“Sponsiano, chi era costui?”; in tanti durante questi giorni, sgranando il rosario degli imperatori romani, si sono trovati a condividere il dubbio di don Abbondio. “Augusto, Tiberio, Caligola… Vespasiano, Tito, Domiziano… Traiano, Adriano, Antonino Pio… Settimio Severo, Geta e Caracalla… poi quel pasticcio di anarchia militare… Domiziano, quell’altro pasticcio di tetrarchia fallita… e poi Costantino, Costanzo II, Giuliano…” il nome fatica a emergere dalle profondità della memoria, e si sarebbe tentati di relegarlo ai confusi anni dell’Anarchia Militare o all’ultimo triste (e spesso trascurato sui banchi di scuola) secolo di Impero. Ma la notizia principale è proprio questa: il nome di Sponsiano non fa parte della cantilena mandata a memoria da generazioni di studenti. Si tratta di un nuovo personaggio, riemerso dalle nebbie proprio di quel trentennio di anarchia del III secolo d.C., che andrebbe integrato ex-novo in tutti i sussidiari.
Ma facciamo un passo indietro, che ci riporti al 1713. Quell’anno, in Transilvania, venne rinvenuto un “tesoretto” (ossia un insieme di materiali intenzionalmente raccolti e seppelliti in antico) contenente una moneta d’oro con volto e nome di un imperatore sconosciuto, Sponsiano appunto. La scoperta, tuttavia, non venne accolta con entusiasmo: la mancanza di riferimenti a questo individuo in tutta la letteratura classica, lo stile di realizzazione apparentemente grossolano di questa moneta e la sua unicità fecero da subito sospettare che si trattasse di un falso. Già allora infatti il mercato nero dei collezionisti era incredibilmente prospero, e anzi i falsari agivano con maggior disinvoltura di quanto possano fare al giorno d’oggi. Così, un secolo e mezzo dopo, la moneta venne definita “un falso moderno di pessima qualità” da Henry Cohen, una delle massime autorità di sempre in materia di numismatica romana di età imperiale. Il suo giudizio e la conseguente eliminazione della moneta dal canone formulato nel suo fondamentale Description historique des monnaies frappées sous l’Empire Romain, communément appelées Médailles impériales (“Descrizione storica delle monete battute sotto l’Impero Romano, comunemente detta Medaglie Imperiali”) costituirono la pietra tombale che per quasi due altri secoli ha gravato su questo oggetto.
Pietra che è stata smossa per la prima volta nel 2020 da Paul Pearson, ricercatore del London University College, che all’epoca lavorava a un libro sulla cosiddetta Crisi del III secolo a Roma (edito a marzo di quest’anno col titolo The Roman Empire in crisis, 248-260: when the Gods abandoned Rome). Durante le sue ricerche venne a conoscenza dell’esistenza di questo pezzo unico, conservato presso l’Hunterian Art Gallery di Glasgow, e decise dunque di prenderne visione diretta, scoprendo inoltre che la moneta non era un unicum, ma che era in compagnia di un altro esemplare, molto più rovinato. Accordatosi con il curatore dell’area numismatica del museo, Jesper Ericsson, Pearson si recò in Scozia per riesumare i reperti: entrambi gli studiosi vennero colpiti dalla apparente antichità delle monete, e decisero dunque di sottoporle alle più moderne analisi archeometriche non-invasive disponibili, per verificarne l’eventuale antichità in maniera più accurata di quanto potesse fare, a suo tempo, Cohen.
I risultati delle indagini, tra cui l’osservazione della patina e della superficie delle monete con un microscopio elettronico e l’analisi degli elementi costitutivi del metallo agli infrarossi (Ftir), sono stati pubblicati dal team di esperti sulla rivista Plos One. La presenza di numerosissime micro-abrasioni, anche molto profonde, e la composizione chimica dei depositi di terra sulla superficie sembrano indicare a gran voce la stessa cosa: la moneta è effettivamente circolata per diverso tempo, tanto da rovinarsi in maniera importante, ed è poi rimasta sottoterra per secoli. Anche il confronto con monete di sicura antichità supporta la tesi della originalità dei due “sponsiani”.
Ma cosa è effettivamente raffigurato sulle due monete? Sul rovescio, ossia la faccia posteriore, è presente regolarmente il ritratto imperiale, il profilo della testa dell’imperatore con una corona radiata, accompagnato dal nome del personaggio raffigurato (“IMP · SPONSIANI”). Sul diritto è invece raffigurata una scena complessa, in cui da sinistra a destra si possono riconoscere un personaggio togato, stante, rivolto verso il centro dell’immagine dove al di sopra di una colonna si erge una statua che brandisce una lancia; ai piedi della colonna sono tre spighe di grano e oltre ad esse un augure, che impugna il tipico lituus. Henry Cohen a suo tempo considerò il ritratto eccessivamente sciatto per essere di produzione romana, mancando di precisione, bellezza e dettaglio, mentre definì la scena del diritto come una brutta copia di un denario repubblicano del 135 a.C., concludendo così che si trattasse di un’opera approssimativa e poco fantasiosa di un falsario settecentesco.
Gli studi di Pearson ci obbligano tuttavia a riconsiderare queste valutazioni. Lo studioso britannico ha inizialmente proposto di datare le due monete al regno di Filippo l’Arabo (244-249 d.C.), per poi aggiustare il tiro posponendone la battitura intorno al 260 d.C., quando a Roma era imperatore Gallieno. Proprio in questi anni l’Impero viveva una gravissima frammentazione, con la secessione delle province galliche, ispaniche e britannica con il nome di Impero delle Gallie sotto Postumo (260-269 d.C.) e delle province orientali e dell’Egitto sotto Macriano Minore (260-262 d.C.), con un’entità statale che confluirà nel più celebre Regno di Palmira di Odenato e Zenobia. Inoltre, le incursioni oltre il limes di Goti e Alamanni crearono ulteriore caos, e furono probabilmente ciò che spinse le legioni delle province di confine a salutare come imperatori (di fatto usurpatori) i loro comandanti. La frattura verrà ricomposta solo da Aureliano, imperatore dal 270 al 275 d.C., che riunificò l’integrità dei domini di Roma, e tuttavia sarà lui a rinunciare ufficialmente alla provincia di Dacia nel 271 d.C., ordinandone quella che è nota come una ordinata evacuazione al di qua del Danubio.
In questo contesto si inseriscono le due monete, rinvenute nell’odierna Romania, ossia l’antica provincia dacica dell’impero, celebre per le sue ricchissime miniere d’oro e de facto fuori dal controllo di Roma già dalla calata dei Goti in Moesia (odierna Bulgaria) degli anni ’60 del III secolo. Esse costituiscono, come già detto, l’unica traccia disponibile per la nostra ricostruzione della storia, che assume così purtroppo i contorni di una mera, per quanto probabile, speculazione. Pare che due legioni di stanza in Dacia in quel decennio conseguissero una vittoria sui Goti proprio nel 260 d.C., senza essere tuttavia in grado di arrestarne l’avanzata ma deviandole semplicemente verso sud. Queste allora, abbandonate a sé stesse dalla troppo debole autorità di Roma e circondate da una situazione di caos politico e violente incursioni barbariche, avrebbero potuto acclamare imperatore il loro comandante, Sponsiano appunto; questo a sua volta, sfruttando le miniere del paese, avrebbe potuto battere moneta con la sua effigie, esattamente come negli stessi anni facevano Postumo, Macriano e Odenato. La sorte di questo usurpatore non è altrimenti ricostruibile, mancandone notizie letterarie ed epigrafiche; tuttavia, l’ordine di evacuazione imposto da Aureliano e prontamente eseguito da legioni e popolazione romana locale lascia intendere che il supposto regno di Sponsiano sia stato breve e che gli abitanti fossero, nel giro di pochissimi anni, tornati spontaneamente a rispettare l’autorità di Roma.
Quel che è certo, ancora una volta, è quanto precarie siano le nostre conoscenze circa la storia antica, e quanto importante nella ricerca storica sia non solo l’analisi di nuovi elementi, ma anche la costante rivalutazione di quanto noto, anche grazie all’ausilio di moderni metodi d’indagine scientifica. Collaborazione dunque tra storici, archeologi e specialisti di settore come numismatici e archeometri, dev’essere la parola d’ordine per la risoluzione degli affascinanti e mai del tutto chiari enigmi del passato.