Il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria continua ad attirare centinaia di migliaia di visitatori non solo per i Bronzi di Riace e la sua straordinaria collezione di reperti provenienti da tutta la regione, ma anche grazie a una ricca programmazione di mostre temporanee.
Oggetti noti affiancano manufatti finora sconosciuti e presentati per la prima volta al pubblico, per raccontare sempre storie differenti, scelte per affascinare il grande pubblico e avvicinarlo al suggestivo mondo dell’antichità. Il direttore Carmelo Malacrino, che da oltre tre anni guida il MArRC, ha attivato numerosi rapporti di collaborazione con i principali musei della Magna Grecia, portando nella città dello Stretto veri e propri capolavori di età greca e romana, come l’eccezione pittura su marmo del Museo Archeologico Nazionale di Napoli che raffigura alcune fanciulle che giocano con gli astragali.
Tre le mostre che attualmente il Museo offre ai suoi visitatori, senza alcun biglietto aggiuntivo. La prima, dedicata a Tanino de Santis. Una vita per la Magna Grecia, presenta circa 300 oggetti della collezione de Santis, recentemente acquisita dal Museo e interamente restaurata. Poi, Oikos. La casa in Magna Grecia e Sicilia offre la possibilità di vivere l’esperienza di conoscere le abitazioni dei Greci d’Occidente, immergendosi nei suoi ambienti tra reperti eccezionali. Infine, ad accogliere i visitatori c’è l’esposizione I sapori delle origini. La cultura del cibo nella Calabria protostorica, curata dal direttore Malacrino e dagli archeologi Francesco Quondam ed Ivana Vacirca.
Perché una mostra sul cibo delle origini? Fra i tanti temi che potevano essere scelti, come mai proprio questo? Una delle risposte alla nostra domanda è sicuramente da ritrovare nella proclamazione del 2018 come Anno del cibo italiano.
Già con Abemus in cena. A tavola con i Romani, il team del MArRC aveva conquistato i visitatori, conducendoli in un viaggio alla scoperta di quelle che erano le abitudini alimentari in epoca romana. Avendo così stuzzicato la nostra sete di conoscenza, la domanda in noi sorge ora spontanea; prima dei Romani e prima ancora dei coloni giunti sulle nostre coste dalla vicina Grecia, le popolazioni indigene di cosa si nutrivano? Quali erano i manufatti legati alle consuetudini alimentari?
Dalle analisi chimiche dei residui presenti nei contenitori, si è potuto confermare che già sul finire dell’età del Bronzo, le colture della vite e dell’olivo erano state addomesticate. Ebbene sì, già in epoca protostorica sui fertili suoli calabresi si potevano cogliere questi frutti che durante l’età del Ferro, agli inizi del I millennio a.C., portarono rapidamente in coltivazioni “specializzate”. La coltivazione base restava comunque quella di cereali e legumi, alimenti principali della dieta protostorica, alla quale ben presto si aggiunse la coltivazione di alcuni frutti: fichi, datteri e melograni. Le coltivazioni erano poi affiancate dall’allevamento di bovini, caprini, ovini e maiali, le cui carni rappresentavano l’altra fonte importante di sostentamento della comunità.
Ma dove avvenivano la lavorazione, la preparazione e la consumazione dei pasti? Diventate ormai comunità sedentarie, i villaggi avevano una continuità di frequentazione con capanne di diverse dimensioni. Al loro interno venivano svolte varie attività legate all’alimentazione: nella zona principale erano poste le macine in pietra lavica per la macinazione dei cereali, mentre le piastre di cottura venivano allestite con piani rialzati in argilla con al di sotto le braci. I forni potevano essere in argilla, sorretti da strutture in pietra o in terra cruda, oppure sfruttare buche poco profonde, con coperture in paglia ed argilla cruda.
È bene sapere che ogni tipologia di vaso serviva per una specifica funzione: le olle, oltre ad essere usate come pentole, servivano anche a conservare gli alimenti; gli scodelloni erano usati per la lavorazione dei cibi o come semplici contenitori; le ciotole, servivano per bere o per mangiare; tazze, boccali e brocche venivano usate sia per bere, che per attingere i liquidi dai grandi contenitori, quali dolii, pithoi e orci destinati alla conservazione di derrate alimentari.
Tuttavia, questi grandi vasi, pithoi e dolii, potevano essere usati anche per assolvere ad altre funzioni ben diverse da quelle legate alla sfera alimentare. Spesso venivano usati anche per le cosiddette sepolture a enchytrismos, che prevedevano la deposizione del defunto al loro interno.
Queste sono le forme dei trentotto straordinari reperti provenienti dai siti protostorici più importanti del territorio Calabrese, esposti, alcuni per la prima volta, nello spazio di Piazza Paolo Orsi al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria.
Un percorso espositivo che, attraverso sei vetrine, accompagna il visitatore lungo tutta la Calabria protostorica, alla scoperta dei corredi delle necropoli di Torre Galli di Drapia (VV) e di Sant’Onofrio di a Roccella Jonica (RC), databili tra la fine età del Bronzo e gli inizi età del Ferro, ma anche della necropoli di Ianchina a Locri (RC) e di Castellace di Oppido Mamertina (RC), entrambe in uso nella Prima età del Ferro. Fra reperti esposti meritano una particolare menzione: la tazza monoansata della necropoli di Torre Galli, datata X-IX secolo a.C.; la ciotola monoansata della necropoli di Sant’Onofrio, datata al X-IX secolo a.C.; lo scodellone monoansato su piede della necropoli di Ianchina, datato all’VIII secolo a.C.; l’orcio su piede della necropoli di Ianchina datato all’VIII secolo a.C., utilizzato per la realizzazione della locandina e della copertina del catalogo della mostra.
Non siete curiosi di vedere e conoscere le forme dei vasi di cui abbiamo parlato e di scoprire con cosa cucinavano e mangiavano i nostri antenati? Allora non resta altro che andare al MArRC ed essere sopraffatti dalla singolare bellezza di questa Mostra.