Venerdì 17 settembre 1817: il piccolo gruppo di indigeni che dal giorno precedente aveva iniziato a scavare ai piedi di un pendio scosceso nel piccolo ramo laterale della Valle dei Re continuava senza convinzione il lavoro sotto l’occhio attento del loro capo, Giovanni Belzoni, che li osservava senza mai perderli d’occhio dall’alto dei suoi due metri d’altezza. Gli operai avevano già rimosso con le mani, e aiutandosi con piccole zappe, tre metri di pietrame senza alcun risultato: lo straniero, pensavano, doveva essere un po’ pazzo, persuasi che si trattava di una perdita di tempo e di una fatica inutile, ma siccome la loro fatica era comunque ben pagata, obbedivano in silenzio e senza discutere.
Belzoni aveva, però, la straordinaria capacità di intuire cosa si celava sottoterra sia che si trattasse di una statua che di una tomba ed era dotato di una volontà di ferro e di una certa dose di fortuna.
Padovano di origine ma diventato suddito di Sua Maestà Britannica era arrivato in Egitto dalla lontana Inghilterra per puro caso in qualità di esperto di idraulica e si era convertito in cercatore di antichità al servizio del console inglese Henry Salt che, come quasi tutti i rappresentanti diplomatici delle principali potenze europee, raccoglieva reperti archeologici per inviarli al proprio paese ; spesso questi uomini si scontravano tra di loro per ottenere il diritto di scavare in una data zona ritenuta promettente e accaparrarsi così eventuali reperti archeologici in quella che, successivamente, fu definita come la «guerra dei Consoli».
Pochi giorni prima a poche decine di metri di distanza Belzoni aveva scoperto la tomba di Ramesse I, il fondatore della XIX Dinastia, e ora, senza una ragione precisa, ma guidato dal suo infallibile fiuto, pensava e sperava di trovarne una seconda.
Alla fine della seconda giornata di scavo gli operai avevano asportato altri tre metri di ciottoli e ghiaia quando, verso sera, si imbatterono con grande sorpresa in un blocco di roccia compatta che sembrava l’architrave di una porta. L’indomani mattina, il 18 ottobre, in quello che Belzoni definì «il giorno più bello della mia vita», gli scavi misero alla luce l’ingresso di una tomba.
Dopo aver praticato un pertugio e averlo allargato in modo tale da permettere il passaggio alla sua colossale figura, Belzoni, brandendo una fiaccola, penetrò all’interno dell’ipogeo trovandosi all’interno di un lungo corridoio che, con il soffitto decorato da immagini di un avvoltoio con le ali spiegate in segno di protezione, scendeva nel cuore della montagna tebana. Belzoni non poteva certo sapere che stava entrando nella tomba di Sethi I, figlio di Ramesse I e padre del grande Ramesse II. Il corridoio continuava con una ripida scala alla quale faceva seguito un secondo corridoio le cui pareti erano decorate con geroglifici e pitture ma che terminava con un profondo pozzo aldilà del quale vi era una parete. Questi pozzi, che si trovano anche in altre tombe, venivano scavati sia per raccogliere le acque in caso di pioggie torrenziali, sia per sviare eventuali ladri, sia a scopo rituale e simbolico in quanto evocazione del mondo sotterraneo. L’indomani, dopo aver disposto sul pozzo delle assi di legno, Belzoni fece praticare un foro nella parete e continuò la sua esplorazione trovandosi in una vasta sala splendidamente decorata il cui soffitto era sostenuto da quattro pilastri sui quali vi erano immagini del faraone al cospetto di diverse divinità. Infine un terzo corridoio e un’altra scala immettevano nella camera sepolcrale costituita da una grande sala a sei pilastri che continuava in un’altra sala sul cui soffitto a volta, dipinto con un colore blu intenso, si stagliavano dipinte in colore giallo le rappresentazioni delle stelle, delle costellazioni e dei pianeti. Al centro della sala vi era uno splendido sarcofago in alabastro egiziano (calcite) interamente ricoperto da geroglifici e disegni di colore azzurro e talmente sottile che avvicinandogli una torcia appariva trasparente talmente bello «il quale non poteva averne – scrisse Belzoni – uno simile al mondo».
Il sarcofago era vuoto e senza coperchio del quale Belzoni non ritrovò che dei frammenti. La mummia reale, infatti, venne prelevata e trasportata dai sacerdoti, insieme a quelle di molti altri faraoni, in un nascondiglio scavato nelle viscere della montagna tebana verso il 968 a.C., circa ottocento anni dopo la morte di Sethi, per metterla al riparo dai profanatori e dai saccheggiatori dell’epoca e fu scoperta solo nel 1881. La tomba, la più grande e la più profonda di tutta la Valle dei Re e la prima ad essere interamente decorata con i grandi testi liturgici del Nuovo Regno come il Libro delle Porte, il Libro dell’Amduat e le Litanie di Ra, era praticamente vuota e Belzoni non ritrovò che diverse centinaia di ushabti (oltre 700), le piccole statuette magiche che erano un elemento essenziale del corredo funerario delle tombe reali e dei dignitari e che avevano il compito di svolgere al posto del defunto i gravosi lavori agricoli nei campi dell’Aldilà.
Belzoni, coadiuvato dal disegnatore e medico senese Alessandro Ricci, impiegò oltre sei mesi a fare un rilievo completo delle decorazioni parietali della tomba che espose al publico al suo ritorno a Londra nel 1821 nell’Egyptian Hall di Piccadilly in quella che può essere definita la prima mostra egittologica del mondo nella quale vennero ricostruite a grandezza naturale due sale della tomba.
Belzoni tra mille difficoltà recuperò il sarcofago che venne inviato in Inghilterra : proposto al British Museum venne rifiutato in quanto ritenuto troppo costoso e fu acquistato nel 1824, quattro mesi dopo la morte di Belzoni, dall’architetto e collezionista Sir John Soane, che la espose nella sua casa-museo londinese, dove si trova tutt’ora.
Bell’ articolo Alberto e altrettanto per il tuo “VALLE DEI RE” che mi farà da traccia fra qualche giorno a Luxor.
Mario
Dimenticavo anche il tuo (con Leblanc) “NEFERTARI e la Valle delle Regine”,comprato e letto nel lontano 2002 e sperimentato in campo dopo 17 anni.