Oggi come nelle città romane di duemila anni fa le elezioni politiche erano precedute da un’intensa campagna elettorale. Il tragico evento vulcanico del 79 d.C. ha permesso la conservazione di molti aspetti della vita quotidiana e quindi politica comprese le scritte elettorali rinvenute dipinte sui muri degli edifici pubblici di Pompei.

Ogni anno in primavera i cittadini venivano invitati a votare quattro magistrati, due duoviri, cui spettava il potere esecutivo e quello giudiziario, e due aediles ai quali era affidata la cura dei pubblici servizi. I requisiti per essere eletti erano: possesso di cittadinanza, nati liberi e con un ricco patrimonio. Si attivava così una insistente propaganda elettorale piuttosto moderata nei termini riportando i nomi dei candidati, la carica per la quale concorrevano, le loro promesse, le raccomandazioni e i nomi dei sostenitori. I manifesti elettorali venivano chiamati programmata, classificabili nella categoria dei tituli picti, cioè iscrizioni parietali generalmente dipinte su muri. Delle 2800 scritte rinvenute non sono state trovate parole volgari, nè attacchi personali per gli avversari ma solo qualche imprecazione e maledizione per gli eventuali sabotatori: “invidioso che cancelli”; “che ti venga un colpo”; “che tu possa ammalarti”.
I candidati dovevano presentare una professio nominis, una dichiarazione ufficiale, sottoposta ad un consiglio che aveva la facoltà di accettare o meno i candidati; seguiva la proscriptio, la pubblicazione della lista, la professiones petentium, l’accettazione delle candidature al magistrato incaricato di presiedere lo scrutinio, e la pubblicazione dei nomi. I candidati si affidavano a personaggi influenti a capo di “comitati elettorali” che siano stati corporazioni di mestiere, società sportive o associazioni di quartiere. Chiunque poteva con assoluta libertà esprimere i propri pareri evidenziando le doti morali dei candidati presentandoli come onesti e virtuosi per suscitare l’ammirazione della popolazione: vir bonus et egregius (galantuomo), verecundissimus (assai modesto), dignissimus (molto virtuoso), benemerens (meritevole d’ogni bene), frugis (parco), integrus (integerrimo), innocens (incapace di far del male). Venivano ricordati anche per particolari capacità come il grande organizzatore di spettacoli, il preservatore dell’erario pubblico o chi prometteva benevolenze degli dei.

Di solito per chiedere un voto era un “vi prego di votare” o ridotta ad una sigla con le iniziali delle tre parole latine “OVF”, oro vos faciatis (vi prego di eleggere). A giochi fatti venivano dipinti anche manifesti per acclamare i vincitori.
Anche se chiunque avrebbe potuto scrivere un manifesto, le scritte venivano realizzate in rosso e in nero su base bianca da piccole squadre specializzate: gli scriptores, i professionisti dei manifesti, il dealbator cospargeva accuratamente di calce il muro e il lanternarius faceva luce con una lanterna in cima a una pertica, mentre reggeva la scala. Il lavoro veniva eseguito di notte quando la città era più tranquilla e nessuno avrebbe potuto recare alcun fastidio e il pittore talvolta firmava le sue insegne elettorali.
La propaganda si svolgeva soprattutto nelle taverne o thermopolia e con l’apertura della campagna elettorale la folla si accalcava lungo le vie principali, nelle posizioni più strategiche della città, per leggere e commentare le iscrizioni; anche le donne si appassionavano alla vita politica, benché non votassero e non potessero essere elette.
Secondo Cicerone occorreva essere molto ricchi per aspirare a cariche politiche perchè le spese elettorali erano a carico del candidato, che solo in caso di elezione veniva rimborsato.
“Votalo, perché durante il suo precedente mandato non è morto neppure un asino!”.
“Mi meraviglio, o parete, che tu non sia ancora crollata sotto il peso delle scempiaggini di tanti scribacchini”.