Il titolo di questo articolo è mutuato per intero dal libricino che ho acquistato presso il Museo Archeologico del Territorio di Populonia, perché è evocativo e perché è il motivo per cui quel libretto, insieme ad altri testi, ha attirato la mia attenzione e l’ho comprato.
Si tratta di un “quaderno” curato da Giandomenico De Tommaso e Anna Patera e pubblicato dalla Parchi Val di Cornia, una società a capitale misto pubblico e privato che raccoglie i parchi e i musei archeologici presenti nella Val di Cornia: il territorio a cavallo tra la Maremma Livornese e quella Grossetana.
Il soggetto di cui si racconta nel “quaderno” è un mosaico oggi custodito presso il Museo Archeologico del Territorio di Populonia, luogo dove si racconta la lunga storia di questa importante città stato etrusca attraverso un percorso ricco di circa 2000 reperti. Un mosaico che già nel 1932 Antonio Minto, Soprintendente delle Antichità dell’Etruria, dichiarò di interesse nazionale nel tentativo di vincolarlo al territorio di provenienza, ma che negli anni Sessanta del Novecento fu acquisito illegalmente da un ignoto collezionista inglese per la somma di soli di 4 milioni di lire. Lo Stato Italiano riuscì ad acquisirlo ad un’asta londinese solo nel 1995 grazie alla segnalazione di Susan Walker, archeologa del British Museum specializzata nello studio dell’arte romana, dopo un primo tentativo di recupero fallito a metà degli anni Settanta.
Era il 1842 quando in una “vigna posta al di sopra di un muro, sostenuto da sei archi ben grandi, d’opera indubbiamente romana, i quali vedonsi di faccia alla porta della moderna Populonia […] il contadino nel lavorare il terreno sentì che un solido impediva la sua vanga, rimossene la terra che copriva quel solido, trovò essere questo fino e prezioso mosaico […] largo quattro braccia e lungo tre e mezzo, di forma quadrata, menoché dal lato che guarda levante, ove il piano suddetto è centinato”.
A scrivere questo resoconto, unico documento che ci dà notizie del mosaico e del luogo di rinvenimento, è l’archeologo Francesco Inghirami che si trova in una posizione di privilegio, essendo lo zio del proprietario del terreno dove avviene la scoperta.
Dal 1695, infatti, il territorio di Populonia e gran parte della piana di Piombino era di proprietà della famiglia Desideri e il conte Giovanni, esperto in scienze agrarie e appassionato di antichità, da tempo aveva promosso attività di scavo su consiglio della madre, Orsola Inghirami, sorella di Francesco, l’archeologo per l’appunto.
La nonna materna del conte Desideri, Livia Venuti, proveniva da un’antica famiglia di Cortona di cui facevano parte i fratelli Filippo, Ridolfino e Marcello, tutti e tre archeologici e storici tra i fondatori dell’Accademia Etrusca di Cortona nel 1726. La storia antica e l’archeologia si respirava da decenni nel ramo materno di Giovanni, che accolse con grande interesse la scoperta casuale di questo “fino e prezioso mosaico”.
Quello che vediamo oggi valorizzato in museo è un mosaico assai diverso da quello che apparve al contadino nel 1843. Ne è prova l’unica foto d’archivio che fu scattata poco dopo lo stacco del pavimento musivo, dove il reperto mostra un’ampia lacuna che interessa circa due terzi della superficie, con una vasta zona centrale e una minore sul lato destro, prive ormai di decorazioni. Al centro un’area rettangolare non interessata dalle tessere del mosaico e totalmente scomparsa nel restauro moderno, fa supporre la presenza di un basamento su cui poteva essere appoggiata una statua o una fontana.
Qualche decennio dopo il ritrovamento il mosaico entrò nel mercato antiquario e fu oggetto di diversi passaggi di proprietà, tra questi la nota famiglia Crastan che dal 1870 produce caffè e suoi surrogati in quel di Pontedera. Fu proprio durante lo spostamento verso Villa Crastan che il furgone incaricato del trasporto si ribaltò provocando la rottura in più punti del reperto. Le varie parti furono rimesse assieme su una base di cemento, armato con una sottile rete metallica, partendo dalla parte inferiore, la meno danneggiata.
Il restauro fu poi completato senza il rigore del moderno metodo scientifico, integrando le parti mancanti con antiche tessere sciolte ed aggiungendo un gran numero di tessere nuove alterandone l’aspetto originale – che comunque era per gran parte ignoto – aumentandone di poco le misure (2,38 m di larghezza e 2,08 m di lunghezza).
In totale sono presenti 24 specie tra pesci e molluschi che sembrano muoversi liberamente in un fondale marino, realizzate con tessere in marmo policrome nei colori giallo ocra, rosso scuro, grigio di varie tonalità, nero, bianco, verde scuro ed altri ancora. Delle specie presenti, 12 sono state realizzate ex novo e 6 ricostruendo figure antiche già presenti nel mosaico.
In occasione del nuovo allestimento del pavimento musivo all’interno del Museo è stata eseguita una profonda ripulitura volta ad eliminare gli strati di deposito che si sono accumulati nel corso del tempo, ravvivandone i colori e consentendone una migliore lettura.
Le specie sono quelle presenti sulla costa tirrenica e l’accuratezza con cui sono state realizzate consente di riconoscerne le varietà, come ad esempio lo scorfano rosso, la spigola e il famoso calamaro con gli occhiali da sole che si trovano nella parte bassa del mosaico, quella originale.
In basso a sinistra l’antico mosaicista ha composto le tessere in una scena assai originale di naufragio, dove una grande onda travolge un’imbarcazione ormai capovolta, con a bordo tre marinai il cui destino sembra essere segnato.
L’esecuzione di questa figura appare incerta rispetto alla sicurezza che mostrano le altre immagini. Questo fa supporre che l’artista, di fronte ad una richiesta senza dubbio inusuale da parte del committente, non avesse a disposizione un “cartone” per un’esecuzione più fluida e dinamica del naufragio e che fu costretto ad improvvisare, ispirandosi forse agli ex voto lasciati dai marinai che sicuramente doveva aver visto nel corso della sua vita.
Questa immagine nasconde anche un’interpretazione particolare su cui vale la pena soffermarci.
Probabilmente nella collocazione originale era possibile girare intorno all’elemento centrale del mosaico (fontana o statua) suggerito dal rettangolo oggi scomparso e di cui abbiamo già detto, offrendo così un punto di vista differente dell’immagine del naufragio. L’imbarcazione in questo caso non è ancora del tutto travolta e i marinai sembrano invocare una colomba, simbolo di Afrodite, che nel punto di vista precedente risulta essere un mollusco del tutto estraneo alla scena. L’esito qui è tutt’altro che scontato e l’intervento della divinità potrebbe salvare la vita all’equipaggio.
Secondo questa lettura dell’immagine potremmo trovarci di fronte ad uno schema iconografico già attestato in altri luoghi dove la valenza “doppia” della figura (mollusco/colomba) ha un forte valore apotropaico: se Afrodite (colomba) era ampiamente venerata come dea del mare e della navigazione, il Tritone (mollusco) aveva il potere di placare le tempeste.
“La scena, quindi, si inserisce nel contesto dell’ambiente marino da un lato, dall’altro fa riferimento al prodigio del salvataggio dei marinai attribuito all’intervento della divinità. Si tratta, nel nostro caso, della grande dea Astarte fenicia, venerata in Sicilia come Afrodite Ericina, e in altri santuari del Mediterraneo come la dea euploia per eccellenza, protettrice della navigazione. L’edificio delle Logge con i suoi mosaici (possibili ex voto di marinai) potrebbe dunque aver fatto parte di un grande santuario” (Daniele Manacorda in: “Il mare in una stanza. Un pavimento musivo dall’acropoli di Populonia”, edito da Parchi della Val di Cornia S.p.A., 2009).
Nel 1998, dopo circa 160 anni dalla scoperta casuale del mosaico, la Soprintendenza dei Beni Archeologici della Toscana con le Università di Pisa e Siena ha avviato un’attività di scavo archeologico nel terrazzamento superiore delle Logge, individuando l’ambiente da cui molto probabilmente proviene il mosaico dei pesci.
È possibile che si tratti di un ninfeo o di una fontana con due esedre, entrambe per forma e misura in grado di alloggiare perfettamente il pavimento musivo, la cui datazione, che determina dunque anche la datazione di questo splendido reperto, è fatta risalire al secondo quarto del I sec. a.C.
Populonia era situata sulle due alture del Molino e del Castello, unica città-stato della Dodecapoli etrusca ad affacciarsi sul mare. La sua posizione risultava essere particolarmente felice, consentendole il dominio del mare e l’uso di un’ampia baia dal sicuro approdo, oltre ad un entroterra fertile e boscoso, in grado di garantire raccolti abbondanti e legname a sufficienza per la produzione metallurgica.
In più di vent’anni di attività, dove centinaia di studenti di varie università hanno potuto affinare la loro formazione con laboratori sperimentali a cielo aperto, la collaborazione tra la Soprintendenza, il Comune di Piombino e la Società Parchi Val di Cornia ha portato avanti un modello virtuoso che ha saputo affrontare i temi della conservazione e della valorizzazione del parco archeologico.
Nel corso di questi anni un’ampia area della città romana è stata resa visitabile, con i suoi ambienti termali, le sue strade basolate, una grande domus, i templi. E l’imponente complesso delle Logge con le sue arcate, dove gli scavi hanno restituito, tra altre splendide cose di cui vi parleremo ancora, la struttura interpretata come fontana o ninfeo decorata con il Mosaico dei Pesci.