stilobate non più in situ. Essi hanno ora l’aspetto di lapidi cimiteriali.

Sono le parole di Pausania (II.17.4) a guidarci verso la cella, mentre fantastichiamo sulla ἄγαλμα τῆς Ἥρας realizzata da Policleto:

“La statua di Hera seduta sul trono, di notevoli dimensioni e fatta di oro e avorio, è opera di Policleto. Sul capo ha una corona recante scolpite le Cariti e le Ore, nelle mani tiene da una parte un frutto di melograno, dall’altra lo scettro. Su quanto riguarda la melagrana non intendo dir parola, giacché si tratta di una storia coperta dal sacro segreto”. Della maestosa solennità della statua ci resta la testimonianza delle raffigurazioni dell’opera impresse su monete coniate da Argo.

Altre statue arricchivano la cella del tempio classico. Di una, Pausania dice che era in legno di pero selvatico, “seduta e non grande”, e che gli Argivi la portarono via dal santuario di Hera a Tirinto. Essa doveva forse sprigionare qualcosa di simile alla “sacralità colma di orrore” di cui parla Nietzsche, nelle sue lezioni sul “servizio divino dei Greci”, a proposito degli xoana, gli antichissimi idoli lignei che sovente abitavano nella cella dei templi greci.

Quando e come il capolavoro di Policleto venne distrutto? Nulla è stato tramandato e la sua distruzione è avvolta nella totale oscurità. Per un attimo ci afferra il pensiero che, nel tempo della sostituzione di un intero ordinamento storico, la natura continuava il suo corso e cieli azzurri come quello che ci ha accolto si succedevano sopra l’Heraion. Enormi dovettero essere l’emozione e la soddisfazione di Waldstein e della sua equipe quando affiorò dalla terra una splendida testa marmorea femminile, subito interpretata come quella di una giovane Hera, probabilmente opera della scuola argiva di Policleto: “Finally, immediately in front of the west end of the temple, we had the great fortune of finding the marble head of Hera”.

14. Testa di Hera ritrovata presso il secondo tempio (C. Waldstein, “Excavations at the Heraion of Argos 1892”, 1892, plate IV).

Era la mattina del 21 febbraio 1892 e l’austero splendore della giovinezza della dea balenò agli occhi dei moderni. Waldstein ipotizzò che la testa della dea protettrice degli Argivi appartenesse ad una statua del gruppo scultoreo del frontone occidentale, dove era raffigurata la scena della partenza di Agamennone e dei suoi uomini alla volta di Troia.

Per quanto tempo la testa della dea argiva giacque sul suolo, davanti alla fronte occidentale dell’Heraion? e qualcuno la vide, prima che la terra la celasse agli uomini preservandola? E cosa significa, in generale, che le forme dell’antichità hanno cominciato a rifluire nell’epoca moderna? Queste domande vagano e si dissolvono come nuvole.

 

Congedo.

“Ma dove sono i troni? e i templi? e i crateri/colmi di nettare?” Lasciando le antiche terrazze disseminate di rovine, sentiamo riecheggiare i celebri versi di Hölderlin. Ma sono veramente adeguate ad esprimere l’esperienza odierna dell’Heraion, queste parole poetiche che dicono l’abbandono? E’ un giorno di festa e le processioni provenienti da Argo entrano nel temenos.

15. Restituzione della statua di Hera (C. Waldstein, “Argive Heraeum, cit., fig. 64).

Noi ripensiamo al carattere oscuro e irriflessivo del fondo su cui gravava il sentimento religioso dei Greci. E tuttavia la loro arte e il loro pensiero crearono un mondo così luminoso e trasparente. Lo crearono sopra quel fondo? La questione è già stata discussa dalla cultura europea. E’ un giorno di festa e dai grandi occhi della dea boôpide rimbalza, adesso, ancora un interrogativo per noi? E quale? Mentre ci voltiamo per salutare l’Heraion di Argo ci appare ancora, in alto, il grande muro “di età geometrica”.

 

BIBLIOGRAFIA PRIMARIA.

Omero, Iliade; tr. it. a cura di R. Calzecchi Onesti, Milano 1990.

Pausania, λλάδος Περιήγησις: Κορινθιακά; tr. it. Viaggio in Grecia: Libro II, a cura di S. Rizzo, Milano 1992.

Strabone, Γεωγραφικά; tr. it. Geografia, a cura di A.M. Biraschi, Milano 1992.

Vitruvio, De Architectura; tr. it. Id., a cura di P. Gros, Milano 1997.

 

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Hölderlin F., Brod und Wein; tr. it. Pane e vino, in Id., Le liriche, a cura di Enzo Mandruzzato, Milano 1977.

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Waldstein C. et al., The Argive Heraeum, vol, I, Boston-New York 1902-1905.

 

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