Foto di copertina: Altorilievo costituito da una coppia di cavalli alati di profilo, scalpitanti, aggiogati ad una biga, Museo Archeologico di Tarquinia.

Ogni grande impero del passato affondava le sue radici nei “pignora”, ovvero nei pegni, nei talismani, che ne proteggevano la potenza politica e ne garantivano la continuità, la stabilità nel tempo e l’invincibilità.

Servio Mario Onorato nei suoi “Commentarii ad Vergilii Aeneidos libros”  (VII, 188) ricorda i “septem pignora” con queste parole:

Septem fuerunt pignora, quae Imperium Romanum tenent: Acus Matris Deum, Quadriga fictilis Veientanarum, Cineres Orestis, Sceptrum Priami, Velum Ilionae, Palladium, Ancilia”.

 “Sette furono i talismani che tengono in piedi l’impero romano: l’ ago della madre degli dei (Cibele), la quadriga d’argilla dei Veienti, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il velo di Iliona, il Palladio, i dodici scudi detti “Ancilia”.

Cibele (Magna Mater) in trono fra due leoni. Statua, marmo con dedica al senatore Virius Marcarianus , seconda metà del III sec. d.C., da Ostia antica. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Credits: Museo Archeologico di Napoli.

 

Cibele Idea (dal monte Ida), chiamata a Roma la “magna mater”, era una divinità primordiale, il cui nome (dal greco: Κυβέλη – Kybelē; latino: Cibelis) e le cui peculiarità sono stati oggetti di culto in area anatolica e preellenica: dea della natura, degli animali (potnia theron, espressione utilizzata per la prima volta da Omero in riferimento ad Artemide) e dei luoghi selvatici, aveva un santuario di straordinaria importanza a Pessinunte, nella Frigia, dove la dea era venerata nella forma di pietra nera. Nelle cerimonie funebri che si tenevano in suo onore durante l’equinozio di primavera, i sacerdoti della dea, i Coribanti, suonavano tamburi e cantavano in una sorta di estasi orgiastica, nel corso della quale alcuni arrivavano ad evirarsi con pietre appuntite, rappresentando un passaggio del mito.

Dopo la diffusione del suo culto in Grecia, dove si identificò in Rea o Demetra, il culto della dea Cibele, sotto le sembianze della pietra nera a forma di ago (cioè conica) e tradotta in lapis niger, arrivò a Roma nel 204 a. C., in piena II guerra punica: interessante è la narrazione ovidiana della vicenda della concessione del lapis da parte di un alleato della res publica romana, Attalo I, re di Pergamo, e il trasporto della stessa via nave. I Romani speravano, su suggerimento dei libri sibillini e dell’oracolo di Delfi, che l’arrivo della pietra nera, venerata da allora in poi come uno dei sette oggetti (pignora imperii) che avrebbero garantito il potere dell’Urbe, li avrebbe aiutati nel conseguimento della vittoria durante la II guerra punica.

I cittadini più illustri, guidati dal vir optimus Scipione Nasica, scelto tra senatori, accolsero la reliquia. Sembra che ad un certo punto la nave si sia incagliata in un banco di sabbia sul Tevere e che per sbloccarla si sia ricorsi ad una vestale (o ad una matrona sposata) Claudia Quinta, che, slacciatasi la cintura della veste, la utilizzò per trainare la nave in difficoltà. E, poiché l’onore della donna, sorella del console Appio Claudio, era stato da poco messo in discussione, la riuscita dell’impresa la liberò da ogni sospetto. E fu un bene per lei, viste le condanne previste in età repubblicana per le donne che infrangessero il silenzio o che si vestissero o camminassero in maniera considerata impropria. Ed era il caso di Claudia Quinta.

A Roma esiste ancora il lapis niger, che per alcuni è la reificazione della dea Cibele (betilo della dea): è un misterioso manufatto che molti fanno risalire al VI secolo a.C. e che dovrebbe identificarsi nella tomba di Romolo. Si tratta di un cippo mutilo con un’iscrizione quasi del tutto illeggibile con andamento bustrofedico. Il testo, se ben interpretato, sembrerebbe essere una maledizione al profanatore del luogo sacro ed è scritto in latino arcaico, il cui alfabeto è di origine greco-etrusca. Alcuni, come detto, legano il lapis a Cibele, supportando la loro teoria con alcuni indizi: all’epoca di Varrone esistevano ancora due leoni accovacciati, figure tipiche, in Italia come in Grecia, di guardiani dei sepolcri, ma anche rappresentazioni legate all’ iconografia della dea.  Inoltre ad essere nero è il pavimento di marmo che ricopre il lapis niger.

Ed è singolare che si attribuisca al cippo il nome di lapis, sottolineando la materia da cui è costituito e non la sua funzione, evidentemente sacrale.

Lapis niger. Durante degli scavi condotti alla fine del XIX secolo da giacomo Boni sul Foro Romano, venne rinvenuto un altare con un cippo che presentava un’iscrizione con una delle più antiche testimonianze scritte della lingua latina, la prima ad uso pubblico, e databile intorno al 575-550 a.C.
Museo del Foro, Parco Archeologico del Colosseo. Credits: Paolo Bondielli

Quanto alla pietra, essa è stata variamente definita nel corso della storia romana: Livio la chiama “sacrum lapidem” , Marziale, alludendo al colore, “phrygiae matris ferrum”, Claudiano “religiosa silex” (“De raptu Proserpinae”, I). Arnobio, che la vide con i propri occhi, la definì, nella sua opera “Adversus gentes”(VII), “pietra di colore bruno e oscuro” (“coloris furvi atque atri”).

Il secondo pignus era la quadriga dei Veienti, rappresentava il carro di Giove ed era stata realizzata in terracotta. Fu il settimo re di Roma, l’etrusco Tarquinio il Superbo, che la ordinò a Vulca, artista di Veio. Era considerata un talismano perché, durante la cottura in forno, si gonfiò a dismisura e si dovette rompere il fornello per estrarla. L’ evento fu interpretato come fausto per la futura potenza del popolo romano. La quadriga era collocata sul punto più alto del Campidoglio, ma probabilmente ad essere esposta fu una copia, poiché i Romani temevano che i nemici potessero impadronirsene.

Più tardo e da collocarsi in età augustea è il pignus rappresentato dalle ceneri di Oreste, figlio di Clitemnestra e Agamennone, la cui morte vendicò col matricidio. Oreste, secondo una variante del mito, peregrinò a lungo perseguitato dalle Erinni. Arrivò fino in Tauride dove fu salvato da morte certa da sua sorella Ifigenia, che, salvatasi dal sacrificio che voleva imporle il padre in partenza per la guerra di Troia, era diventata sacerdotessa di Artemide.

Mosaico di Oreste e Ifigenia. II mosaico rappresenta Oreste nudo e quasi di spalle, con il mantello appoggiato sulla spalla sinistra, difronte è la sorella Ifigenia vestita in abiti sacerdotali con una statuetta in mano.
La scena si riferisce all’incontro fortuito tra Oreste ed Ifigenia presso il tempio di Artemide in Tauride, narrato da Euripide nella tragedia “Ifigenia in Tauride“.
Trovato probabilmente a Roma e databile al I secolo a.C. Credits: Musei Capitolini, Roma.

Oreste e Ifigenia fuggirono  per nave con la statua di Artemide e approdarono in Lazio. Qui Oreste morì e le sue ceneri riposarono ad Ariccia, dove furono seppellite dalla sorella Ifigenia. In seguito le ceneri furono disseppelite e trasferite a Roma e collocate sotto la soglia del tempio di Saturno. Appare di tutta evidenza il significato che il mito rappresenta in questo caso: il viaggio di Oreste sta a rappresentare la definitiva rottura della catena delle violenze familiari e il ristabilimento della pace che, infatti, segna l’avvento del secondo Romolo, Augusto; a questo si aggiunga la simbolica collocazione sotto la soglia del tempio di Saturno, padre di Giove, da cui ha avuto tutto inizio. Un eterno ritorno all’insegna della pace e dell’ordine preesistente alle guerre civili, almeno secondo la visione politica di Augusto.

Un’ altra versione, descritta da Erodoto (Storie, I, 68-69), ci racconta che le ceneri di Oreste si trovavano nella città di Tegea e la proteggevano dagli attacchi nemici, come un talismano. Gli Spartani, volendo conquistare Tegea, si impadronirono delle ceneri di Oreste e le trasportarono a Sparta, dove le collocarono nel tempio dedicato alle Parche. Anche Pausania concorda con questa versione.

Il quarto pignus era lo scettro del re Priamo, simbolo di pace. Verosimilmente era conservato sul Palatino ed era stato offerto da parte di Enea, assieme al diadema dello stesso Priamo, da Ilioneo al re Latino. Ce ne parla Virgilio nell’ “Eneide” (l. VII, v. 243 e sgg.)

Ed ecco (Enea) ti offre piccoli doni dell’antica
fortuna, reliquie salvate dall’incendio di Troia.
Con quest’oro il padre Anchise libava presso le are;
questo era l’ornamento di Priamo, quando, secondo il
costume, convocava e dava leggi ai popoli, e lo scettro e la sacra tiara,
e le vesti, lavoro delle donne di Ilio.
A tali parole di Ilioneo, Latino teneva fissi
il volto e lo sguardo, e immobile non li staccava dal suolo,
volgendo gli occhi intenti. Né tanto il re si commuove
per la porpora ricamata, né per lo scettro di Priamo,
quanto medita sulle nozze e sul talamo della figlia…

 Il velo di Iliona, la figlia maggiore di Priamo era il quinto talismano, probabilmente conservato nella parte più segreta del tempio di Vesta, il penus. Iliona era la sposa di Polimnestore, re di Tracia, a cui aveva dato un figlio, Deipilo. Il padre, Priamo, le aveva conferito l’incarico di educare suo fratello Polidoro, aggiungendo la custodia del tesoro della città di Troia. Iliona svolse con diligenza il suo compito, tanto che solo lei poteva distingere tra suo figlio e suo fratello, avendo educato Deipilo come fratello e Polidoro come figlio, per proteggerlo. Quando il marito Polimnestore, per impadronirsi del tesoro di Priamo, pensò di uccidere Polidoro, in realtà fece uccidere il figlio Deipilo.

Polimestore getta in mare il cadavere di Polidoro, in un disegno di Johann Wilhelm Bauer.
Credits: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bauer_-_Polydorus_Polymnestor.jpg

Così ci tramandono Servio nei “Commentari” e Igino nelle “Fabulae”.

Polymnestor legatorum dicta non repudiavit Deipylumque filium suum imprudens occidit arbitrans se Polydorum filium Priami interfecisse.

Virgilio ci consegna una versione differente, raccontando che Enea, approdato a Cartagine, dona a Didone lo scettro e il diadema portati da Iliona e il velo di Elena (Eneide, lI, v. 647 e sgg.).

Ordina inoltre di portare doni strappati alle rovine
iliache, un manto rigido per oro e ricami
ed un velo intessuto di croceo acanto,
ornamenti dell’argiva Elena, che ella aveva portato
da Micene dirigendosi a Pergamo ed alle nozze
proibite, dono mirabile della madre Leda;
inoltre uno scettro, che Iliona, la maggiore delle figlie di Priamo, aveva portato un tempo,
ed un monile per collo gemmato, ed una doppia corona di gemme ed oro.

 Polidoro, stante il racconto fatto da Enea a Didone nel l. III, sarebbe invece stato ucciso da Polimnestore e seppellito con poca cura nel Chersoneso tracico. Il resto è affidato ai versi terribili di  Virgilio e alle successive elaborazioni di tanti poeti che da quel racconto hanno tratto spunto.

Resta un dubbio: possibile che si sia confuso il nome di Elena con quello di Iliona? Certo, appare strano che i Romani abbiano scelto come talismano il velo di una donna che è stata individuata come causa dello scoppio della guerra di Troia. Ma è altrettanto vero che, se la guerra non fosse scoppiata, i Troiani esuli non sarebbero approdati in Lazio e Roma non sarebbe stata fondata. Pertanto, lo scoppio della guerra, a ben guardare, sarebbe parte del disegno provvidenzialistico voluto dagli dei.

Il sesto talismano era rappresentato dal terzo pignus di origine troiana (dopo lo scettro di Priamo e il velo di Iliona): il Palladio.

La Atena Giustiniani, copia romana della statua greca di Pallade Atena. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Athena_Giustiniani.jpg

Si trattava del simulacro di Minerva (Pallade) che era caduto dal cielo sotto il regno di Ilo, antenato di Priamo.

Consultato l’oracolo di Apollo, quello aveva risposto che la città di Troia si sarebbe conservata finché quel prodigioso simulacro fosse restato entro le sue mura. Ulisse e Diomede si infiltrarono nottetempo nella rocca e rubarono il simulacro.  Secondo la tradizione, fu portato nel Lazio da Enea, che lo aveva avuto da Diomede, assieme ai Penati della città di Troia e più tardi trasferito da Numa Pompilio da Albalonga al tempio di Vesta. Lì il Palladio era sorvegliato dalle Vestali, le sette vergini incaricate di mantenere sempre accesa la fiamma del fuoco sacro, ma poteva essere visto solo dalla Vestale Massima. Ad esso erano state aggiunte numerose copie dell’originale, per timore che potesse essere rubato. Solo la Vestale Massima sapeva riconoscere l’originale. Questo espediente, come vedremo, sarà applicato anche agli “ancilia”, il settimo talismano.

Gli “ancilia” erano gli scudi sacri di Roma. L’ancile  era il dono che Marte aveva fatto al re Numa Pompilio per scongiurare una pestilenza che affliggeva Roma ed era solo uno. Era caduto dal cielo ed era stato raccolto dal sovrano. Gli aruspici avvisarono che, finché si fosse custodito, la potenza romana sarebbe rimasta in piedi. Il re lo affidò ai sacerdoti Salii, perché lo custodissero. E per prevenire qualsiasi furto ne furono commissionati altri undici identici al fabbro Mamurio Veturio, che chiese come ricompensa di essere ricordato negli inni cantati dai Salii ogni anno nel mese di Marzo. Durante la processione, i Salii agitavano gli scudi saltando (da qui probabilmente il nome di Salii, dal verbo latino salire, saltare).

Ancile

Il fabbro Mamurio Veturio pare fosse originariamente un conciatore, che nel tempo è diventato protagonista di un rituale che si celebrava a Roma il 14 o il 15 Marzo: la folla portava in processione un uomo coperto di pelli (non il vero Mamurio Veturio, evidentemente) e lo colpiva con lunghe bacchette bianche. I Romani, infatti, dice Dumézil, avevano interpretato come un oltraggio al dio la riproduzione dell’ ancile originale in altre undici copie e, quando uno riceveva una solenne bastonatura, dicevano che “faceva il Mamurio”. La processione probabilmente era un rito primaverile di apertura del nuovo anno accompagnata dall’espulsione di quello vecchio, rappresentato da Mamurio. Ricordiamo, infatti, che la fine dell’anno per i Romani era a metà marzo.

Gli ancilia  erano collocati nel Sacrarium Martis (tempio di Marte Quirino), annesso alla Casa dei medesimi Salii. Sempre Servio ci informa che chi dovesse intraprendere una guerra entrava nel tempio e scuoteva gli scudi e l’asta del dio, dicendo: Mars, vigila!

Dovevano la loro forma, secondo quanto dice Ovidio (Fasti, III), al fatto di essere “recisi da ogni parte”.

Idque ancile vocat, quod ab omni parte recisum est,
Quemque notes oculis, angulus omnis abest.

E chiama ancile quello che è reciso da ogni parte,

e se lo guardi, tutti gli angoli svaniscono.

 Dopo la promulgazione degli editti di Teodosio si persero le tracce dei septem pignora. Non sappiamo quale direzione abbiano preso, se furono sottratti dai pagani dai luoghi dove erano custoditi per metterli in salvo, o se furono distrutti dai cristiani. Sappiamo però che con la loro scomparsa tramontò anche la potenza di Roma.

Advertisement
Articolo precedenteUna tomba greco-romana scoperta ad ovest di Assuan
Prossimo articoloLastre di marmo pregiato ritrovate nell’Insula Occidentalis di Pompei
Annamaria Zizza

Mi sono abilitata in Italiano e Latino e in Storia dell’Arte, sono passata di ruolo per l’insegnamento dell’Italiano e del latino nei Licei nell’anno 2000/2001.

Sono attualmente in servizio dal 2007/2008 al Liceo Classico “Gulli e Pennisi” di Acireale CT, dove ricopro il ruolo di docente a tempo indeterminato nel triennio del corso C.

Ho frequentato con esito positivo i seguenti corsi di aggiornamento/formazione:

– Didattica della lingua italiana;

– Tecnologie informatiche applicato al PNI e al Brocca;

– Valutazione scolastica;

– Valutazione e programmazione scolastica;

– Sicurezza nelle scuole;

– Didattica della letteratura italiana;

– Didattica della letteratura latina;

– rogramma di sviluppo delle tecnologie didattiche;

– Didattica breve nell’insegnamento del latino;

– Comunicazione

– Per una didattica della lettura e della narrazione;

– Autori, collane, libri, progetti editoriali: valorizzare la scuola attraverso la lettura;

– La dislessia

Ho tenuto in qualità di esperto due corsi PON sulle abilità di base per l’Italiano e uno sui connotati profetici nella Comedìa dantesca; ho svolto il ruolo di tutor in altri corsi PON ministeriali.

Sono stata per tre anni funzione strumentale nell’area “Supporto ai docenti”, direttrice di laboratorio multimediale, catalogatrice Dewey nella biblioteca scolastica, bibliotecaria, RSU, coordinatrice e segretaria di Consiglio di classe con frequenza annuale. Ho elaborato e tenuto il percorso di ricerca-azione “Sopravvivere alla vita: istruzioni per l’uso” nell’ambito della DLC.

Ho partecipato a svariate iniziative culturali come relatrice: dalla tavola rotonda organizzata dal Comune di Acireale sul saggio della prof.ssa Ferraloro inerente il romanzo di Tomasi di Lampedusa “Il gattopardo”, a conferenze di argomento letterario presso scuole, al progetto “Dante nelle chiese di Acireale”, organizzato dal vescovado (con relativa Lectura Dantis), al festival Naxoslegge con un’altra lectura Dantis e a presentazioni di libri.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here