Ci sono comportamenti e attività talmente connaturati alla natura dell’essere umano, da apparire assolutamente naturali e “senza tempo”. La scienza, tuttavia, applica il suo rigore d’indagine anche a queste apparenti normalità, a volte confermandone l’incommensurabile antichità, a volte sorprendendoci e rivelandone una relativa “giovinezza”. Si scopre così che ci fu un tempo in cui gli esseri umani non mangiavano patate ma le donne si truccavano, o un tempo in cui non si scriveva ma già, con ogni probabilità, ci si scambiava vigorose strette di mano, e addirittura che le lettere di reclamo per una spedizione deludente sono più antiche non solo di Amazon, ma dell’invenzione stessa della Posta (cosa che in Italia, forse, non ci sorprende).
Ecco quindi che anche una pratica quotidiana e diffusa come il bacio romantico è stata oggetto di studi approfonditi. Questo comportamento è stato ripetutamente osservato in natura tra gli scimpanzé e i bonobo, suggerendo che possa trattarsi di un comportamento ancestrale sviluppato da un lontanissimo antenato comune tra Uomo e Primate, come forse ognuno di noi sarebbe tentato di ipotizzare. Ma alla scienza servono prove, e fino a oggi le testimonianze dirette ed esplicite dell’uso del bacio faticavano a risalire di molto oltre i tremila anni fa, tanto che era teoria comune che la pratica si fosse sviluppata poco prima dell’anno 1000 a.C. in un’imprecisata località nel sud dell’Asia.
A smentire questa teoria sono recentemente intervenute le ricerche di un duo di ricercatori danesi, Sophie Lund Rasmussen e Troels Pank Arbøll, che attraverso lo studio di antica documentazione scritta mesopotamica hanno potuto affermare con sicurezza che la pratica risale quantomeno a mille anni addietro, pur essendo probabilmente ancor più antica. In particolare, Arbøll afferma che “nella Mesopotamia antica (…) le persone scrivevano in caratteri cuneiformi su tavolette di argilla. Molte migliaia di queste tavolette di argilla sono sopravvissute fino ai giorni nostri e contengono esempi chiari che il bacio era considerato parte dell’intimità romantica nell’antichità, così come il bacio poteva far parte delle amicizie e delle relazioni familiari”.
Tra le prove portate a sostegno delle proprie affermazioni, i due ricercatori hanno mostrato una tavoletta babilonese, datata al 1900 a.C. circa, redatta naturalmente in cuneiforme, in cui hanno individuato una delle descrizioni del bacio più antiche in assoluto. Recita il testo: “Il mio labbro superiore s’inumidisce, mentre il mio labbro inferiore trema! Lo abbraccerò, lo bacerò (…)!”. Una descrizione poetica ed estremamente vivida, capace di attraversare i millenni che ci separano da essa per colpirci dritto al cuore. Forse meno romantica ma ancor più esplicita è la raffigurazione che accompagna questo testo: un uomo e una donna, nudi, sdraiati viso a viso su un divano, nell’atto di scambiarsi un bacio appassionato e tutt’altro che casto.
Decisamente meno poetica ma altrettanto affascinante è una riflessione scaturita a partire da quest’indagine, legata alla storia della medicina e delle malattie: la diffusione capillare, attraverso la pratica del bacio, di virus e malattie quali l’herpes labiale. Se infatti, come suggerito dalle ricerche di Arbøll e Rasmussen, “il bacio non dovrebbe essere considerato una consuetudine che ha avuto origine esclusivamente in una singola regione (…), ma sembra piuttosto essere stata praticata in molteplici culture antiche nel corso di diversi millenni”, allora “gli effetti del bacio in termini di trasmissione di patogeni devono probabilmente essere stati più o meno costanti”. Tradotto, se la pratica del bacio affonda veramente le sue radici nel passato più remoto dell’umanità, rendendola una pratica quotidiana e diffusa indistintamente in tante aree del globo, allora ha con ogni probabilità avuto un ruolo chiave nella trasmissione di alcune malattie ancor oggi esistenti.
In particolare, i due studiosi dell’Università di Copenaghen fanno riferimento a una malattia ampiamente nota attraverso i testi cuneiformi, la cosiddetta “bu’shanu”, i cui sintomi (formazione di vescicole attorno e all’interno del cavo orale, fino alle profondità della gola) sembrerebbero perfettamente sovrapponibili a quelli dell’herpes simplex: nient’altro che il comunissimo herpes. L’ipotesi non è stata ancora accettata a pieno titolo all’interno della comunità scientifica e necessiterà di altre prove e discussioni, ma Arbøll e Rasmussen confidano che il ricorso ad analisi di campioni di DNA antico possano portare a una svolta decisiva.