Aveva suscitato stupore, poco tempo fa, la notizia della scoperta a Pompei di un “fast food” dell’antica Roma, ossia una struttura di poco meno di duemila anni d’età, adibita alla produzione e vendita di cibo, prospicente una strada. Ebbene, una missione congiunta delle Università di Pisa e di Philadelphia, co-diretta da Sara Pizzimenti e Holly Pittman, ha fatto ancor meglio. Nel corso dell’appena conclusa campagna di scavo, infatti, sono stati portati alla luce i resti di un antichissimo “ristorante” sumero, di quasi 5.000 anni d’età, nella città di Lagash.
La scoperta è avvenuta nel panorama del “Lagash Archaeological Project”, un piano di ricerche avviato nel 2019 dai due atenei e teso a indagare non più i grandi complessi religiosi o i palazzi della città, bensì le sue aree più umili. La struttura è stata individuata infatti all’interno di un quartiere abitativo, e si componeva di ambienti deputati alla preparazione e alla conservazione del cibo, nonché alla sua consumazione nel grande cortile con banchette in mattoni crudi. Forse, più che un ristorante, il tutto è meglio paragonabile a un’osteria o a una trattoria, dove accanto alla cucina e al magazzino, attivi a ritmi forsennati, si trova una “sala” destinata a ospitare decine di commensali in un contesto rustico ma accogliente.
Incredibili alcuni ritrovamenti. Oltre ai resti di un centinaio di scodelle e ciotole per la consumazione dei pasti, e ai già citati classici dispositivi per la conservazione dei cibi, sono stati rinvenuti molti resti delle pietanze stesse, preziosissimi per i moderni ricercatori. Come spiegato dalla stessa prof.ssa Pizzimenti, il ritrovamento “è in grado di gettare nuova luce sullo studio dell’alimentazione e della cucina dell’Antica Mesopotamia, finora principalmente nota e approfondita solo attraverso i testi”. Praticamente, la differenza che ci sarebbe tra lo studiare la cucina di Cracco leggendone stralci di recensioni e poterne invece fare degli assaggi: una bella differenza.
Infine, è emerso anche un curiosissimo antesignano del frigorifero, lo “zeer”. Il termine, arabo, indica uno speciale grande “vaso doppio”, tutt’oggi in uso presso molte popolazioni dell’areale, in quanto efficacissimo per la conservazione di alimenti deperibili. Il dispositivo si compone di due recipienti d’argilla, posti l’uno dentro l’altro: all’interno del più piccolo trovano posto i cibi, mentre l’intercapedine formatasi tra i due viene riempita con sabbia o argilla bagnata. Per aumentare l’effetto, il tutto può essere interrato. A questo punto, il processo di refrigerazione funziona in maniera semplicissima: l’acqua con la sabbia/argilla funge da isolante rispetto alle temperature esterne, e l’acqua con la quale è stata bagnata assorbe il calore dall’interno del vaso per poter evaporare.
In questo modo, nel III millennio a.C., versando acqua nell’intercapedine 2/3 volte al giorno, gli “osti” di Lagash potevano conservare diversi chili di verdure fino a 20 giorni. Il tutto, naturalmente, senza elettricità, bollette o ghiaccio!