Il Ministero della Cultura ha annunciato con una nota del 1 febbraio 2022 il rinvenimento dei resti del tempio arcaico di Atena sull’acropoli di Elea-Velia. La campagna di scavi ivi condotta, iniziata a luglio 2021, ha portato alla luce resti di muri di mattoni crudi intonacati nonché ceramiche dipinte, armature, ami ed elmi della battaglia navale di Alalia, che permise ai Cartaginesi di dominare il Mar Tirreno dopo lo scontro con gli esuli di Focea, tra il 541 e il 535 a.C. Non è improbabile che i rinvenimenti all’interno dell’area fossero offerte votive per la dea Atena successive alla battaglia.

Alla luce di quanto emerso, i resti relativi all’area sacra collocherebbero il primo nucleo del tempio di Atena immediatamente dopo la battaglia di Alalia (540-530 a.C.), mentre il tempio principale dovrebbe risalire al 480-450 a.C., per poi essere ristrutturato durante l’epoca ellenistica.

Una dramma rarissima (ultimo ventennio VI sec. a.C.), con la leggenda 𐌅ΕΛΗ(τέων), conferma che il nome della città, Velia, era originariamente indigeno e che sulle terrazze dello sperone roccioso abitasse un grosso nucleo di indigeni italico-enotri. Velia era dapprima detta Ὺέλη dai Greci (Erodoto I, 167), divenne poi definitivamente Ἐλέα (Platone, Soph., 1).
Pietro Ebner, Della Persephone sullo statere velino e del suo incisore,
in Rivista Italiana di Numismatica, vol. VI, 1949, pp. 3-18, nota 14.

L’odierna area archeologica, che si situa nel comune di Ascea (SA), all’interno del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano e Alburni, divenne nel VI sec. a.C. la patria dei Focei, i quali avevano abbandonato la Ionia a causa dei Persiani. Stabilitisi sulla sommità dello sperone roccioso che sin dall’antichità dominava la baia compresa tra Capo Palinuro e Punta Leucosia, il primo impianto abitativo dei Focei era realizzato da nuclei separati e sparsi, probabilmente suddivisi per gruppi familiari, che seguivano l’orografia più che un vero e proprio impianto organizzato. È nell’area delle pendici meridionali del promontorio che vengono messe in luce, nella metà degli anni ’60 del Novecento, le strutture che pertengono il cosiddetto abitato arcaico di Elea, realizzato con muretti a secco i cui blocchi sono tagliati in forma poligonale. Ulteriori resti di questo tipo si rinvengono nello spazio compreso tra le pendici meridionali e la terrazza superiore del sito, le cui cinque unità abitative affacciano su un asse che forse proseguiva verso il litorale settentrionale del promontorio. Sulla spiaggia meridionale il ritrovamento di due case con zoccolatura in opera poligonale ed elevati in crudo ha messo in evidenza un sistema per isolare il pavimento dall’umidità tramite l’utilizzo di un piano rialzato in legno coperto con argilla e paglia (della stessa tipologia rinvenuta all’ingresso dell’area sacra della grotta di Pertosa-Auletta, sebbene di II millennio a.C.), e con tetto probabilmente rivestito di tegole e coppi. Anche nel versante settentrionale del sito c’è da immaginarsi una soluzione abitativa simile, seppure la nostra conoscenza a tal proposito sia piuttosto scarna a causa del materiale rinvenuto. Durante la metà del VI secolo a.C. bisogna allora immaginare l’impianto di Elea fittamente occupato in alcune zone (unità abitative) e spazi vuoti, forse destinati alla vita pubblica e sociale dei suoi abitanti, il tutto chiuso all’interno di mura lunghe 5 km ma spesse ca 1,80 m. Queste sono realizzate con zoccolatura su roccia e taglio poligonale, la cui messa in posa pare essere frettolosa, priva di torri, e dovrebbe risalire alla prima metà del V sec. a.C.

Intorno al 480 a.C. viene realizzato il muro di terrazzamento dell’acropoli con la stessa tecnica poligonale: ciò oblitera gli impianti abitativi tardo arcaici realizzando un’area destinata ad attività pubbliche e religiose. L’area sacra è ben definita da un muro in opera quadrata su tre lati, e il suo ingresso monumentale è aperto sulla città bassa; all’esterno dell’ingresso dell’area religiosa, alla fine del V sec. a.C., viene realizzato un edificio per le assemblee pubbliche trasformato poi in teatro durante l’epoca ellenistica.

Per quanto riguarda la zona della città bassa, le continue catastrofi naturali a causa di mareggiate e alluvioni obbligano la costruzione di un nuovo insediamento, le cui abitazioni sono organizzate attraverso un sistema ad assi ortogonali che resisterà fino al periodo romano. La cinta muraria viene rinforzata con torri, porte e camminamenti.

La fase ellenistica di Elea è fervente nel suo sviluppo, e vede l’inserimento di genti italiche all’interno del suo assetto sociale, come pare evidente sia dalla cultura materiale che da quella epigrafica, la quale restituisce nomi di origine non greca. Questa presenza è probabilmente dovuta al carattere mercantile e commerciale dei Focei. Le abitazioni, più articolate, si abbelliscono di decorazioni pavimentali e parietali; sull’acropoli viene realizzato un tempio ionico, del quale purtroppo non resta nulla, e le cui uniche informazioni sono deducibili dalla planimetria e dal taglio dei blocchi. Come si accennava, l’area pubblica di fine V secolo a.C. viene ora occupata da un teatro e i limiti della terrazza superiore vengono costeggiati da stoai.

A questi rinnovamenti, vanno aggiunte le costruzioni di diverse aree sacre all’aperto lungo il circuito murario, ben nove, che hanno restituito offerte, basi, cippi e stele, e il cui percorso termina nella zona orientale con la cosiddetta terrazza di Zeus (Terrazza A). Alcune delle aree sacre erano edificate su terrazze e dedicate a: Persefone (Terrazza B), il cui culto era senz’altro associato a quello di Demetra e Dioniso; Ermes (Terrazza C), di cui purtroppo l’attribuzione pare essere incerta; Poseidone Asphaleios (Terrazza D), al quale era forse legato un culto di Afrodite Euploia, entrambi protettori della buona navigazione; Atena (Terrazza E). La realizzazione di queste aree sacre è concomitante con il rifacimento del percorso murario, che ora si caratterizza in modo preponderante, e che comprende la famosa Porta Rosa. Porta Rosa, così chiamata dall’archeologo Mario Napoli in onore della moglie alla sua scoperta nel marzo del ’64, era un viadotto che collegava le due sommità naturali dell’acropoli.

La larghezza della sua volta, ca 2,70 m, come sottolineato da Luigi Formicone, architetto e ispettore onorario per i Beni Culturali, non ha a che fare né con le volte di tipo greco né di tipo romano, ma corrisponde ad una larghezza in uso presso gli Italici prima del IV sec. a.C. Le mura, nella zona orientale, costituiscono la fortezza di Castelluccio, che non solo funge da baluardo tra Elea e l’entroterra, ma anche da struttura idrica sfruttando l’acqua sorgiva. Da qui parte un sistema di canali che arriva fino alla parte della città bassa, intervallati da fontane, vasche di raccolta e pozzetti, e che alimentano, tra l’altro, le terme ellenistiche sulla terrazza superiore, e il cosiddetto asklepeion (o forse un ginnasio su più livelli), luogo dedicato a cure mediche di tipo sacro.

Famosa è la scuola medica di Elea le cui dottrine e i cui personaggi, in esilio a causa delle incursioni barbariche, gettarono le fondamenta per la scuola medica salernitana. Le attestazioni riguardano anche il culto di Asclepio, di Apollo Oulios, e di una statua femminile acefala e monca, che il medico e storico/numismatico Pietro Ebner identificava con il tipo “Igea”, oltre ad una serie di epigrafi di erme che ricordano i capi della scuola medica con il nome Oulis precedente il il patronimico, e una serie di monete che raffigurano il serpente, simbolo di Asclepio. Come scriveva Ebner, “Nel ricordo epigrafico, dunque, è evidente il nesso fra la Scuola di medicina e quella, celebre, filosofica degli Eleati, le cui dottrine sono sempre attuali, anche oggi, a venticinque secoli dalla loro prima formulazione, e lo saranno finché l’uomo continuerà a meditare il problema della unità divina” (in Salerno Civitas Hippocratica, anno I (1967), nn. 1-2, pp. 43-49). Perché Elea non fu solo la patria di Parmenide (metà/fine VI sec. a.C.-metà V sec. a.C.), ma il luogo in cui egli fondò la scuola filosofica (presocratica) eleatica, della quale fu allievo e suo discepolo diretto Zenone.

Alla florida epoca ellenistica, la quale abbraccia un rinnovamento architettonico che rispecchia quello socio-culturale, segue il periodo romano. Un trattato tra Roma ed Elea degli inizi del III sec. a.C. ci informa sull’approvvigionamento di navi che Elea fornisce a Roma durante le guerre puniche; nell’88 a.C. Elea, che ora prende il nome di Velia, diventa municipio con forte autonomia, batte moneta e continua ad utilizzare la lingua greca. La città ospita personaggi romani illustri, tra cui il console Lucio Emilio Paolo Macedonico (vincitore di Pidna), Cicerone, Bruto con sua moglie Porzia, Ottaviano e il poeta Orazio. Ciò pone Velia maggiormente in rilievo, risultandone un nuovo assetto urbano di tipo romano, di cui particolare resta la cosiddetta Masseria Cobellis.

Qui è un tempio su terrazze organizzato intorno ad una sorgente naturale e un edificio nell’Insula II del quartiere abitativo di epoca ellenistica variamente interpretato (Nuove e straordinarie scoperte archeologiche al Parco Archeologico di Velia). Della renovatio romana fanno parte anche due impianti termali, uno presso il quartiere del Vignale e uno a ridosso dell’area che collega la città bassa con il quartiere settentrionale e l’acropoli. Il teatro ellenistico, sull’acropoli, subisce rifacimenti e assume la forma di un teatro romano. Velia resta viva e attiva fino al tardo impero, quando la parte bassa della città subisce ulteriori cambiamenti dovuti alla presenza di dense unità abitative che sfruttano parte dell’impianto antico. Del V sec. d.C. è la tradizione del rinvenimento delle spoglie di San Matteo e loro traslazione a Salerno. Successive alluvioni portano la popolazione ad abbandonare la città bassa per spostarsi sull’acropoli.

Sono attestati monaci basiliani, scappati dall’Oriente a causa del periodo iconoclasta della storia religiosa e politica bizantina (VIII sec. d.C.), i quali si insediarono nel Cilento e costruirono a Velia una cappella dedicata a San Quirino, alle spalle del tempio di Atena sulla Terrazza E. Come riferisce Ebner, se Paolo Diacono non cita Velia tra le città lucane più importanti del suo tempo, ciò indicherebbe che all’epoca il sito era stato notevolmente danneggiato, se non addirittura devastato (P. Ebner, Agricoltura e pastorizia a Velia e suo retroterra sai tempi più antichi al tramonto della feudalità, in Rassegna Storica Salernitana, anno XXVI, 1965, p. 29-74).

Pavimento della struttura dell’area sacra
Ph. cortesia dell’Ufficio Stampa per il Ministero della Cultura

Della fine del XIII secolo è la costruzione angioina di una fortificazione che faceva parte del sistema difensivo costiero del Regno di Napoli, di cui oggi resta la torre di Velia, o della Bruca, che si impiantava sui resti di un castello di epoca longobarda, a sua volta costruito sul tempio dedicato ad Atena.

Nel maggio 1927, auspice la Società Magna Grecia, ebbe luogo la prima, e purtroppo breve, campagna di scavi di A. Maiuri. Oltre che a settentrione; dove P. Mingazzini rinvenne tracce di abitazioni, mettendo a luce anche lunghi tratti di mura e una strada a lastroni irregolari, che ritenne della prima metà del IV secolo; si affondò il piccone nella spessa coltre detritica del crinale della collina di bionda arenaria. S’isolarono opere fortificate e si riaprì il serpeggiante sentiero dei miti, che dal propugnarono del Castelluccio (IV secolo, vertice delle fortificazioni: m. 139 sul libello del mare) scende sull’estremità dell’acropoli al Castello medioevale (m 75 sul mare), toccando le varie terrazze di emersione (A – E), riattate dai Focei di Velia per elevarvi poi i loro santuari. Prestigiosi, come la grande ara all’aperto del V secolo della terrazza A, paragonata all’altare di Jerone a Siracusa, l’ellenistico complesso sacro della B, che il Maiuri, per vari caratteri, giudicò dedicato a divinità ctonie e nel quale mi riuscì di identificare il Persephoneion velino; lo stereobate (Terrazza E) del massimo tempio di Velia (primi del V secolo), dedicato ad Athena poliàde. Santuario questo innalzato su un altro più antico all’estremità del colle di Velia, limitato a nord dalle pianure dell’Alento e del Palistro e sud dall’esigua piana della rovinosa Fiumarella di S. Barbara, promontori che dal VI secolo si protendeva nel mare a separare, come a Focea e a Marsiglia, due seni sicuri.

Pietro Ebner, Velia e la civiltà della Magna Grecia
in Il Veltro, 2 anno XI, aprile 1967, pp. 173-184

Fonte principale in https://www.museopaestum.beniculturali.it/area-archeologica-di-velia/

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Chiara Lombardi

Laureata in Archeologia Orientale presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” con una tesi magistrale in Archeologia Egiziana dal titolo “Iside nei testi funerari e nelle tombe del Nuovo Regno: iconografia e ruolo della dea tra la XVIII e la XIX dinastia” (2013), ha conseguito un master di primo livello in “Egittologia. Metodologie di ricerca e nuove tecnologie” presso la medesima Università (2010-2011). Durante il master ha sostenuto uno stage presso il Museo Egizio de Il Cairo per studiare i vasi canopi nel Nuovo Regno (2010). Ha partecipato a diversi scavi archeologici, tra i quali Pompei (scavi UniOr – Casa del Granduca Michele, progetto Pompeii Regio VI, 2010-2011) e Cuma (scavi UniOr – progetto Kyme III, 2007-2017). Inoltre, ha preso parte al progetto Research Ethiopic language project: “Per un nuovo lessico dei testi etiopici”, finanziato dall’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente e dal progetto PRIN 2005 “Catene di trasmissione linguistica e culturale nell’Oriente Cristiano e filologia critico testuale. Le problematiche dei testi etiopici: testi aksumiti, testi sull’età aksumita, testi agiografici di traduzione” (2006-2007). Ha collaborato ad un progetto educativo rivolto ai bambini della scuola primaria per far conoscere, attraverso sperimentazioni laboratoriali, gli usi e i costumi dell’antico Egitto e dell’antica Roma (2014-2015). È stata assistente di ricerca presso la Princeton University (New Jersey) per “The Princeton Ethiopian, Eritrean, and Egyptian Miracles of Mary digital humanities project (PEMM)” (2020-2021). Ricercatrice indipendente, attualmente è anche assistente di ricerca per il Professor Emeritus Malcolm D. Donalson (PhD ad honorem, Mellen University). Organizza e partecipa regolarmente a diverse attività di divulgazione, oltre a continuare a fare formazione. Collabora con la Dott.ssa Nunzia Laura Saldalamacchia al progetto Nymphè. Archeologia e gioielli, e con la rivista MediterraneoAntico, occupandosi in modo particolare di mitologia. Appassionatasi alla figura della dea Iside dopo uno studio su Benevento (Iside Grande di Magia e le Janare del Sannio. Ipotesi di una discendenza, Libreria Archeologica Archeologia Attiva, 2010), ha condotto diversi studi sulla dea, tra cui Il Grande inno ad Osiride nella stele di Amenmose (Louvre C 286) (Master di I livello in “Egittologia. Metodologie di ricerca e nuove tecnologie”, 2010); I culti egizi nel Golfo di Napoli (Gruppo Archeologico Napoletano, 2016); Dal Nilo al Tevere. Tre millenni di storia isiaca (Gruppo Archeologico Napoletano, 2018 – Biblioteca Comunale “Biagio Mercadante”, Sapri 2019); Morire nell’antico Egitto. “Che tu possa vivere per sempre come Ra vive per sempre” (MediterraneoAntico 2020); Il concepimento postumo di Horus. Un’ analisi (MediterraneoAntico 2021); Osiride e Antinoo. Una morte per annegamento (MediterraneoAntico 2021); Culti egiziani nel contesto della Campania antica (Djed Medu 2021); Nephthys, una dea sottostimata (MediterraneoAntico 2021). Sua è una pubblicazione una monografia sulla dea Iside (A history of the Goddess Isis, The Edwin Mellen Press, ISBN 1-4955-0890-0978-1-4955-0890-5) che delinea la sua figura dalle più antiche attestazioni nell’Antico Regno fino alla sua più recente menzione nel VII d.C. Lo studio approfondisce i diversi legami di Iside in quanto dea dell’Occidente e madre di Horus con alcune delle divinità femminili nonché nei cicli osiriaco e solare; la sua iconografia e le motivazioni che hanno portato ad una sempre crescente rappresentazione della dea sulle raffigurazioni parietali delle tombe. Un’intera sezione è dedicata all’onomastica di Iside provando a delineare insieme al significato del suo nome anche il compito originario nel mondo funerario e le conseguenti modifiche. L’appendice si sofferma su testi e oggetti funerari della XVIII dinastia dove è presente la dea.

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