“Vi ho colto:
questo, state certi, sarà l’ultimo vostro convegno d’amore!”.
E la sua voce fu così assordante, come è giusto che l’avesse
un Ciclope infuriato: un urlo che terrorizzò persino l’Etna.
Io sgomenta mi tuffo sott’acqua, nel mare lì vicino;
il nipote del Simeto, voltate le spalle, fuggiva
gridando: “Aiutami, Galatea, ti prego; aiutatemi, aiutatemi,
genitori miei, ma se mancassi, accoglietemi nel vostro regno!”.
Il Ciclope l’insegue e, staccato un pezzo di monte,
glielo scaglia contro: benché soltanto lo spigolo esterno
del masso lo colpisca, Aci ne viene del tutto travolto.
Noi, unica cosa che permetteva il destino, facemmo in modo
che in Aci riaffiorasse la natura avita.
Ai piedi del masso colava un sangue rosso cupo:
non passa molto tempo che il rosso comincia a impallidire,
prima assume il colore di un fiume reso torbido dalla pioggia,
poi lentamente si depura. Infine il macigno si fende
e dalle fessure spuntano canne fresche ed alte,
mentre la bocca apertasi nel masso risuona d’acqua a zampilli.
È un prodigio: all’improvviso ne uscì sino alla vita
un giovane con due corna nuovissime inghirlandate di canne,
che, se non fosse stato così grande e col volto ceruleo,
Aci sarebbe stato. Ma anche così era Aci mutato in fiume,
un fiume che conservò il suo antico nome”.

Galatea era una bellissima ninfa, dalla pelle color del latte,figlia di Nereo e Doride di cui si era perdutamente innamorato Polifemo, il ciclope raccontato da Omero nell’Odissea. Un giorno un pastorello di nome Aci, figlio di Fauno, mentre si trovava a pascolare le sue greggi vicino al mare scorse la bella ninfa e se ne innamorò. Polifemo, vedendosi rifiutare nonostante le numerose avances e i numerosi versi d’amore che dedicava alla sua amata, una notte, pazzo di gelosia per averli sorpresi insieme abbracciati dentro una grotta a ridosso del mare, decise di vendicarsi uccidendo Aci. Il terribile ciclope prese un enorme masso appuntito dal monte Etna e lo scagliò sul rivale, uccidendolo. La ninfa che nella fuga si era gettata in mare, appena vide il corpo di Aci martoriato, chiese a Zeus e agli dei di trasformare il sangue dell’amato in un fiume in cui ella avrebbe potuto immergersi per ricongiungersi al suo grande amore. Secondo il mito fu così che ebbe origine l’antico fiume Aci, un breve corso d’acqua oggi non più localizzabile per via delle varie e continue eruzioni dell’Etna che ne hanno cancellato il corso. La leggenda popolare, inoltre, narra che il corpo del giovane pastorello sia stato smembrato in nove parti cadute poi dove sono nate le 9 cittadine che nel loro nome portano la parola Aci.
Una storia d’amore tragica, come ormai il mito ci ha abituati, ma ci piace pensare che l’amore tra Galatea e Aci continui ancora oggi tra le acque del mar Ionio e quelle del fiume Akis, nascosti e lontani per sempre dall’invidia del ciclope Polifemo.
Cara Alessandra buon giorno. Complimenti per lo scritto sul mito di “Aci e Galatea”, che pur essendo chiaramente orientato ad una divulgazione generalista, si distingue per un buon equilibrio tra tensione sintetica ed analitica. Continua così, occorre scavare instancabilmente per trovare, come amano fare gli archeologi, il proprio “ergon”, lavoro, come lo chiamava Aristotele nell’etica nicomachea, e quindi trovare la propria strada. Buon lavoro e tanto per rimanere nell’ambito dell’accademia platonica, avendo citato Aristotele, degno discepolo del sommo Platone, ti saluto con la consueta formula (cfr. Platone, VII lettera, a Dione e ai suoi familiari) utilizzata da Platone e in generale da quell’ambiente: “eu prattein”, buone cose
Maurizio Militello